Discorsi di Dharma
di Geshe Gedun Tharchin
Insegnamenti del Venerabile Lama Geshe Gedun Tharchin, Lharampa. Incontri, lezioni e scritti su Dharma, Meditazione e Buddhisimo.
La morte e la nascita
- Novembre 2019
Per il Buddhismo è molto importante avere una corretta motivazione per intraprendere qualsiasi attività, perché, attraverso un cambiamento di intenzione e di motivazione, si può cambiare e modificare il modo di vedere le cose. Tutte le tradizioni religiose utilizzano la preghiera come strumento per poter sviluppare questa corretta motivazione; in particolare nel Buddhismo per preghiera si intende un processo di «familiarizzazione» con la motivazione corretta. La preghiera non deve essere necessariamente qualcosa da recitare verbalmente, quanto piuttosto qualcosa che viene dal cuore, è questo il tipo di preghiera più importante. Dal punto di vista del Buddhismo la mente è la chiave principale per poter trasformare gli altri elementi con cui siamo fatti, che sono, principalmente, il corpo e la coscienza. Come praticanti di Dharma è molto importante, specialmente all’inizio, mettere l’enfasi sulla nostra attività mentale. Tutti i canti, i riti e le cerimonie ai quali possiamo assistere, sono strumenti secondari di sviluppo e di trasformazione della mente. La mente è intesa come l’elemento che, trasformato, ci permette di modificare la nostra intenzione nei confronti di qualsiasi attività vogliamo intraprendere nella vita di tutti i giorni; attraverso il cambiamento delle proprie intenzioni e motivazioni una persona può cambiare il corso della propria vita ed il corso di tutte le vite che seguiranno.
Oggi affronteremo il concetto del vivere e del morire secondo la tradizione Vajrayana. Il concetto del vivere e del morire è molto importante e dovrebbe essere portato nella nostra pratica, infatti la nostra vita può essere vista come il risultato di tante piccole morti quotidiane. Io credo molto in questa mancanza di certezze e, quando vado a dormire la sera, non sono sicuro di svegliarmi la mattina seguente. Il processo in base al quale arriviamo alla fase di sonno profondo, è, per certi versi, simile a quello che attraversiamo quando moriamo. Il sonno profondo è il risultato di tante piccole morti. Il tema della morte è molto interessante, ed è anche un tema semplice, più di quanto si possa credere; non dobbiamo vedere la morte come qualcosa di spaventoso e difficile da affrontare.
L’essere vivi ci produce gioia proprio in virtù di nostre particolari abilità, come la consapevolezza e la capacità di agire, ma, in effetti, l’essere in vita di per sé non sarebbe possibile se non come il risultato della fase di morte di cui abbiamo parlato prima. Ad esempio, possiamo dire che una buona giornata è il risultato di un buon riposo ottenuto durante la notte. In effetti quando ci addormentiamo perdiamo contatto con una certa realtà e rimaniamo in uno stato di semi incoscienza, tuttavia questo stato è necessario per riprendere energia ed essere più attivi durante la giornata. Quindi un buon sonno è necessario per avere una giornata positiva e attiva. Ma è vero anche il contrario, e cioè che se trascorriamo una piacevole giornata, ricca di soddisfazioni e di attività andate a buon fine, essa ci porterà ad avere un buon sonno. Quindi vediamo una certa interdipendenza tra un buon sonno e una giornata attiva e positiva, e tra una giornata noiosa e una cattiva qualità del sonno. È molto difficile parlare di tecniche e metodi che permettono di sviluppare un buon sonno, tuttavia nella tradizione buddhista si ritiene che vi siano dei «modi» per decidere che tipo di sonno agevolare, o magari decidere a quale ora ci si vuole svegliare l’indomani mattina. Quindi una persona può «familiarizzare» con questi temi attraverso un’attività mentale. Quello che sto cercando di spiegare è la relazione tra il ciclo notturno, durante il quale dormiamo, e il ciclo attivo della nostra giornata, l’uno influenza l’altro e viceversa. Quando dormiamo generalmente raggiungiamo una fase di rilassamento nel corso della quale non possiamo fare attività particolari. Nella tradizione Vajrayana, si ritiene che vi siano alcuni praticanti che riescono a praticare il Dharma più durante il sonno che durante la veglia. Questo significa che una persona può utilizzare anche il sonno come strumento per la