Riflessioni sull'Esoterismo
di Daniele Mansuino
Sulla Legge del Tre
Luglio 2010
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Il dotto articolo apparso su Riflessioni - ad opera di Parabhakti das – sui tre guna [I Guna – Gli influssi della natura materiale], mi offre il destro per riprendere un discorso che avevo lasciato in sospeso fin dai tempi di Esoterismo e comunismo: ovvero la Legge del Tre – come Gurdjieff e Ouspensky definirono questa fondamentale regola del pensiero esoterico riscontrabile ovunque in forme diverse, e – nella fattispecie – comune tanto alla filosofia ermetica quanto a quella hegeliana.
L’esposizione di Parabhakti tratta della Legge nella sua versione indù, e può essere riassunta così (cito l’articolo, che cita a sua volta la Bhagavad-gita) :
I guna sono le tre energie materiali che influenzano la vita di tutti gli esseri viventi: Tamas l’ignoranza - Rajas la passione - Sattva la virtù.
La natura materiale è formata da tre influenze: virtù, passione e ignoranza. Quando l'essere vivente entra in contatto con la natura materiale diventa condizionato da queste influenze. (B.g. 14.5).
Sattva : O Arjuna senza peccato, sappi che la virtù, la più pura delle influenze materiali, illumina e libera dalle conseguenze di tutti i peccati. Chi è sotto il suo influsso sviluppa conoscenza, ma diventa condizionato dal senso di felicità che essa procura. (B.g. 14.6)
Rajas : La passione consiste in desideri ardenti e senza fine, o figlio di Kunti. Essa lega l'anima incarnata all'azione materiale e ai suoi frutti. (B.g 14.7)
Tamas : O discendente di Bharata, l'ignoranza è causa d'illusione per tutti gli esseri. La follia, la pigrizia e il sonno, che legano l'anima condizionata, sono il risultato di quest'influenza. (B.g. 14.8)
La prima doverosa osservazione è che l’interpretazione dei guna suggerita dalla prospettiva indù – del cui aspetto exoterico Parabhakti è il fedele relatore - è soprattutto morale. Il punto di vista morale è tipico del pensiero religioso : ovvero della trasposizione delle dottrine sciamaniche in un corpo di regole volte a regolare la vita sociale dell’uomo, tramandato dalla classe sacerdotale.
L’Induismo, infatti, è una religione ancora molto vicina allo sciamanesimo, ma è già una religione; ne consegue che la visione indù, pur conservando nelle definizioni che riserva ai guna un senso probabilmente molto vicino a quello sciamanico, è tuttavia subordinata alla prospettiva monoteista (sebbene - occorre sottolinearlo - nella dottrina religiosa dell’Induismo l’aspetto monoteista non rivesta la stessa primaria importanza che nelle religioni del libro).
Questa differenza di approccio rispetto all’esoterismo può creare qualche problema nell’integrare la visione induista dei guna con la Legge del Tre quale l’abbiamo conosciuta per mezzo di Gurdjieff e Ouspensky ; che sebbene sia immensamente posteriore, è probabilmente più vicina a quella che era la sua originaria formulazione in termini sciamanici.
Gurdjieff, infatti, aveva ricevuto la Legge del Tre nel Sufismo orientale, derivato dall’assorbimento in seno all’ortodossia islamica di un gran numero di dottrine sciamaniche dell’Asia Centrale : le medesime che, parecchi millenni prima - viaggiando verso sud invece che verso ovest - erano state recepite e codificate dai redattori dei testi sacri dell’Induismo.
Anche l’adattamento operato dai Sufi, ovviamente, è molto posteriore alla Bhagavad-gita ; però le scuole sufiche – per quanto sviluppatesi in ambito religioso – erano scuole trasmutatorie, e non c’è dubbio quindi che avessero interesse a mantenere le cognizioni relative alla trasmutazione interiore più intatte di quelle che i sacerdoti Indù avevano invece destinato a un altro uso : ovvero il processo di regolamentazione sociale di un immenso popolo.
