Riflessioni in forma di conversazioni
di Doriano Fasoli
Interviste a personaggi della cultura italiana e straniera - Indice
Tra la vita e la morte
Conversazione con Cristiana Cimino di Doriano Fasoli per Riflessioni.it
- Febbraio 2021
Psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, Cristiana Cimino, esercita a Roma. Full member della Società Psicoanalitica Italiana (IPA). Ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Attualmente è membro dell’Editorial Board della rivista Vestigia, dove ha pubblicato: “The Ek-static Love. A Feminine Ethical Perspective” (2017), “Will the Lambs still scream? On the Silence of Animals” (2018). Ha collaborato con l’Istituto di Studi Filosofici di Napoli e di Roma (Scuola di Roma). Ha pubblicato "Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile" (Roma: Manifestolibri, 2015). Si occupa del tema del femminile.
Dottoressa Cimino, come nasce questo suo ultimo lavoro, “Tra la vita e la morte” (pubblicato ancora per “manifestolibri”)?
Nasce come tentativo di leggere Freud seguendo una traccia la cui origine faccio risalire alla tematizzazione della precarietà umana e della morte e che attraversa le forme che prende il “negativo” nell’opera di Freud. Innanzitutto, quella della coazione a ripetere (o automatismo di ripetizione, l’efficace traduzione lacaniana) o, apparentemente agli antipodi, quella che troviamo nel saggio La negazione, in cui è formulata un’ipotesi sulla nascita stessa del pensiero. Questa traccia, che attraversa l’opera freudiana fino alla fine, è, dal mio punto di vista, indissolubilmente legata al tema del materno/femminile.
È anche un voler rivisitare alcuni luoghi cospicui della psicoanalisi che sono stati in buona parte scotomizzati dalla psicoanalisi istituzionale. Trovo che alcuni snodi psicoanalitici costituiscano uno strumento per leggere, ma anche per maneggiare nel reale, fenomeni che vediamo tutti i giorni: la violenza, nello specifico quella “di genere” (sia esplicita che occultata o normalizzata), il dilagare delle istanze identitarie, razziste e populiste. Mi riferisco alla clinica e non solo.
Può dare una spiegazione circa il sottotitolo: “La psicoanalisi scomoda”?
Direi che la psicoanalisi è scomoda in quanto tale, lo è sempre stata, anche per gli analisti, tant’è che si è sempre cercato di addomesticarla. A maggior ragione è scomoda, scandalosa persino, se alcuni nodi spinosi trovano o ritrovano cittadinanza nel discorso psicoanalitico. Quando Freud ha introdotto la pulsione di morte i primi a rigettarla sono stati gli analisti.
Nodi spinosi ma molto fertili - direi non prescindibili - sia per la clinica, che per la riflessione da parte della psicoanalisi su sé stessa e sul mondo.
Quale era l’atteggiamento di Freud verso la morte?
Freud temeva moltissimo la morte, sia la propria che quella dei propri cari ed effettivamente ha subito perdite dolorose, come quella della figlia Sophie (“la bambina della domenica”) e del nipotino Heinz (il piccolo Heinele). Credo che le vicende molto travagliate, compresa la guerra e l’esilio a Londra, possano spiegare solo in parte l’interesse di Freud per alcuni temi che, invece, nascono in modo logico dal suo lavoro di ricerca.
Cosa emerge dal famoso incontro di Freud con Rilke?
Emerge la precarietà della condizione umana, specialmente se collocata nel periodo storico nel quale Rilke, e anche Freud, scrivono. Il lutto da fare è proprio quello legato all’illusione umana di eternità e di “garanzia”. Storicamente parlando, al dissolversi dei fondamenti.
La “caducità” rimanda anche alla fertile possibilità che la caducità stessa venga sostenuta e accolta, alla sospensione del padroneggiamento a tutti i costi, di marca inevitabilmente femminile.
Come si pone Freud di fronte all’enigmaticità del femminile?
Freud inizialmente è stato molto coraggioso nell’inoltrarsi nel dark continent e nel tentare di rispondere alla famosa domanda “che cosa vuole (desidera) una donna?” Si è arreso presto, optando per una soluzione “facile”, ossia fare del desiderio femminile un desiderio di maternità, di figlio. La sua resa è sancita dell’idea che nella cura ogni sforzo si arresta per definizione di fronte a quella “roccia” che è l’angoscia, diciamo, di “passività”, ossia l’angoscia di castrazione, sia per gli uomini che per le donne. Declinata in modo diverso, evidentemente.
Rispetto a Freud, sui temi della caducità e della femminilità, qual è il contributo di Lacan?
Lacan, che riprende l’interrogativo freudiano, trova una soluzione del tutto differente. Essere donna e essere madre non sono più sovrapponibili, dunque abbiamo a che fare con un femminile in quanto tale che non è il materno. Questo ha grandi implicazioni teoretiche e cliniche, per esempio l’idea che, in una cura, la così detta angoscia di castrazione possa e debba, in qualche modo, essere attraversata per assumere la propria “castrazione” ossia la propria mancanza. La castrazione diventa un transito necessario per occupare un posto nel mondo, un più e non un meno.
Lacan introduce, inoltre, l’esistenza di un territorio “oltre-struttura”, ossia che non risponde alla legge edipica, la cui marca è femminile.
Precisamente: in cosa si differenziano il desiderio e il godimento?
Questi termini freudiani sono stati rivisitati da Lacan che li ha collocati al centro del suo pensiero. Sono legati a tempi diversi della ricerca lacaniana che, nella sua seconda parte, ha messo più l’accento sul così detto Reale, un “impossibile a dirsi” che tuttavia, nella cura, non si può che tentare di dire. Al Reale è legato sia il concetto di godimento che il tema del femminile, come Lacan l’ha declinato. I primi tempi della ricerca lacaniana hanno visto il Simbolico e il suo primato protagonisti, dunque il desiderio. Si tratta di differenti prospettive.
Come viene espressa l’angoscia di castrazione?
Nella ricerca, dovrei forse dire nel vagheggiamento, da parte degli esseri umani, di garanzie, di completezza, di tutto ciò che nega la “caducità” e i territori psichici contigui, come il femminile.
La morte si sconta vivendo, scriveva Ungaretti: perché ogni grande opera dell’uomo è attraversata dal sentimento della fine?
Perché tutta la vita è attraversata dalla morte e, certo, gli artisti ne sanno di più. Ma anche la vita degli esseri “comuni” non è da meno. Derrida, non a caso, scriveva la vita la morte, senza soluzione di continuità. La morte nasce con la vita anche se, per vivere, è necessario dimenticarsene un po’.
Dunque la vita, il corpo, non implora altro che di tornare all’inorganico?
Non si tratta tanto del corpo, della biologia, ma dell’umano. Se assumiamo, freudianamente, che gli esseri umani siano guidati dalla ricerca del Lust, dobbiamo considerare come sommo piacere il placarsi di ogni tensione. Questa è la vittoria definitiva di Thanatos, non la morte in quanto tale. Vediamo raramente Thanatos allo stato “puro”, nella cura la vediamo molto spesso legata a Eros nella forma della ripetizione, nel tornare sul luogo del delitto, del trauma, insomma. Eros combatte la sua battaglia per spezzare il circuito e gli analisti devono trovare i modi per sostenerla.
Doriano Fasoli
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