pratica del Dharma. Quindi un praticante di altissimo livello può utilizzare tutte le ventiquattro ore per praticare il Dharma. Per pratica del Dharma intendiamo lo sviluppo corretto delle intenzioni, la corretta consapevolezza, ed un corretto sviluppo di tutte le nostre qualità. Una persona che affronta la vita come strumento per la pratica del Dharma inevitabilmente vede la morte come un momento da utilizzare per praticare il Dharma. Dal punto di vista del praticante Vajrayana la morte è un evento che accade una sola volta nella vita ed è qualcosa di unico per poter aumentare e far crescere la propria realizzazione. Quindi per il grande praticante la morte rappresenta un tesoro, una preziosa opportunità per poter sviluppare grandi qualità. Nel corso di questa esperienza c’è la possibilità di espandere e accrescere la propria realizzazione. Secondo la tradizione Vajrayana il momento della morte degli esseri ordinari, come noi, è l’unico momento nel corso del quale appare la cosiddetta «mente innata». Quando nel momento della morte si manifesta questa mente innata noi riusciamo a mantenere uno stato di consapevolezza e a riconoscere questa apparizione, allora possiamo utilizzarla per far «fruttare» tutta la nostra esperienza e accrescere le nostre realizzazioni. Nel momento della morte veniamo in contatto con la natura innata della mente e abbiamo la possibilità di approfondire le verità espresse nel Dharma. Se invece non riusciamo a sviluppare questa consapevolezza e ci limitiamo ad una conoscenza convenzionale e superficiale della verità che abbiamo sviluppato nel corso della nostra vita, la percezione di tutte le cose che affronteremo sarà quella di esseri ordinari e con un livello mentale alquanto grossolano.
Per poter riconoscere il manifestarsi di questa mente innata è necessario cercare innanzitutto di familiarizzare con quello che è il processo di disgregazione dei cinque aggregati che affronteremo nel momento della morte. L’io è costituito dai cinque aggregati, durante il processo della morte questi cinque aggregati si dissolvono secondo un processo che si sviluppa in diverse fasi, che è stato studiato e che è più o meno uguale per tutti. La distruzione dei cinque aggregati è collegata ai quattro elementi. I cinque aggregati sono costituiti dai quattro elementi, di conseguenza la disgregazione degli uni produce la dissoluzione degli altri. Questi quattro elementi sono: terra, acqua, fuoco, ed aria (venti). L’ordine con il quale si enunciano questi quattro elementi è lo stesso con il quale si dissolvono e quindi il primo è la terra il secondo è l’acqua, il terzo è il fuoco e l’ultimo è l’aria (venti) che va a dissolversi nell’ultimo stadio della coscienza. Nella fase di dissolvimento dell’elemento terra ci sono delle esperienze particolari che accadono all’interno di noi stessi. Allo stesso modo quando si dissolve l’elemento acqua, ci saranno esperienze particolari specifiche di questa fase. Questo avviene anche nel momento di dissolvimento dell’elemento fuoco e quando si dissolve l’elemento aria. Quest’ultimo elemento produce nella coscienza dei segnali specifici. Tale processo di disgregazione è correlato con i nostri cinque sensi, tanto che, con il progredire della disgregazione dei quattro elementi si procede alla disgregazione ed al dissolvimento dei nostri cinque sensi. Allo stesso modo nel sonno parte di questi elementi si dissolvono. Questo è il motivo per cui i cinque sensi non funzionano e non sono attivi. Quindi i praticanti cercano di seguire il processo in base al quale si muore, ma anche il momento di passaggio dalla veglia al sonno. Per un grande praticante andare a dormire è un’ottima opportunità per provare a riconoscere questi segnali. Quindi se andiamo a letto troppo tardi e siamo sfiniti dalla fatica quotidiana non possiamo affrontare questo tipo di pratica. Sarebbe quindi opportuno andare a dormire con qualche riserva di energia, sia fisica che mentale, per poter affrontare questa pratica. Dopo il dissolvimento dei quattro elementi i nostri sensi esterni sono completamente bloccati, in quel momento veniamo definiti clinicamente morti. Tuttavia nella tradizione Vajrayana questa fase non può essere definita come morte in quanto si ritiene che ce ne siano altre quattro da attraversare per raggiungere il dissolvimento della coscienza.
