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Riflessioni Filosofiche

Riflessioni Filosofiche   a cura di Carlo Vespa   Indice

 

TESINA DI FILOSOFIA MORALE

Il modello giusnaturalista di Hobbes

di Carlo Vespa

 

NOTIZIE BIOGRAFICHE E CONTESTO STORICO

Thomas Hobbes nasce nel 1588 a Malmesbury in Inghilterra, in un periodo storico poco felice per una Europa dilaniata dalla “guerra dei trenta anni”, dalle lotte per l’organizzazione della monarchia assolutistica in Francia, dalla crisi della monarchia inglese, in cui l’unità dello stato era minata dalle lotte religiose, sociali, politiche, e dal contrasto tra la corona e il parlamento; eventi che, come triste e angoscioso spiraglio, lasciavano aperto solo quello della guerra civile.

I motivi di lavoro e gli avvenimenti politici lo portarono a vivere distante dalla sua patria; precettore presso la famiglia dei conti di Cavendisch, Hobbes poté conoscere Bacone e vari scienziati. Dopo svariati viaggi in Europa, nel 1640 si stabilisce a Parigi e viene a contatto con alcune grandi personalità dell’epoca e con le idee filosofiche d’avanguardia.

Tutto il suo apparato filosofico politico, ridotto al nocciolo della questione, vuole essere un antidoto risolutivo al più grande dei mali, da cui il filosofo è ossessionato, cioè la guerra civile, causa della dissoluzione dello Stato. E questo Hobbes sente di dover evitare perché senza lo Stato, l’uomo resterebbe anche senza  quella sicurezza che, come vedremo, viene ad essere uno dei cardini del suo modello giusnaturalistico.

Le questioni sul diritto del potere e dell’obbedienza, che preannunciavano in modo tristemente scontato l’avvento della guerra civile, sono addotte dal filosofo nella prefazione al De Cive, come motivo della anticipata pubblicazione del volume suddetto, rispetto ai suoi piani originali, in base ai quali avrebbe dovuto occupare la terza posizione, dopo il De Corpore e il De Homine. In seguito a ciò afferma di non aver scritto il De Cive per essere lodato ma “Per il vostro bene [...] poiché spero  che, conosciuta ed esaminata la dottrina che propongo, avreste preferito sopportare di buon animo qualche danno privato [...] piuttosto che turbare l’ordinamento della repubblica”[1].

E non è un caso che nella conclusione della prefazione, Hobbes usi delle espressioni come : “in vista della pace”, manifestando il suo “giusto dolore di fronte alle presenti calamità della patria”[2].

Bobbio vede come prova che Hobbes sia uno scrittore realista, proprio il fatto che la sua descrizione dello stato di natura vada a coincidere indirettamente con quella della guerra civile. Se dunque lo stato di natura hobbesiano risulterà, nel prosieguo di questa trattazione, un’ipotesi di ragione, una pura idealità necessaria a giustificare il passaggio dell’uomo alla società civile, tuttavia esso costituisce per un altro verso uno specchio che riflette, nelle sue particolari accezioni, la guerra civile che dilaniava la sua patria.

 

DAL MODELLO ARISTOTELICO SCOLASTICO AL MODELLO GIUSNATURALISTICO MODERNO

Fino al 1600 vigeva la cosiddetta filosofia politica tradizionale, che si fonda sul modello aristotelico, e che trova nella Politica una delle sue illustrazioni più famose.

Successivamente con il Giusnaturalismo moderno, e particolarmente con Hobbes, tale concezione viene per molti versi rovesciata, proprio come era accaduto alla visione aristotelico tolemaica per opera di Copernico.

Da Aristotele in poi sorge e si fortifica la concezione di etica e politica intese come conoscenze del probabile, dimora incontrastata della retorica. I punti essenziali della dottrina politica classica riguardano l’analisi della natura dell’uomo, inteso da Aristotele come “animale socievole”[3], e l’esame del processo storico-evolutivo dell’umanità, dallo stadio più primitivo di società, la famiglia, alla forma più perfetta, la “polis”; processo caratterizzato da tappe non contrastanti tra loro, ma che denotano un passaggio graduale evolutivo.

Prima di Hobbes, il diritto romano aveva la funzione di risolvere i casi concreti, il che implicava adattare la teoria al singolo caso pratico. Si interpretava cioè lo “ius civile” relativamente alla situazione particolare. In ciò il filosofo vede un grosso limite della giurisprudenza classica. La novità, che apporta in questo campo, consisterà nel mettere a contatto il diritto con la filosofia, affinchè il compito del giurista sia di dire cosa è legittimo e non cosa è giusto.

