Le Finestre dell'Anima
di Guido Brunetti indice articoli
Il tramonto del padre
Novembre 2017
Frequenti casi di omicidio di uno o entrambi i genitori da parte di figli fanno riemergere il complesso e delicato rapporto tra ragazzi, famiglia e scuola. Un rapporto che presenta molteplici sintomi di disagio e di crisi individuale e collettiva.
Come concordano autorevoli studiosi, molti mali della società contemporanea sono dovuti al fatto che viviamo in un’era senza padre, essenzialmente materna e maternistica. Il padre non rappresenta più il modello di riferimento. Appare goffo, inadeguato, insicuro, non abbastanza sano da poter sopportare la malattia normale dell’adolescenza. Negli anni, si è affermata una concezione del bambino come soggetto in grado di decidere in modo autonomo, dando vita a un paradigma educativo fondato sul “laissez faire”, sul lassismo, e sul consumismo. Fatto che alimenta continuamente desideri perennemente insoddisfatti. Una condizione che trasforma l’adolescente in tiranno frustrato, infelice e depresso e il padre in un essere spersonalizzato, incapace di trasmettere principi e valori. Un padre senza eredità culturale e morale, senza identità.
Si viene a creare un soggetto incapace di rispondere alle frustrazioni e ai numerosi problemi che la vita ci pone continuamente. I ragazzi si mostrano delusi, demotivati, aggressivi, senza prospettive. Una situazione che fa emergere sempre più una fragilità emotiva e una personalità immatura sia nei ragazzi che nei genitori.
In realtà, il padre è un’esigenza dell’infanzia, una figura che protegge e dà sicurezza, generando nei figli modalità essenziali di percepire il mondo. Egli proietta un modello di vita e di comportamento. “Non saprei indicare, scrive Freud, un bisogno infantile di intensità pari al bisogno che i bambini hanno di essere protetti dal padre”. Un padre che contribuisce in maniera decisiva alla formazione morale e intellettiva del bambino.
Il “disfacimento paterno” ha molte facce, come la dimensione simbolica e quella legata ai divorzi, un fenomeno del XX secolo che favorisce la scomparsa dei padri dalla famiglia.
Una società senza padre è una società, per il medico e psicoanalista tedesco A. Mitscherlich, in cui c’è una “totale svalutazione” della figura paterna, senza alcun investimento emotivo ed affettivo, priva di processi evolutivi di identificazione e dunque carica di sentimenti di frustrazione, impotenza e aggressività. Oggi, la società, in preda ad una crisi di identità, mentre tende a sopprimere questa figura, risulta incapace di modificarne l’immagine e il ruolo, alimentando nel bambino nuove fonti di angoscia. Siamo di fronte ad una società piena di adulti “bambinizzati” e di bambini “adultizzati”. Anche la coppia è scomparsa. Non esiste più la concezione della famiglia come “unione”, secondo l’idea di Paolo del “duo in carne una”. L’acquisizione da parte della donna di ruoli considerati maschili ha dato il via all’accoglienza di aspetti più femminili da parte dell’uomo. Il mondo degli adulti, pensiamo ai modelli proposti dal mondo della moda e della televisione, presenta sempre più archetipi di incerta identità. Non si sa se essi siano maschi o femmine.
La spinta antiautoritaria comincia a crescere agli inizi degli anni Sessanta, quando prende l’avvio la nascita di società prive di gerarchie che l’autore da noi citato chiama “società senza padre”. Nell’era definita “ipermoderna” o “postmoderna”, l’ideale paterno è in “disfacimento” (Recalcati), è un totem da abbattere in quanto simbolo di una società patriarcale. Cresce così una situazione di degrado etico espressa da crimini commessi contro i propri genitori o i propri figli insieme con una molteplicità di comportamenti che riducono l’esistenza a una continua ricerca edonistica e individualistica. Tutti sintomi di una patologia dalla quale affiora la scomparsa del padre.
In psicoanalisi, il padre è l’interdizione, la negazione del desiderio edipico, un padre-padrone, un essere tirannico, oggetto di odio da parte dei figli. Un odio che finisce per condurre i figli a ucciderlo. Un’uccisione simbolica che tuttavia porta a una società destrutturata e priva di norme consolidate.
La nostra epoca è dunque “segnata” dalla morte del Padre, dalla morte di Dio, come aveva proclamato Nietzsche. Avendo ucciso Dio, l’uomo deve rispondere alla propria finitezza. In tal modo, la morte di Dio annuncia la fine del suo uccisore. La morte del Padre comporta l’assenza di principi e valori. Se Dio non esiste - scrive Dostoevskij - tutto mi è permesso. Vengono chiuse le porte alla ragione e alla formazione sociale, etica e mentale dell’individuo nel segno di un permissivismo patologico e immorale, “scavalcando tutte le barriere morali”.
