Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Il duca di Mantova
Conversazione con Franco Cordelli
di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- giugno 2005
Tra i poeti della sua generazione, la mia preferenza andava però a Vittorio Sereni. “Gli strumenti umani” resta un libro memorabile tra i maggiori del secolo. Quando si parla, come se ne parla oggi, così diffusamente di poesia verso la prosa – è a Sereni che si pensa: a Sereni come esempio in tal senso fulgido – più dello stesso Montale che, per altro, come poeta in prosa (per così dire) è successivo a Sereni. “Satura” è del 1971.
Quali sono gli ingredienti necessari per fare di una traduzione un’ottima traduzione?
Questo proprio non lo so. Posso supporre che sia necessaria un’ampia e profonda conoscenza della lingua da cui si traduce, di quella in cui si traduce, dell’opera dell’autore che si traduce – e d’una inclinazione, d’una sensibilità, d’una passione: certosina, capillare, disumana – anche della passione che consenta lo strappo, alla fine di fregarsene e andare avanti, per la propria strada.
Ha seguito con interesse, nel corso del tempo, il fenomeno cantautorale (Tenco, Endrigo, De Andrè, Battiato, Conte…)?
I cantautori mi piacciono, da quando ero ragazzo. A ciò si ferma la mia constatazione. Del discorso cui lei allude non mi importa nulla. I cantautori ovviamente non sono poeti, sono come gli sceneggiatori dei film. Ci sono i più bravi e i meno bravi, cioè i più funzionali e i meno funzionali.
Sartre e Camus: due amici, due antagonisti. Chi dei due ha avuto ragione sull’altro? Chi dei due risulta essere più attuale?
Anche se Sartre lo ha rifiutato, il Nobel lo hanno avuto tutti e due. Di tanto in tanto mi è più simpatico Sartre. Si è speso di più, era più arrogante, era più sfacciato, era un mostro. Di tanto in tanto mi è più simpatico Camus. Era laconico, era riservato, un notevole calcolatore degli effetti. Ha il merito di essere morto giovane, in un incidente automobilistico, come il mio amico Maurizio Grande.
“L’idea di libertà si ricollega al bere”: suona così un verso di Malcom Lowry, grande scrittore, eppure oggi quasi completamente dimenticato. Lei gli ha dedicato un bellissimo capitolo intitolato “L’osteria suprema”. Come spiega il suo interesse verso questo autore? Ed ha apprezzato la versione cinematografica che il regista J. Huston diede di “Sotto il vulcano”?
Del film di Huston, sia nell’infedeltà sia nella fedeltà impossibile da realizzare, ricordo con piacere la bella faccia di Albert Finney. Quando, ubriaco, crolla in mezzo alla strada è un in sé performativo del tutto credibile. In quanto al romanzo, e a Lowry, come non amare uno scrittore così intimamente e profondamente privo di ambizione? Lowry è stato lo scrittore più santo del ventesimo secolo. Più di Mandel’štam. Più di Salamov. I due russi sono diventati santi perché qualcuno li ha costretti a diventarlo. Lowry non l’ha costretto nessuno.
Va ancora volentieri al cinema? E i suoi film preferiti?
Vado sempre al cinema. O meglio: vedo ogni giorno (ogni sera) un film. Ma i film che vedo sono in vhs o in dvd. Assisto alla resurrezione dei corpi che credevo scomparsi per sempre! Chi può ancora dubitare della resurrezione dei corpi? Che poi questi corpi siano fantasmi, o ombre, o quello che volete, è ciò che la tecnologia ci ha permesso di appurare prima della nostra morte, ovvero della nostra personale scomparsa dalla faccia della terra. Non siamo fortunati ad essere nati dopo il cinema, la televisione, il vhs, il dvd?
Come possiamo difenderci dalla franca stupidità dell’eccesso di informazione e dalla sua gratuità, dai suoi stereotipi, dalla sua approssimazione, dal suo cinismo dei sentimenti, dalla sua occasionalità e dalla sua inclinazione a seguire solo la moda (e ciò vale e per la televisione e per la stampa tutta)? Informandosi per quanto è possibile selettivamente, espellendo dal raggio dell’attenzione per quanto è possibile risposte precise a questioni precise, rifiutando senz’altro di essere coinvolti in sentimenti di pura speculazione e mettendo in ombra ciò che è soltanto del momento e che va incontro solo alle sollecitazioni più corrive?
Possiamo proteggerci da tutto ciò che lei dice proprio e soltanto adottando tutte le tecniche di difesa da lei indicate. Ciascuno sceglierà quella a se stesso più congeniale.
Qual è l’attuale stato di salute del teatro?
La mia sembrerà una risposta ottimistica, o incredibile. Quello che è certo è che si tratta di una risposta che potrebbe dare solo chi va a teatro molto spesso, per mestiere. Ma lo stato di salute del nostro teatro è buono, anzi eccellente. Non tanto per la qualità delle proposte artistiche quanto per un crescente e appassionato rapporto tra il teatro e il suo vecchio o nuovo pubblico. Da che cosa dipenda tutto ciò non so deciderlo. Ma ho l’impressione che si tratti di una reazione all’assedio della astrattezza degli altri media. A teatro ci sono i corpi. È una verità cui non si sfugge. I corpi costituiscono un limite insormontabile.
“Ma in Italia basta voltarsi un attimo e non si è più. Non si è più stati”. È già così per Carmelo Bene, a pochi anni dalla sua scomparsa?
Mi duole darle questa risposta, a lei che è, di Carmelo Bene, un devoto. Ma temo abbia ragione. Però ha anche torto. Lo dicevo sere fa ad un gruppo di amici. Non ci ricordiamo più di Carmelo Bene, come non ci ricordiamo di Romolo Valli. Tutto è così. Il teatro lo è di più. Pure, sia Valli sia Bene, hanno lasciato tracce indelebili. Sopravvivono senza che noi ce ne accorgiamo.
A cosa si sta attualmente dedicando?
Mi sto dedicando alla mia professione di cronista teatrale: che comporta crescenti problemi logistici.
Doriano Fasoli
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