La scuola del Giusnaturalismo moderno, che i più sono concordi nel far nascere nel 1625, anno in cui veniva pubblicato il De iure belli ac pacis di Ugo Grozio, il quale sotto molti aspetti ne è il fondatore, tende a ribaltare i tratti essenziali del modello aristotelico , dando così nei suoi punti più importanti una nuova definizione di scuola di diritto , stato di natura, società civile, basata non più su un’analisi storica dell’evoluzione umana, bensì su una costruzione razionale, su una pura ipotesi logica da cui deriverà, per convenzione, la società civile, che perderà quindi l’origine naturale assegnatale da Aristotele.

Con ciò si fonda la scuola del diritto naturale, dello “ius naturale”. Essa si preoccuperà di individuare le norme che presiedono allo svolgimento dei dettagli e dei contenuti delle disposizioni naturali.

Al passaggio graduale, che conduce naturalmente la famiglia verso la “polis”, il Giusnaturalismo moderno oppone il suo nuovo modello basato su una caratteristica dicotomia: stato di natura - società civile,  da cui discendono direttamente due conseguenze:

1) l’uomo può vivere o nel primo o nella  seconda;

2) il passaggio graduale viene totalmente rovesciato.

 

STATO DI NATURA E SOCIETA’ CIVILE

Tra essi c’è una intima contrapposizione; sono i due estremi tra cui non vi è alcun anello naturale di congiunzione, le due uniche condizioni di vita al di là delle quali non c’è altra soluzione, “tertium non datur”.

A causa di  tale antitesi l’uomo  perviene allo stato civile non naturalmente, bensì mediante delle convenzioni, delle scelte volontarie; il che prova l’artificialità dello Stato, in quanto prodotto volutamente dall’uomo.

Il consenso sotto forma di patto, di contratto, rappresenta così la novità della scuola del diritto naturale moderno rispetto al modello aristotelico.

La società civile ha la funzione di eliminare i difetti dello stato naturale, identificati nei suoi elementi costitutivi: gli individui singoli non associati e il regime di  libertà e uguaglianza.

Se per certi versi si può parlare di una scuola del giusnaturalismo, perché tali tratti fondamentali si possono riscontrare in tutte le opere di ogni giusnaturalista, d’altra parte  il senso in cui questi punti fermi vengono intesi da ciascun esponente della dottrina politica in questione, è particolare e originale.

A buon diritto è opinione comune della critica, trarre dal modello teorico di tale dottrina, filosofico pratico giuridica, un motivo ideologico, facendo di essa un riflesso , un rispecchiamento della nascita e dello sviluppo della società borghese.

 

METODO E RECTA RATIO

Un’altra differenza con la tradizione del diritto giuridico tradizionale riguarda il metodo d’indagine seguito da Hobbes in base al quale la critica gli attribuisce,  più che a Grozio, che da questo punto di vista resta ancora legato al passato, “ il titolo di Galileo delle scienze morali”[4].

Annoveriamo tra gli elementi che hanno condizionato seriamente il filosofo nel delineare la dottrina del metodo, la rivoluzione scientifica di Galileo e Bacone, la filosofia di Cartesio oltre alla sua logica e al suo nominalismo rigorosamente estremo.

Hobbes ,infatti, arriva alla conclusione che solo la geometria garantisca all’uomo le certezze e non solo nel suo campo specifico, ma in tutte le scienze, non ultima la filosofia politica con cui il filosofo tenta di abbattere qualsiasi tipo di instabilità e di insicurezza umana.

La filosofia non si deve più soffermare su ciò che è giusto o no, ma deve adottare un metodo geometrico rigoroso, cioè partire da assiomi, da postulati da cui dedurre delle conclusioni autoevidenti come gli assiomi di partenza. Tale metodo va oltre quello di Galilei, analitico sintetico, che dalla causa prevede l’effetto; Hobbes infatti passa dal metodo dimostrativo a quello scopritivo che consta nello scomporre in parti un oggetto per poi ricomporlo al fine di meglio comprenderlo. L’esempio più evidente di tale architettura metodologica sta nell’analisi dello Stato, inteso dal filosofo come un meccanismo artificiale da analizzare  come fosse un orologio[5]. Hobbes infatti opera una razionale ricostruzione dell’origine e del fondamento dello Stato.

