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Vecchio 05-01-2005, 23.35.29   #1
Fragola
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e la loro pietà sia più perfetta

Nel Magma: Presso il Bisenzio

La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
e il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non mai visti prima,
pigri nell'andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: «Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
quando divampava e ardevano nel rogo bene e male».
Lo fisso senza dar risposta nei suoi occhi vizzi, deboli,
e colgo mentre guizza lungo il labbro di sotto
[un'inquietudine.
«Ci fu solo un tempo per redimersi» qui il tremito
si torce in tic convulso «o perdersi, e fu quello.»
Gli altri costretti a una sosta impreveduta
dànno segni di fastidio, ma non fiatano,
muovono i piedi in cadenza contro il freddo
e masticano gomma guardando me o nessuno.
«Dunque sei muto?» imprecano le labbra tormentate
mentre lui si fa sotto e retrocede
frenetico, più volte, finché‚ è là
fermo, addossato a un palo, che mi guarda
tra ironico e furente. E aspetta. Il luogo,
quel poco ch'è visibile, è deserto;
la nebbia stringe dappresso le persone
e non lascia apparire che la terra fradicia dell'argine
e il cigaro, la pianta grassa dei fossati che stilla muco.
E io: «E' difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi
e passava da altre parti». «Quali parti?»
Come io non vado avanti,
mi fissa a lungo ed aspetta. «Quali parti?»
I compagni, uno si dondola, uno molleggia il corpo sui
[garetti
e tutti masticano gomma e mi guardano, me oppure il vuoto.
«E' difficile, difficile spiegarti.»
C'è silenzio a lungo,
mentre tutto è fermo,
mentre l'acqua della gora fruscia.
Poi mi lasciano lì e io li seguo a distanza.

Ma uno d'essi, il più giovane, mi pare, e il più malcerto,
si fa da un lato, s'attarda sul ciglio erboso ad aspettarmi
mentre seguo lento loro inghiottiti dalla nebbia. A un passo
ormai, ma senza ch'io mi fermi, ci guardiamo,
poi abbassando gli occhi lui ha un sorriso da infermo.
«O Mario» dice e mi si mette al fianco
per quella strada che non è una strada
ma una traccia tortuosa che si perde nel fango
«guardati, guardati d'attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere d'orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è il nostro, che non è qui né ora,
volgiti e guarda il mondo come è divenuto,
poni mente a che cosa questo tempo ti richiede,
non la profondità, né l'ardimento,
ma la ripetizione di parole,
la mimesi senza perché né come
dei gesti in cui si sfrena la nostra moltitudine
morsa dalla tarantola della vita, e basta.
Tu dici di puntare alto, di là dalle apparenze,
e non senti che è troppo. Troppo, intendo,
per noi che siamo dopo tutto i tuoi compagni,
giovani ma logorati dalla lotta e più che dalla lotta, dalla
[sua mancanza umiliante.»
Ascolto insieme i passi nella nebbia dei compagni che si
[eclissano
e questa voce venire a strappi rotta da un ansito.
Rispondo: «Lavoro anche per voi, per amor vostro».
Lui tace per un po' quasi a ricever questa pietra in cambio
del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.
E come io non dico altro, lui di nuovo: «O Mario,
com'è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,
né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende».
Lascio placarsi a poco a poco il suo respiro mozzato [dall'affanno
mentre i passi dei compagni si spengono
e solo l'acqua della gora fruscia di quando in quando.
«E' triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso
[tempo e luogo
e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia,
ma sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa [sorte.»
E lui, ora smarrito ed indignato: «Tu? tu solamente?».
Ma poi desiste dallo sfogo, mi stringe la mano con le sue
[convulse
e agita il capo: «O Mario, ma è terribile, è terribile tu non sia dei nostri».
E piange, e anche io piangerei
se non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti.
Poi corre via succhiato dalla nebbia del viottolo.

Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito, mentre l'acqua della gora fruscia,
mentre ronzano fili alti nella nebbia sopra pali e antenne.
«Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri in un tempo diverso.
Prega che la loro anima sia spoglia
e la loro pietà sia più perfetta.»