La nostra coscienza può essere osservata da due livelli principali. Il primo livello, grossolano e superficiale, consiste nelle emozioni di tipo perturbante, il secondo invece è un livello più sottile. Riguardo allo stato di coscienza grossolano facciamo riferimento a tre emozioni: attaccamento, odio e ignoranza. Queste tre emozioni perturbatrici vengono dissolte nell’ordine con il quale le abbiamo enunciate e una volta che tutte e tre sono state dissolte appare quella che viene chiamata, con un termine molto bello, la «chiara luce», che potrebbe essere definita la natura innata della mente. Per spiegare il concetto di «chiara luce» con un linguaggio comprensibile a tutti possiamo dire che si tratta dell’essenza del nucleo più profondo della nostra mente. Quando si fa riferimento ad attaccamento, odio e ignoranza, in questa fase, non ci riferiamo alla loro espressione pratica, ma ai segni che l’espressione di queste tre emozioni perturbatrici possono generare e, quando questi tre tipi di segni si dissolvono, allora vi sono quattro segnali che compaiono all’interno di noi stessi. Il momento in cui la natura innata della mente, l’essenza della nostra mente, emerge in seguito al dissolvimento delle nostre emozioni perturbatrici, è il momento per poter implementare in essa tutta una serie di conoscenze che abbiamo accumulato nel corso della nostra esistenza e quindi farla fruttare. Questa è una fase importantissima perché è quella in cui noi diamo importanza al nostro flusso di coscienza.
I grandi praticanti (yogi) sono in grado di sfruttare questa mente innata, di utilizzarla per meditare, praticare e per implementare tutte quelle realizzazioni che hanno raggiunto nel corso della loro esistenza. Ci sono dei grandi Lama, ed io ne sono testimone, che di fatto muoiono dal punto di vista clinico e mantengono la posizione di meditazione e in apparenza, sul piano fisico, non sembrano deceduti, tuttavia quando terminano la loro meditazione il corpo collassa e cade. In questo caso per grande Lama non intendo persone alle quali sono state affidate grandi cariche ed onorificenze, ma persone molto semplici che hanno praticato a lungo il Dharma. Al termine di questa meditazione, sfruttando la mente innata, separano la mente dal corpo e nello stesso momento passano nella fase intermedia della vita definita «Bardo». Tutte queste parole per definire la vita, la morte e le varie fasi che avvengono tra l’una e l’altra, sono importanti ma non quanto la nostra volontà di sperimentare questi avvenimenti attraverso la pratica quotidiana e la familiarizzazione con essa. Quindi, in sintesi, si tratta di avere una consapevolezza costante di tutte le nostre esperienze nel corso della nostra vita quotidiana.
Secondo quanto ha detto il Buddha storico nei Sutra, un buon praticante è in grado di essere consapevole in tutte le fasi della propria vita: quando è in piedi, quando mangia, quando dorme … ed è in grado di ricordare in modo intuitivo qualsiasi momento della propria vita perché cerca di rimanere costantemente in uno stato di buona e corretta consapevolezza. Di conseguenza se non manteniamo questa consapevolezza quotidiana, nel corso di tutte le nostre attività, sarà impossibile, nel momento in cui andremmo a dormire o nel momento in cui moriremo, poter ricordare le nostre esperienze come un qualcosa di vivo da utilizzare. Lo stesso Buddha ha detto che per poter mantenere un buon livello di consapevolezza quotidiana è necessaria molta introspezione e attenzione. Questa consapevolezza, che è la capacità di prendere un attimo di tempo prima di compiere un’azione, permette di valutare se tale azione è più o meno corretta. Questa capacità di prendere un minimo di tempo prima di lanciarsi o meno in un’attività è appunto la pratica della consapevolezza. Questa pratica è l’unica che ci permette di portare avanti una vita virtuosa. Nella tradizione Vajrayana la pratica della consapevolezza per certi versi viene trascurata perché si dà per scontato che faccia parte di altre pratiche e non viene studiata in modo specifico. Nella tradizione Theravada la parola consapevolezza ricorre con maggior frequenza. Quando si chiede ad un maestro Theravada qual è il tipo di pratica che dovremmo affrontare nel momento della morte sicuramente risponderà che dovremmo morire cercando di mantenere la nostra consapevolezza. Se invece andiamo da un maestro Vajrayana, questi ci spiegherà tutta una serie di cose complicate come i quattro elementi, tutti i processi di dissoluzione e alla fine non ricorderemo niente di tutto questo. Il punto d’incontro di queste due tradizioni consiste nell’avere in comune il voler morire con un’attitudine mentale positiva, con la mente virtuosa.
