Riflessioni sull'Esoterismo
di Daniele Mansuino
Nauru
Aprile 2008
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Nauru è il posto del mondo che considero la mia seconda Patria, e per spiegarne le ragioni devo ricollegarmi alla conclusione del dodicesimo articolo di questa serie, “Tuvalu”. Avevo lasciato la storia al momento in cui, nella notte, il tino faivelakau ridiventato vecchietto si offriva di insegnarmi per dieci dollari (australiani) la strada dell’albergo.
Io ero in quel momento, per usare una colorita espressione genovese, “fuori come un poggiolo”. Non mi ricordo cosa gli risposi. Mi allontanai farfugliando, mentre sperimentavo le solite fastidiosissime fitte allo stomaco che tutti i miei lettori sciamani (se ce n’è qualcuno) hanno provato quando il loro punto d’unione si è spostato dalla posizione abituale allo stato di veglia e poi ritorna a posto tutto d’un colpo per qualche evento traumatico. Vagai da solo nella foresta finché a un tratto – dopo minuti o ore, non so – mi imbattei in una ragazza grassottella, dai capelli corti e ricciuti.
Parlava inglese. Le spiegai la mia situazione. Placidamente si offrì di accompagnarmi all’albergo, e ci avviammo insieme sotto la Luna.
Lungo la strada mi raccontò di lei: si chiamava Eruita (questo era il suo nome indigeno, ma all’anagrafe era registrata come Louisa T.). Era venuta a Tuvalu in vacanza per trovare i suoi zii, ma era originaria di Nauru, l’isola dei fosfati.
A questo punto io drizzai le orecchie, perché Nauru – la più piccola repubblica del mondo – era uno dei posti del Pacifico che avevo sempre desiderato visitare. Avevo letto su un Guinness dei primati degli anni settanta di questo piccolo atollo di 20 km. quadrati cui la natura aveva fatto grazia dei più ricchi giacimenti di fosfati del mondo; Nauru era a quei tempi lo Stato con il più alto reddito pro capite, più di Montecarlo.
Lo avevo letto, ma non volevo andare a Nauru per motivi venali. Quello che mi attraeva era soprattutto la sua posizione geografica, all’ideale punto di convergenza delle tre grandi nazioni etniche del Pacifico: Polinesia, Melanesia e Micronesia. Sapevo che la cultura nauruana aveva preso qualcosa da tutte e tre, e immaginavo quanto potessero essere interessanti le sue tradizioni sciamaniche.
Così quella sera Eruita mi portò all’albergo, ma non ci separammo. Nacque un grande amore, e a marzo dell’anno seguente – 1996 – sbarcavo a Nauru con un biglietto di sola andata e la ferma intenzione di non muovermi mai più di là.
Invece non andò così, e la mia esperienza come residente durò complessivamente sei mesi (in due soggiorni diversi, nel 1996 e 1998). In rete su Nauru non c’è molto perché non è considerata una meta turistica, quindi spero che i patiti di esoterismo mi perdoneranno se mi discosto dai temi a loro più cari per fornire qualche cenno di carattere generale.
Situata nel centro del Pacifico poco a sud dell’Equatore, Nauru è uno dei posti più isolati del mondo. Circa 1200 km in linea d’aria la separano dalla terra emersa più vicina (l’atollo di Banaba, dove gli Americani hanno una base segreta dalla quale ogni tanto partono missili misteriosi).
Scoperta per caso da un baleniere nell’anno 1800, fu dapprima battezzata Pleasant per il clima, che è (per chi ama le zone torride) sempre piacevole: infatti la collocazione dell’atollo è equidistante dalle due fasce dei tifoni. Era allora abitata da circa 2000 persone (oggi sono 10000) che - scrupolosamente ligie all’etichetta del “buon selvaggio” – si erano creduti fino ad allora gli unici abitatori del nostro pianeta, e all’arrivo dei bianchi si dimostrarono molto sorpresi.