Possiamo quindi fidarci di Gurdjieff nell’affermare che il senso originario dei tre guna è definire le tre forme di energia sottile che danno origine alla materia, GENERANDO in questo modo il piano della realtà oggettiva (potrei anche provare a definire questo particolare stato dell’essere con perifrasi diverse, tipo il livello della manifestazione materiale ; ma piano della realtà oggettiva è la formula che ho quasi sempre usato negli articoli precedenti, e continuando a usarla mi auguro di limitare i rischi di confusione).
Ora, la dottrina presentata da Parabhakti può anche implicare la possibilità di questa generazione, ma non la fa risaltare molto, e le definizioni da lui fornite dei guna (Ignoranza, Passione e Virtù) se applicate in tal senso creano effetti quasi umoristici : d’accordo, l’ignoranza dilaga, ma non fino al punto di considerarla uno dei tre elementi costitutivi del processo dialettico.
Si tratta in realtà di una divergenza di significato solo apparente, se pensiamo ad esempio al fatto che nell’accezione di Parabhakti l’ignoranza può essere equiparata alla percezione frammentaria della realtà, generante l’illusione dell’esistenza dell’uomo come individuo ; se la intendiamo in questo modo, il superamento dell’ignoranza è la coscienza collettiva, e trovare le corrispondenze con il ternario hegeliano diventa facile.
Ma a parte che si tratta di un’assimilazione tirata per i capelli, è chiaro che tacciare di ignoranza una delle forze generatrici della creazione non ha molto senso. Il punto di vista di Parabhakti deve quindi essere considerato strettamente exoterico (né mai, del resto, egli si è proposto di scrivere di esoterismo), e per trovare le corrispondenze dei guna con le altre formulazioni del ternario a noi note è giocoforza doverci rivolgere altrove.
Infatti, come è noto, anche nell’Induismo esiste una prospettiva esoterica, tramandata nelle scuole brahmaniche. Quello che è necessario fare se vogliamo saperne di più è cercare ancora una volta l’aiuto di Réné Guénon, che anche se non si condividono le sue idee sulla tradizione rimane su questo tema il maestro insuperato.
Nelle sue opere giovanili sulla metafisica, egli procede all’enumerazione – in termini tanto esoterici quanto filosofici e matematici – delle entità supreme che si trovano ai vertici del pantheon induista : un pantheon che offre la possibilità di ricondurre le sue divinità apparentemente separate all’idea di un dio unico che si manifesta in forme diverse.
E’ proprio questo l’aspetto dell’Induismo che Guénon enfatizza oltremodo ; attirandosi con ciò le ire degli Induisti ortodossi, ma nello stesso tempo attirando l’attenzione su un concetto veritiero - ovvero che l’Induismo non è altro che la prima tappa dello sciamanesimo nel suo percorso verso il monoteismo, di cui le religioni del libro (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) rappresentano, in fasi differenti, le tappe successive.
Un lavoro di commento analogo a quello che egli operò sull’Induismo avrebbe in realtà potuto effettuarsi - più o meno negli stessi anni – sulle macumbe interetniche latinoamericane, che nella prima metà del ventesimo secolo (almeno ad Haiti e in Brasile) si presentavano già in forme socialmente abbastanza evolute perché uno studioso di formazione occidentale potesse effettuare su di esse un tale studio ; è quello che accadde ad Haiti circa un trentennio dopo Guénon ad opera di Milo Rigaud, i cui lavori però arrivarono in Occidente abbastanza tardi per passare inosservati nel boom di pubblicistica esoterica dell’ultimo dopoguerra (quanto a quelli che non furono tradotti allora, i cui manoscritti erano custoditi in un convento di Port-au-Prince, sono forse andati perduti definitivamente dopo l’ultimo terremoto).
Comunque sia, il cieco demone della storia – complice anche la stupida diffidenza dei “bianchi” nei confronti dei prodotti culturali delle civiltà “nere” - stabilì che agli albori del ventesimo secolo gli Occidentali, tramite l’opera di Guénon e non solo, venissero a conoscenza della fase di transizione dallo sciamanesimo all’esoterismo mediante l’analisi dell’Induismo, e non di altro.
