Le Finestre dell'Anima
di Guido Brunetti indice articoli
La spiritualità: un'esigenza fondamentale dell'uomo. Il contributo della letteratura mondiale
Ottobre 2017
Da sempre, l’uomo ha avvertito la seduzione del trascendente e la nostalgia dell’anima insieme con il bisogno di spiritualità intesa come una dimensione trascendentale, oltre cioè alla realtà materiale. Il concetto di spiritualità riguarda i valori dello spirito, il mondo dei sentimenti, delle idee, dell’immaginazione, delle credenze, della divinità.
Nell’ambito di questa esigenza fondamentale dell’essere umano, tutte le culture e le religioni hanno riconosciuto l’esistenza di un’anima immortale. Sia la narrazione scientifica che la narrazione filosofica e teologica sostengono che l’idea di anima, di Dio è innata.
Nella filosofia e nella letteratura, a partire dagli autori antichi, sono presenti le questioni fondamentali e universali dell’essere umano e del mondo, come, per l’appunto, la dimensione spirituale, il senso della vita, il problema del male, la trasfigurazione dell’esistenza, la tensione e il sentimento dolente di solidarietà universale, la religiosità.
Su questa linea si pone la nostra concezione dell’uomo e del mondo. All’uomo razionale di Cartesio, che vive a due dimensioni, quella fisica e quella psichica, noi abbiamo aggiunto un terzo elemento, l’irrinunciabile sfera spirituale. Per noi, l’essere umano si declina in tre dimensioni. Un essere tutto intero: corpo (cervello), mente e anima. Un essere unico e trino: fisico, psichico e spirituale.
Questa visione ha il mandato di porre un solido fondamento di una nuova idea dell’uomo. Un “uomo-microcosmo”, sintesi dell’universo, situato, d’accordo con Platone, tra il mondo dell’Essere e il mondo della realtà. È un tentativo di scoperta totale dell’essere umano, principio di integrale formazione morale, analisi e comprensione di problemi metafisici visti nell’ambito del grande tema della dignitas hominis e nel solco di una profonda ispirazione morale e religiosa, dove tutte le forze spirituali del soggetto possono trovare la loro “definiva manifestazione”, nella proiezione dell’avvento di un regnum hominis già teorizzato dalla tradizione filosofica e letteraria greca. Sono argomenti essenziali della persona che attraversano invero il sapere filosofico e letterario di ogni epoca.
In questi ultimi anni poi gli straordinari progressi delle neuroscienze ci hanno fornito una enorme quantità di conoscenze sulla mente, la coscienza, gli stati interiori e il cervello.
In un’era di desacralizzazione, questa concezione intende affermare con forza quella coscienza, quel radicato senso di spiritualità e religiosità, che nasce da un bisogno biologico, innato, primigenio dell’uomo, come conferma il premio Nobel per la medicina C. de Dune, secondo cui l’istanza religiosa è “profondamente radicata nella nostra stessa natura. Essa è connaturata all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo”. Questo bisogno primordiale - nota il filosofo R. Debray - esprime l’esistenza di un “punto sublime, di un riferimento ideale che sussiste sia nel passato sia nel futuro”.
L’inclinazione al sacro è stata già sostenuta oltre duemila anni fa da Cicerone, il quale scrive: “Non esiste nessuna razza umana che non creda in Dio”, confermando così la “disposizione al sacro dell’uomo, tendenza che assume un carattere antropologico universale”. Negli autori greci, a partire dai poemi omerici a Esiodo e Senofonte, è avvertita l’importanza della dimensione spirituale e religiosa, che accentua il carattere divino della natura umana e di quella universale. Essa poi è profondamente radicata nella Bibbia. Anche l’etica della medicina ippocratica si rivela fondamentalmente religiosa, una religiosità antropologica condivisa e avvalorata da Platone, il quale consegna all’uomo la possibilità di divenire immortale e quindi rendersi simile a un Dio (Burkert).
Il concetto di “anima” e di “cura dell’anima” è spiegato da Platone nel “Fedone” come sostanza spirituale e immateriale indipendente dal corpo e immortale. A sua volta Socrate sostiene che l’essenza della natura dell’uomo sta nella sua psyché, ossia nella sua anima e quindi in ciò che consente all’individuo di diventare “buono o cattivo”. Egli, per il filosofo greco, deve soprattutto occuparsi della sua anima in modo che essa diventi “migliore il più possibile”.