Noi dobbiamo cercare di applicare entrambi i metodi visto che abbiamo la fortuna, abitando in Occidente, di vivere in un contesto dove si sono incontrate tante tradizioni Buddhiste. Per prendere atto del momento della morte, anche se non siamo a conoscenza di tutti i fenomeni di dissolvimento, dobbiamo aver fatto una buona pratica della consapevolezza. Quindi, il punto focale è quello di riuscire a mantenere un’attitudine mentale positiva e una mente virtuosa. Da quando sono in Occidente ho avuto modo di incontrare tante tradizioni diverse: oltre a quelle Chan/Zen e Theravada, che non facevano parte del contesto tibetano, altri lignaggi come i Kagyu ed il Nyingma di cui non sapevo molto quando studiavo nel mio monastero, e ovviamente il Cristianesimo. Da tutte queste bellissime tradizioni possiamo attingere per poterci ulteriormente arricchire. Questo è uno dei vantaggi della nostra civiltà occidentale, quello di vivere in un contesto multiculturale e democratico che permette di conoscere cose diverse, senza quella chiusura mentale che porta a dire: «Quello che faccio io è meglio di quello che fanno gli altri». Questa attitudine è sbagliata e mostra l’ignoranza che è alla fonte di tutte le nostre miserie. Distruggere questa attitudine ed aprirci agli altri è uno degli obiettivi della pratica del Dharma e, quando ci si apre agli altri, si ha l’opportunità di ricevere molto e quindi di portare avanti la propria crescita spirituale. Quindi bisogna avere anche una buona capacità di introspezione e soprattutto di consapevolezza perché, senza queste qualità, c’è il rischio di prendere non solo le cose buone ma anche quelle cattive.
La parola ignoranza è un termine che nel Buddhismo potrebbe essere spiegato in tanti modi e con diversi livelli di introspezione, tuttavia qui lo interpretiamo come chiusura mentale. Accettare o considerare qualcosa come positivo solo perché è mio è un sintomo di chiusura mentale ed è un atteggiamento egoistico. Secondo una definizione tibetana questo atteggiamento può essere tradotto come un «aggrapparsi a sé». La frase simbolo per definire questo atteggiamento mentalmente sbagliato dice: «Questo è buono perché mi appartiene». Nelle scuole di filosofia per la definizione di questo concetto si studiano volumi enormi per descrivere in maniera approfondita quello che stiamo dicendo. Quindi l’ignoranza può essere definita come una mente chiusa e come un aggrapparsi a sé, così si chiarisce la relazione tra l’ignoranza e l’aggrapparsi a sé. Uno degli obiettivi è quello di distruggere queste attitudini mentali sbagliate perché vengono percepite come la fonte e l’origine di tutte le nostre miserie. È anche vero che molti praticanti buddhisti hanno una grande ignoranza. A volte ci sono delle persone che sono ritenute grandi praticanti, con una dotta conoscenza del Buddhismo, che possiedono anche una grande ignoranza perché hanno una mente chiusa. A volte avere una conoscenza esclusiva del Buddhismo, senza conoscere altre cose, può essere motivo di chiusura mentale. Anche se questa mia opinione può essere sbagliata. Vivere e morire devono essere entrambi parte della nostra esistenza da vivere con consapevolezza. Vivere in consapevolezza e morire in consapevolezza è il consiglio che viene dato nella tradizione Theravada che, secondo la mia opinione, è la tradizione che ci riporta in modo più diretto all’essenza del messaggio del Dharma.
Geshe Gedun Tharchin
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