Se l’avessero appresa dalle macumbe – leggermente più spostate verso lo sciamanesimo rispetto alle dottrine indù - la conoscenza dettagliata delle fasi della transizione sarebbe forse oggi condivisa da tutti gli esoteristi, e non saremmo solo io e altri quattro gatti ad aver le idee chiare su questo punto ; ma la storia come è noto non si fa con i se, e tanto il sottoscritto quanto i lettori devono rassegnarsi a tirare avanti con quello che passa il convento.
Guénon ci parla dei guna ponendo l’accento sulla loro subordinazione alla dualità Purusha-Prakriti, di quest’ultima a Ishwara e di Ishwara a Brahma.
Per capire cosa questo significhi, bisogna sforzarsi di entrare nella sua prospettiva, per la quale il manifestato procede dal non-manifestato : l’1 emana dallo 0, mentre il 2, il 3, il 4 e tutti gli altri numeri procedono dall’1.
Il rapporto tra 0 e 1 deve essere considerato a parte perché non ci troviamo di fronte a una normale progressione numerica come quelle che si registrano nella matematica “profana”: lo 0, infatti (ovvero il non manifestato) ha nei confronti degli altri numeri (che esprimono i progressivi livelli della manifestazione) un rapporto incommensurabile - in un certo senso, lo si può considerare equidistante da tutti.
Così è per l’Assoluto nei rapporti col mondo della manifestazione, ovvero dell’illusione : che da esso promana, sì, ma ne è nel contempo separata da un abisso incolmabile.
Questo è il cuore del punto di vista tradizionale così come Guénon lo espresse : in sostanza, un esoterismo caratterizzato da una super-teologia monoteista, a sostegno della quale anche tutti gli exoterismi a suo giudizio ortodossi trovano posto, dando vita a un rigido schema che blinda la prospettiva esoterica entro un sistema di carattere filoreligioso.
Non rimane infatti spazio per alcuna visione dell’esoterismo che non parta dal presupposto di una progressiva emanazione dall’alto ; ovvero da una ristretta concezione di mondo spirituale che nulla ha da spartire col mondo intermedio dove abita la psiche, e quindi nemmeno con l’idea di una manifestazione che si autoriproduce a ogni istante.
Ho troppo semplificato e me ne scuso : in realtà, tanto in ambito hegeliano quanto in ambito marxista le qualità potenzialmente attribuibili al processo dialettico offrono aggiustamenti in grado di superare questa contraddizione, che io ho invece presentato come radicalmente insolubile.
A questo proposito, almeno una parentesi è doverosa per sottolineare come la prospettiva guenoniana non possa essere accreditata all’ortodossia induista nella sua globalità. La scuola Advaita, o della non-dualità, costituisce il principale filone interpretativo della tradizione vedica (darshana), ma non è il solo, e anche nel suo seno le posizioni interpretative sono assai diverse.
Quella di Adi Shankaracharya – il maestro dell’ottavo secolo che fu la fonte di Guénon – fu la prima a sistematizzare rigidamente il processo della manifestazione, enfatizzando in questo modo la sua contrapposizione con l’Assoluto per sottolineare la necessità di un approccio non-duale che li comprendesse entrambi ; questo però fu solo il punto di partenza, dal quale i maestri successivi avrebbero elaborato progressivamente approcci più pragmatici volti a facilitare il risveglio (noi diremmo la trasmutazione interiore) tramite tecniche operative.
Come di regola accade nella storia delle scuole trasmutatorie, tali diversi approcci rispecchiano lo spirito del tempo in cui vennero proposti ; questo non allo scopo di distorcere satanicamente la dottrina originaria, ma per mantenere intatta l’accessibilità alla tradizione (una possibilità che il maestro francese scartava a priori : in quanto – secondo lui – l’uomo contemporaneo non è più all’altezza di praticare con successo il lavoro trasmutatorio).
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