La sua rivoluzione metodica mostra come sia cambiato il punto di riferimento a cui si aggrappavano i giuristi tradizionali.

Con Hobbes infatti l’insegnamento della storia lascia il posto all’analisi razionale.

L’autonomia della ragione assume in tale contesto un ruolo fondamentale di purificazione dagli inquinamenti ad essa esterni come la religione ecc.

Effettivamente la sua trattazione politica trova nella “recta ratione” uno dei punti più felici, più sicuri, più innovativi.

I dettami della retta ragione infatti svolgono una funzione importante di guida per l’uomo sotto forma di regole prudenziali. Non è la facoltà di capire l’essenza di una cosa, essa non ha valore conoscitivo bensì normativo. Per Hobbes il ragionare equivale ad una pura azione di calcolo: “ratiocinatio est computatio” (De corpore, I, 2). Il che mostra l’evidente connubio instaurato dal filosofo tra metodo rigoroso geometrico e ragione calcolatrice, per cui data una certa premessa si ricavano necessariamente  determinate conclusioni.

La ragione come “calcolo” in Hobbes non è una novità, basti pensare al suo rigoroso nominalismo, famoso per la caratteristica unione di linguaggio e matematica, per cui “animale + razionale = uomo”.

 

ANTROPOLOGIA PESSIMISTICA

Lo stato di natura delineato da Hobbes è l’immediato riflesso della sua antropologia. In effetti la sua analisi rigorosamente naturalistica, che nel De homine fa dell’uomo, contribuisce in modo determinante a far maturare nel filosofo la conclusione che a fondamento della natura dell’uomo non vi sia la socievolezza, come Aristotele aveva fatto credere per parecchi secoli , bensì l’egoismo; di qui il conseguente pessimismo che caratterizza la sua  antropologia.

E nel De cive, che è pur sempre una vera e propria grammatica dell’obbedienza, Hobbes afferma che al di là del suo rigoroso schematismo razionale, gli sia bastato osservare la realtà cioè il comportamento degli uomini e le loro motivazioni, quando si riuniscono insieme, per rendersi conto che il movente delle loro azioni sia l’utile proprio, il proprio tornaconto personale, il vedere confermata da altri la propria superiorità, la propria gloria. Dunque ogni società si forma per l’utile o per la gloria, cioè per amore di sé e non dei soci.

E’ chiaro che, in tale analisi c’è una sottile critica che il filosofo indirizza alle relazioni mondane e cortigiane a cui, per la sua posizione, spesso  si era  dovuto avvicinare; e forse proprio per la ripugnanza che queste suscitarono in lui, le pagine del De cive, dedicate a tale questione sono di inquietante vigore descrittivo e critico. Così le conversazioni di palazzo, analizzate in modo spietato, con un mirino puntato direttamente sulle pieghe che affliggevano la società borghese intellettuale, da cui tuttavia il filosofo non si poteva estraniare per la protezione che ne riceveva, sono la base empirica su cui Hobbes costruisce il suo castello giusnaturalistico.

 

LO STATO DI NATURA DI HOBBES

Con lo stato di natura prende il via la vera trattazione giusnaturalistica che, proprio perché direttamente legata all’originalità del metodo hobbesiano e fondata sulla peculiare antropologia individualistico pessimistica, presenta delle caratteristiche del tutto particolari, rispetto al modello canonico di base del giusnaturalismo moderno.

A questo riguardo il Bobbio[6] nel descrivere le variazioni intorno al tema principale, cioè la dicotomia tra natura e stato, individua tre aspetti fondamentali dello stato di natura:

 

1) storicamente esistito o ipotesi razionale;

2) pacifico o bellicoso;

3)stato di isolamento o società prepolitica.

 

Lo stato di natura in senso universale è per Hobbes una pura ipotesi razionale; mentre uno stato di natura storicamente determinato è riscontrabile, per il filosofo, solo in alcuni casi particolari:

 

a) stato di rapporti tra gruppi sociali indipendenti, cioè, in altre parole, il rapporto internazionale tra gli stati che, per Hobbes, vivono reciprocamente in uno stato di natura;

b) lo stato in cui vengono a trovarsi gli individui durante la guerra civile;

c) alcune società primitive come gli indiani d’America come testimoniato da alcuni scritti di esploratori ecc..