Sono temi che stanno tornando “prepotentemente sulla scena” - come concorda il medico e scienziato Veronesi - nonostante un processo di secolarizzazione e in presenza di un mondo caratterizzato da un diffuso malessere, angoscia esistenziale, incertezza e insicurezza.
Un rilevante contributo alla comprensione di questi fondamentali argomenti ci è fornito oltre che dalla filosofia e dalle neuroscienze dai classici della letteratura mondiale. Noam Chomsky sostiene al riguardo che noi possiamo apprendere più dalla narrativa che dalla psicologia. La letteratura è una rappresentazione molto incisiva delle vicende umane e della coscienza. La narrativa, per esempio, soprattutto con i grandi autori russi dell’Ottocento, come Puskin, Gogol’, Turgenev, Tolstoj, Cechov e Dostoewskij, è riuscita a porre in primo piano - come concorda un autorevole studioso, L. Dal Santo - l’irrinunciabile tema della spiritualità e della religiosità. Si tratta di un contributo incomparabile, di un modello distintivo nel delineare un’antropologia della persona, un segno caratterizzante nell’analizzare problemi cruciali dell’esistenza, il senso della vita, la ricerca continua dell’Assoluto, del sacro, del trascendente, di Dio. Questioni universali che riguardano - come ha asserito Pascal - “la grandezza e nullità dell’uomo”.
Nell’ambito di questa ampia, complessa e profonda concezione dell’esistenza, si colloca anzitutto un grande poeta e scrittore, Aleksandr Puskin (1799-1837). Definito da Dostoewskij “il prototipo dell’uomo universale”, Puskin si oppone ad ogni forma di materialismo per l’affermazione di una “coscienza della libertà”, intesa quale servizio reso alla divinità e quale libera risposta “all’appello rivolto all’uomo da Dio”. C’è – afferma - una legge suprema ed eterna: la legge divina della verità e della giustizia, una verità che ci trascende. La sua si pone, è stato sostenuto da alcuni critici, come “un’opera rivoluzionaria” per il suo carattere spirituale.
Nel filone dell’opera di Puskin s’inserisce un altro grande autore, Nikolaj Gogol’ (1809-1852), il quale s’interroga continuamente sul senso della vita, sulla ragione della sofferenza e sulle verità interiori e superne in direzione della salvezza dell’uomo e del suo affrancamento dal male e dal dolore. È molto sentita in lui l’istanza di “rigenerazione morale e l’urgenza della questione spirituale e religiosa”. Ed è proprio la sua opera a ispirare, secondo alcuni autori, il carattere morale e religioso della letteratura e della cultura, le quali si rivelano pertanto “giovevoli all’anima”. Il suo grande merito è quello di aver avviato sia la trasformazione in senso morale e metafisico della letteratura sia la fondazione di “una teologia della cultura” sentita come “una reale cristianizzazione della vita, e come trasfigurazione religiosa dell’esistenza”. Contro la piattezza e la volgarità del quotidiano, l’arte, per Gogol’, assume il carattere di una declinazione morale, spirituale e religiosa.
Nelle “Anime morte” è rappresentata in maniera esemplare il dramma esistenziale della vita, la “noia universale” e “quel mortifero taedium vitae”, che è “peggiore- precisa- di qualunque guerra, sciagura o minaccia”, poiché “corrode il mondo creato”. Contro un mondo soggiogato dal male, occorre perseguire l’idea dell’autoperfezionamento morale attraverso “l’ansia della Grazia” e l’orrore della disperazione.
La sua visione diventa espressione dolente di “solidarietà universale” volta a risolvere il male del mondo e la secolarizzazione, “malattia mortale” - secondo Dal Santo - dell’Ottocento e del Novecento.
“Siate anime resuscitate - scrive Gogol’- e non anime morte”.
Con Puskin, Dostoevskij e Tolstoj, Ivan Turgenev (1818-1883) pone in risalto la comprensione e la “irripetibile interiorità” della persona, il suo sentimento spirituale e l’emergere di una coscienza morale considerata come espressione di un’autorità esterna, superiore. Nella sua opera, egli esprime forti e drammatici conflitti interiori in un mondo dominato dalla forza cieca del male, dall’angoscia e dalla percezione tragica dell’esistenza.