Mario Luzi
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Vecchio 05-01-2005, 23.48.18   #2
Fragola
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Mario Luzi L'opera poetica

Introduzione di Stefano Verdino al libro "L'opera poetica"

Non esiste un poeta di così lungo corso e sempre in ascolto come è Luzi, il cui itinerario poetico (oltre sessantacinque anni) non ha mai comportato una pigra amministrazione delle proprie ricchezze, ma si è sempre prodigalmente speso, e tuttora si spende, in diverse avventure dell'immaginazione con un esito di molteplicità che non ha eguali nel nostro secolo. Diversamente da altri importanti poeti della sua generazione come Bertolucci, Caproni e Sereni, Luzi è stato pressoché‚ subito riconosciuto: la sua era un'«immagine esemplare» (secondo una famosa definizione di Bo) già nel 1940 -"Avvento notturno" segnava allora il culmine dell'ermetismo-, quando il poeta non ancora ventiseienne viveva in quella capitale della letteratura italiana che era la Firenze degli anni Trenta, la città allora di Montale, Gadda, Palazzeschi, Vittorini, Gatto, Landolfi, Bilenchi, Pratolini e altri. Il precoce riconoscimento comportò anche un'etichetta -Luzi poeta ermetico, anzi il poeta ermetico per antonomasia- che, mai respinta dal poeta fedele alla propria giovinezza, si è sempre più mostrata limitante e inadeguata via via che Luzi andava pubblicando nuovi volumi, anche se sopravvive pigramente nella vulgata scolastica, dove a poesie come "Avorio" tocca in sorte la documentazione, anch'essa esemplare, di un'esperienza estrema e acrobatica dell'analogismo simbolista italiano. L'accantonamento sbrigativo dell'ermetismo nel dopoguerra accreditò altrettanto presto l'immagine di un Luzi epigono di una stagione scaduta, senza tener conto di quanto il poeta andava nel frattempo elaborando; ciò ha comportato una sottovalutazione analoga e opposta a quella di Caproni, questi confinato in un'inaccettabile minorità, l'altro chiuso in una notorietà che si credeva non più produttiva. Così negli anni Cinquanta i neorealisti e negli anni Sessanta i novissimi valutavano la poesia di Luzi come il fondo di una pagina da voltare, secondo la perfida espressione di Sanguineti, mentre al contrario l'elaborazione della poetica dell'autore fiorentino andava preparando una svolta radicale, tale da restituirlo -in barba ai suoi troppo impazienti obliteratori- come uno dei principali interlocutori dei più giovani poeti dagli anni Settanta ad oggi. A ripensare questa lunghissima parabola, che vede Luzi dialogare all'inizio con Montale e Betocchi e in tempi recenti con Viviani e De Angelis, si rimane sorpresi da una vivacità creativa sempre risorgente, fedele a un suo codice, ma continuamente mobile nelle sue realizzazioni e tale da costituire davvero un gran viaggio di immaginazione e conoscenza, promesso d'altronde fin dall'avvio della sua ricerca espressiva.

[...]