 

Una delle prime conclusioni, che Hobbes trae dall’analisi dello stato naturale, è l’affermazione della naturale uguaglianza di tutti gli uomini. Dove tale naturalità sta ad indicare l’esclusione di qualsiasi base o valore metafisico razionale all’uguaglianza, che, sciolta così da tali significati, diviene per il filosofo “la causa della paura reciproca [...] insieme con la volontà di nuocersi l’un l’altro”[7].

Infatti alla luce della sua analisi dell’uomo, per cui il dualismo superiore\inferiore viene ridotto ad una identità, in quanto spesso il più debole uccide il più forte, Hobbes è portato a dire che sono  da intendersi come uguali, coloro che possono fare cose uguali, gli uni agli altri. E proprio la condizione di assoluta parità, che dovrebbe essere un bene, tuttavia causa nell’uomo una profonda insicurezza; per quanto infatti questo si possa  adoperare, è consapevole del fatto che l’altro, chiunque esso sia, sarà in grado di nuocergli almeno quanto serve per ucciderlo.

Ma non basta, perché se tale insicurezza mostra in quale tensione viva lo stato di natura quasi fosse una bomba allo stato potenziale, tuttavia essa deflagra nel momento in cui l’uomo si accorge che l’uguaglianza che c’è tra i suoi simili, non si estende anche alla proprietà dei beni, i quali, perché limitati o perché indivisibili, si sottraggono al pieno possesso da parte di un soggetto che li pretenda, quando sono già posseduti da un altro soggetto di pari forza.

La volontà di nuocere è la seconda causa del timore reciproco che spinge l’uomo a fondare lo Stato, e che può nascere o dalla tendenza a stimarsi superiori rispetto agli altri, cioè la vanagloria, o da quella conseguente di difendersi da quest’ultima.

Fatto sta che da tali presupposti, ne discende uno stato  permanente di diffidenza reciproca che spinge l’uomo più a prepararsi per la guerra che non per la pace[8].

Detto ciò appare chiaro ed evidente che, per quanto riguarda il secondo punto delle variazioni al modello generale giusnaturalistico, cioè se lo stato di natura sia pacifico o bellicoso, Hobbes propende decisamente per il secondo caso: lo stato di natura è uno stato di guerra. Così, in breve, l’assenza di relazioni politiche, cioè della relazione comando obbedienza, si identifica con la condizione di inimicizia, infatti “per ciascuno è nemico chiunque non gli obbedisca né gli comandi”[9].

Dunque lo stato di natura non è caratterizzato, come la tradizione aristotelica voleva, dal valore, metafisicamente fondato della pace, ma dal fatto della guerra; e non è più la guerra ad essere intesa come privazione della pace, che pertanto era il fine primario, bensì il contrario; infatti la pace è intesa come assenza di guerra, che in effetti è per Hobbes la vera condizione originale dello stato di natura.

La premessa del suo modello giusnaturalistico è che la conservazione della vita sia il primo dei beni e la morte il massimo dei mali naturali. E ciò è la scintilla che fa scoppiare appunto il meccanismo naturale, così come delineato dal filosofo inglese, cioè quello stato di guerra, che proprio per le cause che ne sono alla base, non cesserà se non con il cessare di  esse, ovvero con la morte dell’uomo.

In sintesi la visione di Hobbes si traduce semplicemente in una situazione di questo tipo: uno stato in cui tutti sono uguali nel potere di nuocersi, e in cui ognuno persegue il proprio fine che è la propria autoconservazione, cioè impadronirsi di determinati beni, che tuttavia sono indivisibili e limitati e dunque non sufficienti a soddisfare i bisogni di ciascuno; uno stato cioè, in cui ognuno ha diritto naturale su tutto, e che pertanto diventa una guerra di tutti contro tutti. Infatti se si ha diritto a tutto, ciò significa in realtà che nessuno ha diritto ad alcuna cosa, perché ciascuno troverà in tutti gli altri dei concorrenti ai medesimi beni, di qui l’ostilità reciproca da cui scaturisce uno stato di guerra permanente che conduce  inevitabilmente alla più rapida e sicura distruzione. Torna così in auge nuovamente l’inversione operata da Hobbes sul concetto chiave aristotelico della socievolezza naturale dell’uomo.

L’antropologia pessimistico individualistica a cui si è accennato in precedenza, si risolve nelle tre opere politiche  del filosofo con la definitiva maturazione dell’idea dell’uomo, inteso cioè con il plautino “homo homini lupus”.

 

Ius in omnia

Ciascun individuo è giudice, nello stato di natura, dei mezzi necessari alla difesa di sé.