In linea con la visione dell’umanità di questi autori, si pone anche Lev Tolstoj (1828-1910), il quale non si limita a raffigurare la complessa e multiforme realtà del mondo, ma è fortemente motivato da un’assidua ricerca spirituale e morale, al fine di “trasformare e migliorare la vita terrena”. La quale, smarrito Dio, vive una grande tragedia umana.
La sua opera assume i toni - come rilevano i maggiori critici - di “una religione dello spirito semplice e lineare”, di un cristianesimo “chiaro e trasparente, attraente e seducente, schietto e umile”. Un cristianesimo fondato sul bene e sulla solidarietà. Egli esalta il sentimento spirituale, e la dimensione dell’Io e della sua unità bio-psichica.
Più che ottuagenario, all’approssimarsi della morte, Tolstoj, novello Gilgamesh, fugge attraverso la gelida steppa con la rinuncia ai beni e agli affetti familiari in cerca della comprensione dell’essenza della vita e di un mutamento e di una crescita spirituale. È una fuga verso l’Assoluto, verso la vita oltre la vita, una vita che trascende il finito, e si fa “suprema salvezza”.
I grandi interrogativi dell’esistenza sono anche al centro dell’analisi di un altro celebre scrittore, Anton Cechov (1860-1904). Un autore umano e raffinato, ricco di verità e poesia. Come medico, amò la scienza, che considerava una vittoria dell’umanità. Egli rappresenta la realtà della debolezza umana, i suoi vizi e le sue bassezze. Descrive l’uomo, sempre con uno sguardo di simpatia, come “l’animale più rapace e depravato”. Tutta l’umanità – dice - sta andando nella direzione di una “degenerazione” e di una “totale perdita di ogni valore spirituale”. È una umanità amara, talvolta tragica, spesso comica, ma sempre considerata da lui, medico e poeta, attraverso sentimenti di compassione e pietà.
La sua opera ci mette a contatto con tipi umani delle classi più disparate: medici, attori, pittori, impiegati, modesti insegnanti e grandi professori universitari, miseri contadini e ricchi proprietari terrieri. Squarci di vita, rimandi inquietanti sul significato di storie, figure, avvenimenti. E infine l’elogio della cultura, della conoscenza, del libro.
“Come soddisfare i bisogni della mia anima? Non c’è nulla - risponde Cechov - meglio di un libro”. Lo studio è “luce”, l’ignoranza è “tenebra”. Nella religione e nella filosofia, noi – chiarisce - possiamo trovare non solo consolazione, ma talora felicità. “Quanto più un uomo ha sviluppato le proprie doti intellettuali e morali, tanto più è libero, tanto più piacere trae dalla vita”.
Per Cechov, l’autentica vocazione dell’uomo è “dedicarsi alla religione, alla scienza, all’arte, non alle sciocchezze”. L’essere umano, ripete con Socrate, “deve pensare all’anima, a Dio, cercando “di esprimere le proprie potenzialità spirituali”. La sua vocazione è di “cercare la verità, il senso della vita”, per tendere “all’eterno e all’universale” in virtù della “prevalenza dei valori dello Spirito su quelli del corpo”.
Con Fedor Dostoevskij (1821-1881), definito il “veggente dello spirito”, ha inizio una nuova era - come sostiene Dal Santo - nella ricerca dell’interiorità dell’uomo e dei problemi più drammatici e urgenti dello spirito. Il suo grande pregio è quello di riuscire a cogliere “la scintilla divina” presente nell’essere umano, la sua angoscia e la tragedia religiosa dell’Occidente, che ha smarrito il Cristo. Egli scava in profondità tutti i problemi legati alla natura sfingea dell’essere umano. Descrive la tragicità dell’esistenza, il dolore umano, il male e il dramma dell’anima senza fede in Dio e nell’immortalità.
L’uomo, per Dostoevskij, è un mistero. La sua missione è quella di “sciogliere” questo mistero. Tutti i personaggi dei “Fratelli Karamazov” nascondono un enigma, qualcosa di incomprensibile. Ma i protagonisti di “Delitto e castigo” hanno visi in cui “già splendeva l’aurora di un avvenire rinnovellato, di una completa resurrezione per una nuova vita”. È una luce di speranza, che non nasce dall’uomo, cioè dalla sua struttura fisica e psichica (materia), ma dalla sfera spirituale, qualcosa cioè di “superiore”, l’unica in grado di spiegare la dimensione trascendente della persona, sempre animata dalla speranza e dalla Provvidenza.