È soprattutto la filosofia e parte della letteratura a mostrare che l’uomo sta scomparendo, dopo due secoli di primato della ragione senza Dio, un lungo percorso che de Lubac ha sintetizzato nel concetto del “dramma dell’umanesimo ateo”. Se dunque Nietzsche annuncia la morte di Dio e se nelle stragi e nel male ricorrente è morto anche l’uomo, occorre trarre da ciò la consapevolezza dei “limiti” dell’essere umano.
Il padre, avviato sul viale del tramonto, ha già perduto l’esclusiva della “patria potestas” e sta perdendo quella del cognome da trasmettere ai figli.
Un tempo, invece, il nome di “pater” esprimeva una molteplicità di significati. Si applicava a tutti gli dei, era un simbolo di “rex”, aveva in sé non solo l’idea di paternità, ma quella di potenza, autorità, dignità maestosa. Sui figli e su tutti i membri della famiglia, egli disponeva di “jus vitae ac necis”.
Nella Bibbia, il simbolo paterno ha radici culturali. L’invocazione della divinità sotto il nome di padre è uno dei fenomeni primordiali nella storia delle religioni. Si tratta, per Freud, di un processo di proiezione della figura paterna, tipica sia della famiglia e della società che del bambino, il quale vive dentro di sé i “fantasmi” di un padre minacciosamente potente e insieme amorevolmente protettivo.
Di fronte alla paura e all’angoscia delle malattie, delle calamità naturali e della morte, immerso in un mondo ostile e in una storia tragica, la persona si sente impotente e avverte un forte bisogno salvifico, l’ardente desiderio del “Padre”, di un Dio che lo sostenga e gli dia la salvezza dell’anima. È la sua aspirazione all’immortalità.
Il ruolo paterno dunque “non esiste più” e non gode, secondo alcuni autori, di alcuna nostalgia. La stessa biologia ne dichiara “l’inutilità e lo riduce a comparsa: si può infatti procreare in assenza del padre attraverso l’inseminazione artificiale.
In verità, la figura del padre non è quella di padre-padrone di Freud, che non ama, ma quella che ama. È il Padre, come sostiene Lacan, che invia suo Figlio al mondo per mostrarci la salvezza contro la morte e la condanna eterna. Quella di Dio è una bella immagine paterna che si tramuta anche in immagine materna, come è documentato nel “Deuteronomio” e in un passo di “Os”, con la metafora dell’aquila che cura e nutre i suoi piccoli.
Il riferimento all’aquila ci porta nel mondo degli animali. Il ruolo protettivo del maschio è presente non solo presso i primati, ma anche nel restante regno animale. In alcune specie, il maschio ha il ruolo di “covare” le uova nel nido, di prendersi cura dei piccoli, di nutrirli e difenderli.
Come negli esseri umani, anche nel regno animale, ci sono numerosi esempi di comportamenti violenti e brutali. I maschi dei primati, ad esempio, possono impadronirsi di harem di femmine e sopprimere i cuccioli. Presso molte specie, non c’è salvezza per il maschio, una volta esaurita la funzione dell’accoppiamento. Dopo la fecondazione, egli viene letteralmente “divorato” dalla partner, come nel caso della mantide religiosa.
Sta di fatto che gli istinti di cura e assistenza sono connaturati in tutti i cervelli, così come maltrattamenti e infanticidi. Nel mondo antico, l’infanticidio era parte integrante e inscindibile delle celebrazioni dei riti e veniva compiuto dalle sacerdotesse. Con il passaggio al potere maschile, l’oggetto del dono sacrificale alla divinità si sposta dal soggetto uomo al suo oggetto: animale o prodotto della terra.
Recenti studi, infine, rivelano che lo stile e la capacità creativa con i quali il padre interagisce e gioca con il bambino determinano un processo di attivazione dei meccanismi neuronali, migliorano le capacità cognitive e di apprendimento, favoriscono l’autonomia e il senso di sicurezza nel figlio. Il quale così vive bene, vive meglio, e vive più a lungo.
La nostra conclusione è che non è difficile diventare padre, essere un padre, “questo è difficile”, come scrive W. Busch. Noi invochiamo il ritorno dei padri.
Nel libro “Padri e figli” di Ivan S. Turgenev, uno dei maggiori scrittori dell’Ottocento e inventore del termine “nichilismo”, un padre dice al figlio di ritorno dalla città dopo aver conseguito la laurea: “Vivremo bene insieme, Arkasa…Adesso dobbiamo stare vicini, conoscerci per bene”. “Certo”, disse Arckadij, “ma che giorno meraviglioso, oggi!”. “Per il tuo arrivo, anima mia”. Come allora non avvertire in questo dialogo un sentimento di complicità e di sana nostalgia?
Guido Brunetti
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