Il diritto naturale finisce così per convertirsi nello “ius in omnia”, cioè in una libertà tanto assoluta quanto contraddittoria. Infatti “ciascuno ha una libertà del tutto completa, ma sterile, poiché chi, per la sua libertà, fa tutte le cose a suo arbitrio, per la libertà degli altri patisce tutte le cose, ad arbitrio altrui”[10].

Infatti la norma di diritto non significa  altro che la libertà che ciascuno ha di usare le facoltà naturali secondo la retta ragione, e così il fondamento ultimo del diritto naturale è che ciascuno difenda la sua vita e le sua membra per quanto è in suo potere.

Nello stato di natura la misura del diritto è l’utilità. Ma proprio per come questo è conformato, è più dannoso che positivo tanto da spingere Hobbes, a ritenere che “non è stato affatto utile agli uomini di avere avuto un simile diritto comune su tutte le cose”[11].

 

NORME PRUDENZIALI

La legge naturale deve essere chiamata a stabilire, secondo la retta ragione, il vero ordine degli interessi umani.

Mediante l’intervento della ragione dunque l’uomo auspica ad uscire dallo stato naturale per conservare il primo bene di cui dispone: la vita.

Tale sistema di regole va però inteso in modo particolare; sono regole prudenziali e come nota il Bobbio sono norme ipotetiche del tipo “se vuoi A devi B”[12], e indicano i mezzi più adeguati per raggiungere i propri fini.

Più problematica è invece l’affermazione di Hobbes per cui tali norme sono delle leggi naturali.

Il Bobbio e il Pacchi sono concordi nel ritenere che con ciò il filosofo abbia voluto fare un omaggio alla tradizione; non sono cioè il comando di una persona dotata di autorità, bensì leggi,  nel senso che tali dettami della ragione sono anche espressioni della volontà divina : “quelle che chiamiamo leggi di natura [...] non sono propriamente delle leggi, in quanto procedono dalla natura, [...] non sono altro che delle conclusioni, conosciute mediante la ragione intorno alle cose da fare o da omettere”[13]. Sono degli imperativi ipotetici cioè delle prescrizioni non assolute, ma relative al conseguimento dei fini.

Anche in ciò Hobbes differisce dal giusnaturalismo tradizionale, che conferisce alla ragione un rilievo contenutistico, infatti negli Elements nega ogni forma di normatività universale alla ragione che è invece un meccanismo puramente formale.

E se il fine dell’uomo è la conservazione, allora la pace, piuttosto che la guerra, sarà il mezzo cui tale fine si potrà conseguire con certezza.

E con ciò Hobbes enuncia la prima legge fondamentale di natura e cioè “che si deve cercare la pace, quando la si può avere altrimenti, di trovare aiuti per la guerra”[14] che allora risulterà inevitabile.

 

Foro esterno e foro interno

Le leggi naturali per Hobbes, sono delle leggi morali e pertanto prescrivono la pratica dei comportamenti come., moderazione,  equità,  fedeltà, umanità, misericordia etc.

Ciononostante poiché sono pur sempre delle norme prudenziali, hanno valore solo in coscienza, “nel foro interno”. Avrebbero un valore effettivo  se l’uomo nel seguirle, avesse la garanzia di raggiungere il fine cui esse sono state predisposte, primo fra tutti quello di avere salva la vita; ma ciò non si verifica. Diretta conseguenza è dunque che, se non si esce dallo stato di natura, l’uomo non potrà mai avere la sicurezza di non rischiare la propria vita.

Così di tale stato, ancora una volta Hobbes tende a sottolineare la triste condizione di timore reciproco, che permane nonostante la presenza di leggi valide, che si dimostrano tuttavia inefficaci.

 

Legge di natura e legge divina

Hobbes dedica molti paragrafi del De cive ad una attenta analisi, che mira a trovare  un riscontro delle leggi naturali, da lui enunciate, con i testi sacri.

Secondo Arrigo Pacchi il legame che il filosofo instaura tra le leggi naturali e i comandi  divini, non deve suscitare nel lettore una eccessiva meraviglia in quanto non va dimenticato il suo sforzo speculativo nel dare una definizione laica della legge naturale e poi, come vedremo, nell’assoggettare ogni tipo di istituzione allo stato, compresa la Chiesa.

Quindi come conferma il Bobbio, Hobbes unisce “il diavolo con l’acqua santa”[15] senza però per questo venir meno ai suoi principi teorici, per cui appunto le leggi naturali sono dei dettami della ragione, delle norme prudenziali.