Alla base della sua antropologica, c’è la visione di un soggetto che è “portatore” e “centro” di spiritualità, di atti spirituali. I suoi personaggi esprimono una forza irresistibile che proviene dal Dio cristiano. Essi crescono, si evolvono e alla fine riescono a trovare “una voce trascendente”. Emerge con prepotenza un’estetica cristiana che ha al suo centro - come ha scritto Jackson - “l’immagine di Cristo”. Un’immagine che rappresenta il modello interiore e trascendente, archetipo di ogni paternità presente in tutti gli uomini. È l’idea di Sant’Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine abitat veritas”. Per questa via, il nostro autore, definito il discepolo di Sant’Agostino, riesce a raffigurare “tutte le profondità dell’anima umana”.
L’uomo di Dostoevsckij s’immerge infatti “nelle profondità dell’io” per coglierne le radici interiori e trascendenti del proprio essere. Si tratta di una interiorità, che non annega nell’angoscia e nella solitudine, ma si fa “luce interiore” mediante la quale l’individuo “trascende ogni creatura”.
E’ un processo che porta l’autore a “scavare” a fondo tutti i problemi dell’animo umano, come il tenebroso mondo delle sue passioni, le sue pulsioni istintive, i suoi conflitti più intimi, la sua ontologica finitezza, il suo dolore. Riesce poi a rappresentare il “degradante irrompere” dei tempi nuovi, un universo “disertato da Dio”, un mondo dove “l’empietà è la norma”. È la condizione tragica della vita caratterizzata dalla dicotomia fra Bene e Male, Amore e Odio.
In questa visione, s’impone un Io superiore all’ Io psicologico, un Io che trova pace e felicità nella misteriosa “visita dall’alto”. È l’anelito dell’essere umano a superare se stesso e “rivelare” la propria “radice trascendente”, una condizione attraverso cui egli riceve “la visita di Dio”.
Sònia in “Delitto e castigo” vede in Dio morto e risorto “l’unica possibilità per restituire all’uomo la sua integrità”, ristabilendo in lui “la presenza del divino” (Cantelli).
Affiora nella sua opera una dialettica religiosa, un cristianesimo autentico insieme con la rappresentazione di “una umanità degradata”, che assume “un valore metafisico” e di una natura umana divisa fra “l’abisso nichilistico del dubbio” e “la trasfigurazione religiosa”.
È soprattutto nelle “Memorie della casa dei morti” che Dostoevskij opera “un’ascesa” verso la consapevolezza della natura perenne del dolore umano.
Il dolore umano? Di fronte alle sofferenze di Cristo, nessuno – precisa - può lamentarsi delle proprie sofferenze. In ciò sta lo “scandalo” di Cristo, lo scandalo di aver voluto soffrire benché innocente.
In questa concezione c’è la percezione della drammaticità del dolore umano e del problema del male descritti con grande intensità in tutte le loro forme. Per risolvere il problema del male, secondo il grande romanziere russo, è “indispensabile” la credenza in Cristo, il quale è “l’ideale eterno dell’umanità”.
Di fronte alla sofferenza ingiusta, al dolore inutile dell’innocenza, Dostoevskij esprime un forte sentimento di “ribellione”. “Perché muoiono tanti bambini innocenti? Perché muoiono tanti innocenti e vivono tanti individui malvagi? La malvagità regna e fiorisce. La bontà è derisa”.
L’analisi dei problemi più drammatici e cogenti dello spirito conduce Dostoevkij a intuire lo “sconvolgimento” creato dalla negazione di Dio e la tragedia religiosa dell’Occidente, fondando un’antropologia che anticipa l’angoscia dell’uomo moderno. “L’Occidente – dichiara - ha smarrito il Cristo, ed è per questo che muore”.
“Voi negatori di Dio e del Cristo – aggiunge - non avete riflettuto che senza il Cristo tutto il mondo sarà infettato e bacato. Scartando il Cristo, voi derubate l’umanità dell’ideale inaccessibile della Bellezza e del Bello. Respingendo Dio, l’uomo cerca di sostituirsi a lui e di affermare la sua volontà di potenza. Chi nega Dio nega l’uomo, e chi nega l’uomo nega Dio”. “Se Dio non c’è - spiega Dostoevskij - tutto è permesso. La coscienza senza Dio è spaventosa, essa può smarrirsi fino a commettere le cose più immorali, può condurre al parricidio”. Per questa via, l’umanità “arriverà a distruggersi con le proprie mani. Invece, sapere che c’è Dio è già tutta la vita”.
