Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Contro la comunicazione
Conversazione con Mario Perniola
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- ottobre 2005
Parimenti un mondo in cui il posto della filosofia è stato preso interamente dalla tecno-scienza o dalla religione, ha soppresso l'orizzonte estetico: fanno invece parte di questo le critiche che gli artisti e i poeti hanno spesso rivolto alla filosofia. Infine la mancanza di modelli di vita esemplare impedisce il sorgere dell'ammirazione, la quale costituisce la più potente leva del coinvolgimento estetico: non a caso l'educazione è stata riconosciuta come un elemento essenziale dell'orizzonte estetico. Tuttavia le tendenze contro-culturali, che si sono manifestate per esempio durante la contestazione della seconda metà del Novecento, fanno parte dell'orizzonte estetico.
Raramente è accaduto che i quattro elementi che fanno parte dell'orizzonte estetico siano andati d'accordo tra loro: questa situazione si è verificata nel Settecento ed è in stretto rapporto col movimento neo-classico e con la costituzione dell'estetica come disciplina autonoma. È allora che la bella natura, l'arte bella, il bel pensare e l'educazione estetica hanno stabilito tra loro un patto vincolante. Tuttavia limitare l'orizzonte estetico a quel particolare momento storico, considerando come preistoria dell'estetica tutto ciò che precede e decomposizione dell'estetica tutto quello che segue, è troppo restrittivo e anche troppo noioso. Del resto anche in piena età neoclassica si sono levate voci contrarie a questo accordo, che ha avuto peraltro una durata molto breve.
Per queste ragioni ritengo molto più proficuo considerare l'orizzonte estetico come un territorio, in cui quattro contendenti (il bello, l'arte, la filosofia e lo stile di vita esemplare) si fronteggiano, confrontano e si affrontano tra loro dando luogo alle più varie situazioni strategiche. L'orizzonte estetico perciò non è affatto un luogo simbolico di pace e di armonia; esso è caratterizzato da un dinamismo permanente che di tanto in tanto si manifesta in aperti conflitti, ma che è sempre attraversato da tensioni ed attriti.
I contendenti che agiscono all'interno di tale orizzonte non sono individuabili in modo essenzialistico indipendentemente dalle relazioni che via via stabiliscono gli uni con gli altri. Chi si interroga sulla loro identità, cioè si chiede che cos'è l'arte, che cos'è il bello, che cos'è l'estetico (inteso al neutro come l'oggetto per eccellenza della disciplina estetica), che cos'è la condotta esemplare, corre il rischio di arrivare a risultati nulli. Questo approccio metodologico, anche se preceduto da un'ampia rassegna storica dei vari modi in cui sono stati pensati il bello, l'arte, l'estetico e lo stile di vita esemplare, arriva alla conclusione sconfortante che tutto può essere considerato come bello (anche il brutto nelle sue varie declinazioni), come arte (anche l'anti-arte), come estetico (anche l'anestetico), come stile di vita esemplare (anche l'abietto).
Fatto sta che i legami interrelazionali tra gli attori dell'orizzonte estetico sono molto più importanti delle loro determinazioni singole: ognuno di essi stabilisce e muta la propria identità sulla base dell'interazione con gli altri con riferimento ad una visione strategica complessiva. Il bello, l'arte, l'estetico e lo stile di vita esemplare non sono entità che esistono in se stesse, separatamente dal loro rapporto; esse non possono essere tirate fuori dall'orizzonte estetico all'interno del quale sono nate e si sono sviluppate. Si tratta di nozioni aperte e fluide che si posizionano e si muovono nell'orizzonte estetico a seconda delle circostanze e delle opportunità, organizzando di volta in volta alleanze e antagonismi, concordanze e contrasti.
Cosa significa precisamente, per lei, interpretare un testo?
Dalla risposta precedente risulta che sono estraneo ad una linea ermeneutica che prescinde dalla considerazione dei contesti.
Si considera un apocalittico?