 

CONTENUTI DEI DETTAMI DELLA RAGIONE E USCITA DALLO STATO DI NATURA

L’intero De Cive è volto ad illustrare la legge di natura come sistema di proposizioni razionali, “teoremi” su quello che gli uomini devono fare per conseguire la pace.

 Dalla prima legge naturale Hobbes fa derivare necessariamente che “il diritto a tutto non deve essere conservato, ma che certi diritti devono essere trasferiti o abbandonati.”[16], proprio perché lo “ius in omnia” conduce, come già mostrato, ad una guerra costante e permanente, almeno finchè due uomini restino in  vita.

L’enunciazione dei dettami della ragione naturale subisce leggere variazioni da un’opera all’altra; ciononostante le due leggi fondamentali per lo sviluppo della teoria hobbesiana restano inalterate. La prima è relativa all’associazione degli individui a scopo di pace o di difesa, la seconda è invece relativa all’osservanza dei patti.

La contraddizione dello stato di natura, per cui vi sono leggi valide ma non efficaci, non si può risolvere restando all’interno di esso.

Per questo all’orizzonte della teoria politica del filosofo appare in lontananza lo Stato, inteso come quel potere tanto irresistibile da spingere chi non è intenzionato a rispettare le leggi naturali, a desistere da tale convinzione e a cambiare atteggiamento. La salvezza dell’uomo va cercata dunque non nello stato di natura, ma nella società civile.

Le cause della guerra universale sono tre: le passioni e in particolare la falsa stima di sé, il diritto a tutto e la difficoltà a premunirsi in pochi e con poche difese dai nemici. La legge naturale per il suo carattere astrattamente razionale non può rimuovere le prime due cause. Il timore reciproco invece, la paura della morte, spingono gli uomini ad evitare i rischi di una lotta condotta con le loro sole forze e senza rispettare la legge naturale, e ad unirsi nella guerra; “così accade che, per paura reciproca, pensiamo che si debba uscire da tale stato, e cercare dei soci, affinchè se si deve affrontare la guerra, non sia contro tutti né senza aiuti”[17].

 

IL PATTO

La dicotomia stato di natura-società civile ha una caratteristica fondamentale che risiede nella modalità con cui l’uomo passa da uno all’altro, per cui a buon diritto il giusnaturalismo moderno è stato definito una filosofia politica “contrattualistica”. Che infatti l’uomo abbandoni lo stato di natura e passi allo stato mediante un patto d’unione, è accettato all’unanimità da tutti i filosofi giusnaturalisti.

Il patto diviene il rapporto sociale fondamentale, la condizione imprescindibile per la sopravvivenza umana, e proprio per questo ha delle caratteristiche del tutto particolari: “L’azione di due o più persone che si trasferiscono reciprocamente i loro diritti si chiama contratto. Ma in ogni contratto, o le due parti compiono subito quanto pattuito, senza che l’uno debba concedere credito all’altro, o l’uno lo compie, e concede credito all’altro, o nessuno dei due lo compie. Quando entrambi compiono subito la prestazione, il contratto si estingue non appena gli è dato adempimento. Quando invece o uno o entrambi danno credito all’altro, colui al quale si fa credito promette di compiere la prestazione in seguito, e una simile promessa si chiama patto”[18].

Lo scopo principale di questo accordo è di abbattere la causa dell’insicurezza, del timore reciproco che a sua volta nasce dalla mancanza di un potere comune. Per cui il contratto  preliminare, essenziale per Hobbes, ha lo scopo di istituire un potere comune.

 

Dal contrattualismo tradizionale al “pactum unionis

Hobbes supera il  limite dualistico del contrattualismo tradizionale, riducendo i due patti da esso previsti, “pactum societatis” e “pactum subiectionis”, ad uno solo, che forma un unico soggetto di diritto pubblico, e cioè il sovrano o un consiglio.