È dunque lo spirito - come concorda Lubac - “che fa per eccellenza l’uomo, ciò che costituisce il suo valore unico tra gli esseri di questo mondo, ciò che fa di lui un essere superiore al mondo”.
Dalla rappresentazione di questa complessa, vasta e multiforme visione, Dostoevski riesce con finezza di filosofo e genialità di scrittore a cogliere dunque “la scintilla divina” che è presente nell’essere umano, e l’apparire di una coscienza concepita come manifestazione di un Ente esterno, supremo.
Leggendo nell’uomo il nome di Cristo, alla fine Dostoevskij riesce a risolvere il mistero dell’uomo, lanciando al mondo un messaggio di speranza, di salvezza, di luce. “Prima o poi – annuncia - si realizzerà la verità del Cristo sulla terra”. La sua è una spiritualità, una religione della “resurrezione”, la fede nell’immortalità. Una “resurrezione” sostenuta dalla Bellezza intesa come possibilità di penetrare l’essenza dell’uomo e delle cose, come potenza salvatrice, come Bene e dimensione etica e religiosa. Una potenza salvifica che s’identifica con il “Cristo medesimo”.
Dio, per l’autore di “Delitto e castigo” è necessario per l’ordine del modo. E se non ci fosse, “bisognerebbe inventarlo”. Nel solco di una concezione paolina e husserliana, l’uomo quindi si costruisce con una interiorità a “immagine di Dio”. È quel centro divino che è presente nel cervello umano, come hanno mostrato le straordinarie scoperte delle neuroscienze. Si tratta di una sostanza spirituale, l’unica in grado di spiegare la dimensione del trascendente.
Conclusione
La nostra ricerca sui massimi argomenti dell’esistenza umana e sull’opera di molti classici della filosofia e della letteratura mostra l’anelito e il bisogno innato dell’essere umano di porsi oltre la sua dimensione biologica e psichica per rivelare il proprio codice spirituale, trascendente, e la presenza in lui del divino. Ci troviamo nell’alveo di una tradizione filosofica e letteraria impregnata di “metafisica cristiana”. Al fondo delle loro concezioni, c’è una grande forza di speranza, unita al valore della “salvezza religiosa”. In tutti sembra infine aleggiare il sentimento della pietas, “la più importante, l’unica legge, per Dostoevskij, dell’esistenza umana”.
Noi riteniamo che l’essere umano non possa rinunciare al carattere del trascendente dal momento che l’individualismo e il razionalismo post-illuministico hanno snervato i legami sociali e morali, e il senso di solidarietà tra gli individui. In proposito, il filosofo R. Bragne, dopo aver denunciato le “derive” del cattolicesimo susseguente al Concilio Vaticano II, ha scritto che l’umanesimo e il cristianesimo si sono ridotti ad un “umanismo” e ad un “cristianismo, ovvero a un “evanescente dialogo con l’altro”, ad un generico solidarismo.
Tutto ciò ci spinge a sostenere con energia l’avvento di un nuovo, rigenerato umanesimo. Noi sogniamo un nuovo umanesimo. Partendo da quella che ci sembra essere l’essenza dell’umanità: “Conosci te stesso”, cioè chi sono io? Cosa è la persona? E qual è il senso della vita e del suo futuro?
È il “conformarsi” dell’uomo all’immagine di Dio, fatto che rappresenta la conclusione dell’itinerario letterario e spirituale di Dostoevsckij.
Oggi, 2000 anni d. C., il secolarismo avvolge l’umanità. L’uomo è incapace di guardare oltre, alla ricerca di qualcosa che dia un senso alla sua esistenza. L’oltre - Dio, anima, invisibile, mistero, sacro - si è dissolto. La società contemporanea è una società atomizzata e secolare, che non va oltre i suoi angusti confini, al di là dei quali non esiste nulla, tantomeno Dio e l’anima immateriale e immortale. Essa si è svuotata del divino; la spiritualità è stata espulsa; le credenze, le religioni sono state distrutte. L’unica religione rimasta, come concordano altri autori, è la religione secolare, ovvero il rifiuto di ogni verità assoluta e dell’esistenza di un Creatore. La cultura dominante purtroppo non si cura di comprendere che di fatto tratta come verità assoluta la religione di essa.
Guido Brunetti
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