Ho l'impressione che questa domanda derivi dalla lettura del mio ultimo libro Contro la comunicazione (Einaudi 2004). Ma la mia critica al mondo contemporaneo non deriva da un pessimismo metafisico. Intende soltanto sottolineare la gravità del momento: la necessità di una scelta, di aut-aut. O si sta dalla parte della comunicazione massmediatica e allora il risultato sarà l'autodistruzione dell'Occidente: oppure si riattivano orientamenti e tendenze che non sono risultate egemoniche (come l'Illuminismo) e allora c'è ancora qualche speranza. Il fatto è che la modernità occidentale ha preso una strada sbagliata quando il cambiamento è diventato terroristico (penso non solo alla rivoluzione francese, ma anche alle guerre di religione). Non condivido affatto l'idea che bisogni passare attraverso la guerra civile per arrivare alla modernità. Il terrorismo non è qualcosa di nuovo: sta scritto nell'orientamento preso dalla modernità occidentale già del Seicento. Il terrorismo islamico è una questione interna all'Occidente. L'Islam non è ancora l'Oriente, ma un altro Occidente, una sua declinazione. Insomma non sono un intellettuale che ha il filo diretto con l'universale o con la classe operaia o con il popolo o con le maggioranze silenziose... Sono consapevole delle condizioni fisiche, sociali, culturali ed economiche che hanno mi hanno consentito finora di leggere, di pensare, di scrivere, di pubblicare e spero che tali condizioni continuino ad esistere anche in futuro. Ma non ne sono assolutamente certo. La disgregazione dell'Occidente, che acuti osservatori come Nietzsche e Burckhardt avevano colto già alla fine dell'Ottocento, continua senza tregua e nel corso degli ultimi anni si è accelerata. La minaccia di distruzione totale non incombe soltanto sulla scuola, sul giornalismo critico, sull'università, sull'editoria, sulla ricerca, sulla divisione dei poteri, sull'autonomia di qualsiasi attività professionale..., ma anche sulla tenuta dei campi culturali e civili. Senza l'esistenza di campi (nel senso che Pierre Bourdieu dà a questa parola) non sono più possibili quell'insieme di habitus, di aspettative, di interessi, di investimenti emozionali, di opportunità oggettive e di domande di riconoscimento che sostiene e motiva le azioni simboliche.
Qual è la sua posizione nei confronti della psicoanalisi?
Io ho sempre attribuito alla psicoanalisi una enorme importanza teorica. Piuttosto mi chiedo come mai nel quadro della filosofia italiana gli strumenti concettuali estremamente raffinati della psicoanalisi siano così poco applicati.
In chi sente oggi di poter trovare una profonda intesa intellettuale?
L'importante non è il chi, ma il che cosa. Mi spiego. Non credo nelle essenze individuali, ma nelle situazioni in cui gli individui si muovono. Nel corso della mia esperienza mi sono sentito parte in alcune onde socio-culturali: quella della contestazione dal '66 al '78 e quella del postorganico dall' '88 al '95. Dall' 11 settembre 2001 è cominciata un'altra onda: quella delle modernità plurime. Con l'appannarsi del modello egemonico di modernità americana molti ormai guardano ad altre forme di modernità non occidentali (innanzitutto al Giappone e all'area orientale). Anch'io condivido questo interesse. Penso tuttavia che occorra nello stesso tempo ripensare quelle tendenze che come l'Illuminismo sono risultate marginali nella nostra modernità, perché sommerse dal populismo giacobino e dal populismo romantico. Più che mai vale oggi la divisa dei riformatori Meiji: "Popolo ignorante, governo dispotico". Che poi l'intesa emozionale e intellettuale con le persone coinvolte in queste onde sia "profonda", questo non mi sento di affermarlo né per il passato né per il presente, e tantomeno per il futuro. Direi che è fatta di equivoci e di malintesi non meno che di convergenze e di solidarietà. Non mi fido di ciò che si presenta come troppo puro, profondo ed eterno. Il "semel verum, semper verum", non è cosa di questo mondo. Appartengo già alle generazioni del relativo e del contingente, non dell'assoluto.
Tra i suoi numerosi lavori (“L’alienazione artistica”, “Enigmi. Il momento egizio nella società e nell’arte”, “Del sentire”, “Il sex appeal dell’inorganico”, “L’arte e la sua ombra”…), in quale ha sentito di aver raggiunto piena espressione del suo pensiero?
Ho qualche difficoltà a parlare di un "mio" pensiero e ancor di più della sua espressione, come se esso preesistesse al lavoro della scrittura. Il mio libro migliore, Dopo Heidegger (Feltrinelli, 1982), è stato anche quello che ha avuto meno riconoscimenti e nessuna traduzione. Il fatto è che sono letto, apprezzato, criticato e discusso come pensatore dell'arte e dei media, ma non come teorico politico (mentre tendo a pensare che tutto ciò che scrivo sia in primo luogo storico-politico). La mia più grande passione è in effetti la storia delle collettività e degli individui. Sotto questo aspetto mi considero molto italiano.
Su che cosa si stanno concentrando attualmente i suoi studi?
Spero di potermi concentrare su qualcosa. Non do mai per scontato di riuscire a fare qualcosa.
Doriano Fasoli
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