Il primo è l’obbligo di obbedire a tutto quello che il detentore del potere comune comanderà; il secondo è un patto di associazione tra individui che si impegnano reciprocamente a sottomettersi a  un terzo non contraente. Il primo patto trasforma una “moltitudo”, cioè un insieme di individui che non hanno niente in comune, se non il fatto di essere uomini, in un “populus”, ovvero in un gruppo dotato di una volontà di maggioranza; il secondo ha come contraenti il “populus” e il sovrano. Hobbes nota che  finchè un gruppo di individui resta soltanto una moltitudo, legata più al consenso momentaneo di fronte a un nemico comune, lo stato di guerra vigerà anche al suo interno: “se consentono in una singola azione,  per la speranza di vittoria, di preda o di vendetta, in seguito la diversità di intenzioni e di disposizioni, o l’emulazione e l’invidia, per cui gli uomini per natura contendono per natura, li dividono al punto che non vogliono darsi aiuto reciproco, né mantenere la pace fra di loro, se non sono costretti da qualche timore comune”, e pertanto, “segue da ciò che il consenso di molti (che consiste solo in questo, che tutti dirigono le loro azioni ad uno stesso fine, e al bene comune), cioè una società soltanto di aiuto reciproco, non procura a coloro che consentono, o soci, la sicurezza nell’esercitare fra di loro le leggi di natura, che stiamo ricercando”.[19] La società che si fonda sul “pactum societatis”, con cui appunto il popolo si associa, come nota il Bobbio, è “di mutuo soccorso”[20] ma privo di garanzie. Alla base della stabilità della società deve essere invece un accordo preliminare di sicurezza e che dia la possibilità di stipulare in tranquillità gli accordi ad esso successivi; infatti “soltanto questo accordo preliminare fa uscire l’uomo dallo stato di natura e fonda lo Stato”[21].

E l’accordo preliminare ,che starà alla base della società civile per il filosofo inglese, non conserva esattamente le caratteristiche né del “pactum subiectionis” né del “pactum societatis”, ma le unisce originalmente nel cosiddetto nuovo “pactum unionis” di cui enuncia la formula nel Leviatano: “io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione: che anche tu ceda il tuo diritto a lui e autorizzi le sue azioni allo stesso modo.”[22] Ciascun individuo si obbliga per patto, nei confronti di tutti gli altri, a sottomettere la sua volontà a quella di uno stesso individuo, di uno stesso consiglio, in modo che la volontà di costui sia tenuta per volontà di tutti e di ciascuno.

Il nuovo contratto hobbesiano riguarda, in effetti, il trasferimento al sovrano del diritto di usare delle forze di ciascuno , e questo , a sua volta, non è altro che l’abbandono del diritto di resistenza nei confronti del sovrano : “in ogni stato si dice che l’uomo o il consiglio alla cui volontà i singoli (come si è detto) hanno sottomesso la loro, si dice che ha la potestà suprema volontà, o il potere supremo, o il dominio. Questa potestà e il diritto consiste nel fatto che ciascuno dei cittadini ha trasferito ogni sua forza e potere a quell’uomo o consiglio. Avere fatto questo [...] non è altro che avere abbandonato il proprio diritto di resistenza”[23].

Stando così  la situazione, tale sovrano avrà evidentemente nelle sue mani il potere per far rispettare le leggi naturali e dunque per impedire al singolo di esercitare il proprio potere a danno degli altri.

 

SUDDITI E SOVRANO

Ora la sottomissione di tutti alla volontà di un solo individuo, implica che le varie volontà particolari siano confluite nella volontà sovrana, così che una decisione del sovrano  non potrà mai trovarsi in contrasto con la volontà di un suddito, in quanto significherebbe che la volontà del suddito è in contrasto con se stessa. Da ciò se ne ricava l’importante considerazione per cui il sovrano, poiché è l’unico ad esercitare il proprio diritto su tutto, risulta essere l’unica persona a permanere nello stato di natura, e quindi ad essere sottomesso alla legge naturale, ma non più a quella civile, da esso promulgata; va pertanto  obbedito senza discussione alcuna, salvo per i casi in cui questo attenti alla vita del suddito; infatti nessuno si può impegnare a farsi uccidere o ferire, poiché il fine che persegue e che lo spinge a sottomettersi, è proprio l’autoconservazione.

Il diritto del sovrano non è altro che il suo stesso diritto naturale reso efficace dalla rinuncia di tutti gli altri al proprio, e dunque il rapporto fra suddito e sovrano risulta fondamentalmente negativo, e si traduce nella semplice non resistenza.

In una situazione di siffatta specie diventa allora palese la grande rivoluzione teorica operata da Hobbes, nell’ambito della filosofia politica; i poli reali della vita sociale diventano il comando e l’obbedienza, e vanno a sostituire i rapporti reciproci fra i cittadini, che anzi devono presupporli per essere possibili. Non è più l’organismo gerarchico della comunità o un ordine comunque dato, a determinare al proprio interno i rapporti di comando legittimo, bensì al contrario, è un rapporto di comando, legittimato mediante un consenso generale, a costruire l’unica base della convivenza di una moltitudine.