Parlavano una lingua che studi più recenti hanno identificato come simile a un dialetto peruviano. E’ questo uno dei pochi indizi concreti a disposizione di chi afferma che il Pacifico non fu popolato solo da genti in arrivo dall’Asia, ma anche dall’America: una teoria che andava per la maggiore quando ero giovane, ma che negli ultimi decenni sembra aver perso di nuovo dei punti.
I Nauruani erano suddivisi in dodici tribù, raggruppate tra loro in due schieramenti contrapposti che (non è una barzelletta, è la verità) corrispondono ancora oggi ai due partiti politici esistenti sull’isola. Per tutto l’arco del diciannovesimo secolo gli Europei si adoperarono lodevolmente a sanare il conflitto vendendo loro fucili; in questo modo le rivalità intertribali si tramutarono in una guerriglia cruenta e sanguinosa, finchè i Tedeschi – che andavano a piantare la bandiera in tutti i posti lasciati liberi da Inglesi e Francesi - non occuparono l’isola e disarmarono la popolazione.
A noi Italiani può sembrare strano, ma il tempo dell’occupazione tedesca (dagli anni settanta dell’Ottocento alla Grande Guerra) fu a Nauru un periodo felice. Ho avuto accesso ai documenti di quel periodo: c’è da restare sbalorditi dalla correttezza degli occupanti nei confronti degli indigeni, trattati con grande rispetto e su un piede di parità. Da questo punto di vista erano molto più avanti delle altre potenze coloniali, e c’è da chiedersi come sia successo che un popolo tanto civile abbia potuto, non molti anni dopo, partorire il Nazismo.
Nel frattempo era stato scoperto che le boscaglie del piatto altopiano al centro dell’isola celavano un tesoro, e Nauru era diventata il fornitore esclusivo di fosfati per l’Australia. A partire dal primo dopoguerra, gli Australiani versarono ai capi tribù una percentuale sui ricavi del loro territorio, depositandola su conti correnti bancari. I Nauruani, però, a spostarsi dalla loro isola per andare a incassare non ci pensavano nemmeno, quindi per molti anni quasi nessuno toccò quei conti.
Venne la Seconda Guerra Mondiale, e Nauru fu occupata dai Giapponesi. Quando questi si accorsero che sull’isola non c’era abbastanza acqua per dissetare popolazione e guarnigione, da un giorno all’altro caricarono su una nave duemila Nauruani e li deportarono in una zona disabitata dell’atollo di Truk.
La storia della deportazione a Truk è il mito costitutivo dell’odierna Repubblica di Nauru, come mi raccontò lo speaker del Parlamento, Maein Deireagea. A Nauru è facilissimo diventare amici di deputati e ministri al bar, e loro credono che anche in Italia sia così: quando partivo, mi raccomandava di salutargli Andreotti, che aveva conosciuto a una conferenza internazionale. Io lo tenevo informato riguardo alle disavventure giudiziarie che Andreotti aveva in quegli anni; lui sospirava, scuoteva il capo e mormorava: “such a good old boy…”.
Maein aveva quattro anni quando i Giapponesi lo caricarono sulla nave. Si salvò perché a Truk un bambino più grande di lui – che non sopravvisse – era abilissimo a prendere i topi e glie ne dava un po’. Morirono di stenti quasi tutti, compreso il parroco tedesco, Padre Kaiser, che durante il rastrellamento si era buttato ginocchioni davanti ai Giapponesi per supplicarli di farlo partire insieme al suo gregge; credo che poi l’abbiano fatto Beato o qualcosa del genere.
Quelli che erano rimasti vivi, si tolsero almeno lo sfizio di assistere da una poltrona di prima fila alla distruzione della flotta giapponese nella laguna di Truk (Battaglia delle Marshall) in una notte illuminata a giorno dal bagliore degli incendi, tra il 18 e il19 febbraio 1944.
Dopo la guerra, l’epopea dei deportati nauruani ebbe una vasta eco di stampa, e un gruppo di giovani reduci col talento della politica seppe metterla a frutto mediante la fondazione del Nauruan Party, che portò il Paese all’indipendenza nel 1968.
