Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Un tempo per il dolore
Conversazione con Tonia Cancrini
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- maggio 2005
Può chiarire meglio il senso di questa sua frase: “più conquistiamo la capacità di sentire, di avere emozioni e sentimenti, più ci disponiamo al dolore”?
La conquista della vita emotiva - e a volte è proprio una conquista difficile di fronte alla tendenza a chiudersi, a fuggire dalla vita per paura, angoscia, preoccupazione - comporta un aprirsi alla vita dei sentimenti e questo ci espone inevitabilmente al rischio della sofferenza. Se amiamo qualcuno possiamo perderlo o essere costretti a una lontananza che ci fa soffrire. Più crediamo nella vita e abbiamo passioni o entusiasmi, più rischiamo di essere delusi o feriti e più quindi siamo esposti al dolore.
Alla fine di un’analisi, durata diversi anni, come si manifesta il dolore?
Il dolore non scompare con la fine dell'analisi, anzi la stessa separazione dall'analista è dolorosa. Quello che accade però è che il dolore è più contenibile e comprensibile e così anche più sopportabile.
Da che cosa è caratterizzata la colpa? Come ci si accosta un analista?
La colpa è un sentimento molto complesso, che è molto difficile da vivere e da tollerare. Ha radici profonde nella spinta dell'uomo all'aggressività ed è un sentimento inquietante. Spesso la colpa è un groviglio oscuro che è difficile dipanare, spesso è al di là della pensabilità e non può essere né vista né capita. Se ne vedono gli effetti: la distruzione sia fisica che psicologica, ma il suo nucleo è oscuro e nascosto.
È molto importante nell'analisi affrontare i sentimenti di colpa, altrimenti rimangono come una zona interna oscura che impedisce di vivere serenamente e pienamente. Per riuscire a far avvicinare il paziente al contenuto inquietante della colpa è necessario che l'analista sia partecipe e coinvolto profondamente, immerso nella dimensione dell'imperfezione e della vulnerabilità.
L'interpretazione della colpa può diventare facilmente persecutoria, e l'analista rischia allora di porsi come un giudice esterno, esente da peccati e difetti. Niente di più negativo per il paziente. È necessario, al contrario, essere aperti e disponibili a sentirsi partecipi della colpa: sapere che l'errore fa parte dell'essenza stessa dell'umanità: "chi è senza peccato, scagli la prima pietra". E poi porsi in una posizione di autenticità, partecipi delle esperienze di malattia, di perdita, di morte: uomini e donne "passionali" e non contenitori vuoti. "Senza memoria e senza desiderio", come dice Bion, ma con pathos e con disponibilità a vivere e soffrire gli aspetti più oscuri, più inquietanti e più stravolgenti dell'esperienza umana.
L'analista deve essere molto consapevole di come gestisce la colpa dentro di sé: qualsiasi durezza e rigidità verso se stesso si può ripercuotere nel rapporto con il paziente.
Da cosa nascono l’esperienza del dolore e l’elaborazione del lutto?
Il dolore e il lutto nascono dal fatto che viviamo nel tempo e che siamo esseri limitati e che pertanto non possiamo non essere coinvolti in esperienze dolorose e dobbiamo così affrontare la malattia, le privazioni, il distacco dalle persone che amiamo e la morte. Ma fare esperienza della sofferenza e poter elaborare il lutto è possibile se c'è stata nell'individuo una maturazione e crescita interiore che permette di avere una vita affettiva piena e reale.
Il lutto è espressione di dolore, ma anche forma socializzata della sofferenza. Quali sono i suoi caratteri?
Indubbiamente il lutto è un modo di esprimere il dolore e di comunicarlo ad altri in una dimensione sociale. La morte di una persona cara è l'esperienza più sconvolgente della nostra vita: la perdita è terribile e siamo sopraffatti dal dolore e dalla disperazione. È soltanto la vicinanza di chi ci è caro e la condivisione con altri che ci aiuta a tollerare questo terribile evento. Nel suo bellissimo libro Morte e pianto rituale (1958, Boringhieri, Torino 1977), Ernesto De Martino individua nella ritualità del lamento e del pianto la possibilità di oggettivare lo strazio di una sofferenza ingestibile. Il dolore lancinante e invivibile mette infatti a rischio la presenza dell'io a se stesso e fa indugiare l'individuo al limite della follia. De Martino mostra come nella ritualità del pianto e del lamento è possibile esprimere il dolore e condividerlo con altri in una dimensione sociale, superando la solitudine che ce lo rende intollerabile. In questa estrinsecazione del dolore si possono moderare "la dispersione e la follia che minacciano l'uomo colpito da lutto" (p.10) e si può accedere, in una dimensione sociale e culturale, a una possibilità di elaborazione della perdita e della sofferenza ad essa legata.
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