E' stato Giovanni Giudici, una ventina d'anni fa, a rimarcare la «coerenza» di Luzi che «proprio liberandosi della sua cultura e con essa in continuo antagonismo, è riuscito a conquistare una rara pienezza». E' un'affermazione che rende sinteticamente l'esito del vasto procedere dell'opera luziana: la fedeltà ad alcuni elementi primi (evidenti già in "La barca") si intreccia a un continuo e vasto rinnovamento, che vede quel principio metamorfico, suo tema prediletto, sistematicamente presente nella dinamica dei testi; ne deriva un procedere molto teso per continuità e discontinuità, una dinamica nella quale possiamo inoltre osservare il singolare fenomeno di una poesia che, caratterizzata da una sua prima identità negli anni ermetici di "Avvento notturno", con una nozione molto precisa di "cultura", successivamente tende ad allontanarsene, come osserva Giudici, per ritrovare il "discorso naturale". La vastità dell'opera luziana fa sì che egli sia un poeta plurimo come pochi e che sia emblematico di stagioni tra loro diverse: il primo Luzi (fino agli anni Cinquanta) è significativo rappresentante di una lirica esistenziale (soprattutto con Sereni, suo prediletto interlocutore in poesia) di derivazione ben più montaliana di quanto l'appariscente orfismo di alcune sue punte ermetiche faccia supporre. Egli risalta in tale ambito per la tensione etica alla non disperazione (pur se intimamente attraversata), al superamento del «male di vivere» per «il giusto della vita», in virtù di una consonanza cristiana (ma anche leopardiana) dell'essere «ciascuno e tutti insieme» a vivere. Proprio qui si apre la svolta: il punto di vista non è più tra l'io e la realtà, non c'è più giudizio (o pregiudizio): l'io come tutti e tutto è nel flusso, è attraversato dalla vita, come è attraversato dalla parola: il poeta assume per sé‚ il ruolo umile e superbo di scriba, in un rinnovamento degli istituti del dire poetico e delle prospettive fondamentale per il tardo Novecento, affine, per quanto diversissimo, all'altro prediletto compagno di poesia, Giorgio Caproni. E' la stagione poetica che, dopo la svolta di "Nel magma", inizia a pieno regime con "Su fondamenti invisibili" e fa la grandezza del Luzi di tardo Novecento, poeta della «pienezza» (per tornare all'espressione di Giudici), rispetto alla spettralità di Caproni. E va riconosciuto il coraggio di una poesia che, per quanto allarmata dal nefando della storia, dice un raro (o forse unico) "sì" a una vita naturale, che per altri sembra una chiave perduta, nonostante sussistano pur sempre i segnali di essa.
Se negli anni giovanili la poesia di Luzi, sigla di una convulsa interiorità, si costituiva momentaneo e precario blocco formale, successivamente i testi si configurano come progressivi e aperti, perché‚ orientati verso la nascita intesa come «non un luogo, non un tempo determinato, ma il sorgivo stesso, l'aperto» (Cacciari), mentre «la parola, sulla pagina, si muove pià rapida, forse più inquieta» chiamata a seguire «i percorsi, gli scatti, il respiro del pensiero» (Raboni). Luzi, per quanto nei modi così diversificati che abbiamo descritto, è sempre stato un poeta dell'estremismo; può sembrare paradossale dire questo di un poeta da sempre bersagliato dagli avanguardismi, ma esistono diversi tipi di estremismo, anche laddove può aver vigore la tradizione e la misura (e d'altronde Manzoni non era, a suo modo, un estremista, in letteratura?). L'estremismo nasce dal fatto che per Luzi la parola della poesia, come ogni parola umana e ogni segno, non può che misurarsi con un'altra parola, cioè la Rivelazione: laddove Caproni sconta la propria «ateologia», Luzi non dubita della «travolgente nascita»; il dubbio è invece sulle possibilità umane di ricezione del messaggio, da cui l'ardua difficoltà di tale captazione. A questa meta mira il perenne statuto di viaggio (diversamente centrale anche in Caproni) della sua poesia da "La barca" a "Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini" e oltre, nelle poesie in elaborazione.
Questo viaggio implica una tensione particolare del testo che si può agevolmente definire come vocazione al sublime, motore del dinamismo e del taglio linguistico di tipo "alto": inizialmente la difficoltà di Luzi era trovare la via al sublime dentro il "bello", che tanto ha sostanziato il suo primo tempo, mentre poi è risultato più agevole trovare l'"alto" incastonato nel "basso" delle sue scelte prosastico-poematiche. Anche la vocazione al sublime è un tratto raro, proprio per la sua diversificata costanza, rispetto alla scissione di tempo tragico e comico in Montale, ma è scelta condivisa nel tardo Novecento, a suo modo, sempre dal fraterno Caproni. Ma il sublime di Caproni si alimenta, come ha notato Surdich, di una dislocazione metaforica di un codice quanto mai standardizzato (la «segnaletica stradale» cara al poeta livornese), mentre il sublime di Luzi vive di una multipla tradizione letteraria, riportata dal suo epilogo a una nuova sorgente. E questa esperienza rinnovata di sublime non è certo stata senza significato per i poeti più giovani come Viviani e De Angelis.

Ma a chi somiglia Luzi? Alla fine di questo periplo risalta il fatto che un poeta nato da una genealogia tanto "novecentesca" alla svolta di secolo appaia così lontano da quella. Ma chi somiglia a Luzi? Chi è vicino al suo intreccio di naturalità e poesia-pensiero? Francamente, non sovvengono molti nomi. Uno, però, si impone sempre di più, quello di un musicista, di Olivier Messiaen, che nelle sue libere modalità partecipa della comune convinzione di essere testimoni transitori di un qualcosa che continuamente avviene. E al lettore che gusterà le "Frasi nella luce nascente" non resta che consigliare di accompagnarle con l'ascolto degli "Éclairs sur l'Au-Delà"...

Stefano Verdino

Genova, luglio 1998
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Vecchio 06-01-2005, 09.48.43   #3
VanLag
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Re: e la loro pietà sia più perfetta

Citazione:
Messaggio originale inviato da Fragola
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Mario Luzi
.................Sembra musica....... Musica e vita.
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