Per prima cosa, si fecero mandare i loro soldi dall’Australia: migliaia di milioni di dollari. Per seconda cosa cominciarono a spenderli, e a quest’opera si dedicarono alacremente per i vent’anni successivi. Eruita mi raccontava che, quand’era ragazza, se le saltava in testa di andare a trovare una sua amica su un’altra isola non faceva altro che andare all’aeroporto, e prendeva un aereo come noi prendiamo un tassì.
Per una ventina d’anni Nauru fu veramente la Montecarlo del Pacifico, anzi molto di più. Non voglio raccontare qui le storie incredibili che ho udito sui lussi sfrenati di quel periodo, perché so che i miei amici nauruani non gradirebbero; fatto sta che riuscirono a spendere tutto. Se non fosse una vicenda che un po’ tutti hanno interesse a tenere nascosta, a Nauru gli intellettuali marxisti potrebbero godere della possibilità unica al mondo di studiare il collasso del sistema capitalista su un modello in miniatura.
Quando io arrivai nel 1996 non soltanto i soldi erano finiti, ma anche i fosfati: nell’enorme cava sull’altopiano si stava ormai raschiando il fondo del barile. Tutte le mattine i capifamiglia si allineavano in file interminabili davanti alla banca per riscuotere un sussidio governativo di dieci dollari (australiani) al giorno.
Oggi la situazione è ancora peggiorata di molto: ci sono malattie epidemiche, non c’è più acqua potabile e l’energia elettrica viene erogata solo a certe ore.
Se una storia del genere fosse capitata a qualsiasi altro popolo, i suoi lamenti di disperazione toccherebbero il cielo. Ai Nauruani, invece, non potrebbe fregargliene di meno, e ostentano verso la miseria lo stesso aristocratico disinteresse che avevano riservato alle ricchezze di ieri.
Il mio progetto di stabilirmi a Nauru non naufragò perché io mi fossi adattato male a dormire sulla stuoia e a mangiare con le mani, ma soprattutto per la bassa qualità dell’acqua (ci nuotavano un po’ di vermetti) e del cibo: arrivava dall’Australia un sacco di roba scaduta, se arrivava. Ricordo che trascorsi buona parte del mio secondo soggiorno sull’isola a scrutare l’oceano nella vana speranza di veder comparire all’orizzonte la nave dei rifornimenti, bloccata non so in quale porto perché non c’erano i soldi per farla salpare.
In quel periodo vivevano a Nauru, oltre al sottoscritto, altri tre italiani che si comportarono assai bene, facendo un’ottima pubblicità al nostro Paese.
Due di questi erano i coniugi Mario e Maria B., lui di Rovigo e lei di Asiago. Il signor Mario era un pittore, e i suoi bellissimi quadri di paesaggi nauruani ornano ancora oggi svariati uffici pubblici; Maria era un’antropologa che insegnava alle scuole superiori dell’isola.
Con loro passai belle serate, legate nella mia memoria alla canzone di Neil Young Harvest moon, che Mario amava. Con Maria parlavo spesso dei miei sforzi per ritrovare le tracce delle tradizioni sciamaniche locali, che purtroppo stavano risolvendosi in un buco nell’acqua: ovunque mi trovavo al cospetto di devotissimi fedeli cattolici o protestanti, che dell’idolatria dei loro avi non volevano neanche sentir parlare.
Purtroppo, neanche la mia ragazza Eruita aveva voglia di aiutarmi: considerava questo mio comportamento (forse non a torto) una stravagante fissazione, che faceva parlar male la gente alle nostre spalle. Finii per lasciar perdere, dopo aver concluso che i missionari avevano cancellato ogni traccia delle tradizioni originarie.
Quando nel 1998 ripartii definitivamente per l’Italia, Maria per consolarmi mi regalò un libro sul voodoo: un dono che accettai senza nemmeno lontanamente immaginare che sei anni dopo sarei diventato maestro di voodoo anch’io.
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