L’unica legge a cui è sottoposto il sovrano è quella di natura, cioè ai dettami della ragione che si riducono ad “un solo detto: la salute del popolo è la legge suprema”, infatti continua Hobbes, “poiché i poteri sono stati costituiti in vista della pace, e la pace è ricercata per la salute, chi ha il potere, se lo usa altrimenti che per la salute del popolo, agisce contro le ragioni della pace, cioè contro la legge naturale”[24].

Tuttavia è doverosa una precisazione; qualora il sovrano trascuri tale norma, non esisterebbero comunque dei pretesti validi per deporlo; i sudditi sono infatti ugualmente tenuti a sottostare a lui, pur conservando stoicamente la loro libertà di coscienza.

Un’analisi di questo tipo mostra come l’ideologia a cui aderisca il filosofo inglese, sia profondamente conservatrice e controrivoluzionaria; il potere sovrano dà stabilità, e dunque tutto ciò che mira al suo abolimento deve essere messo in condizione di desistere dal farlo, in quanto appunto intaccherebbe tale stabilità.

 

LO STATO ASSOLUTO

Tramite il patto di unione dunque Hobbes fa passare l’umanità dallo stato bellicoso naturale, a quello pacifico della società civile, che, a causa delle modalità del patto poc’anzi descritte, presenta le tipiche caratteristiche dello stato assoluto.

Lo Stato hobbesiano è un caso particolare di autorizzazione; quello cioè in cui gli individui autorizzano, sulla base di patti reciproci, tutte le azioni del rappresentante.

In altre parole Hobbes mostra con rigore l’atto con cui una moltitudine si unisce in una persona. A tal riguardo il Bobbio mette in evidenza tre attributi fondamentali definendoli come i “tre contrassegni della dottrina hobbesiana dello stato : l’irrevocabilità, l’assolutezza, l’indivisibilità.”[25]

 

Irrevocabilità

I contraenti sono tutti, e senza distinzioni dei membri della società civile, sono tutti “uti singoli”, sono cioè una moltitudine e non un “populus”; e ciò significa che, solo se l’unanimità convenga nel revocare il patto, quest’ultimo si può sciogliere, il che sta a dimostrare quanto tale ipotesi rasenti l’impossibilità ad attuarsi.

Oltre a ciò, Hobbes nota poi ,con molta arguzia, che il contratto stipulato fra i membri della società è a favore di un terzo, il sovrano o un consiglio, che presumibilmente dovrebbe convenire con l’unanime scelta di tutti, a revocare il patto d’unione, cioè a lasciare volontariamente il potere affidatogli precedentemente. Risulta allora del tutto evidente, l’irrevocabilità del “pactum unionis”, poiché in breve consta di una doppia obbligazione, fra i cittadini medesimi, e con il sovrano.

Secondo una della più celebri tesi antiassolutistiche, il patto tra popolo e sovrano condizionerebbe poi il potere di quest’ultimo, con determinati obblighi. Ma Hobbes, in coerenza con la sua dottrina, nota che prima della costituzione del potere sovrano, il popolo non esiste; in origine infatti, vi è una moltitudine di individui isolati, che, per divenire “populus”, deve necessariamente stringere un patto d’unione.

 

Assolutezza

Come è stato accennato in precedenza, il sovrano non è soggetto alle leggi, poiché le leggi civili sono fatte dal sovrano stesso, e nessuno “può obbligarsi verso se stesso. Infatti l’obbligante e l’obbligato sarebbero la stessa persona; e poiché l’obbligante può liberare l’obbligato, l’obbligarsi verso se stessi è vano, perché ci si può liberare a proprio arbitrio”. Così, continua Hobbes, “lo stato non è tenuto alla leggi civili. Le leggi civili sono tenute dallo stato”[26]. Dunque come nota il Pacchi, “il sovrano riunisce in sé le prerogative dello stato; la sua  volontà è la volontà dello stato, e non esiste potere legittimo fuori dallo stato”[27].

 

Indivisibilità

Alla base del proposito hobbesiano per cui la sovranità deve essere attribuita ad un’unica persona, sta ancora la tendenza del filosofo ad eliminare tutto ciò che possa causare la disgregazione dello stato.

Non bastano dunque l’irrevocabilità e l’assolutezza; il terzo contrassegno che caratterizza lo stato è l’indivisibilità.

Il sovrano regge sia la spada della giustizia che quella della guerra, nomina i magistrati e i ministri  e gode di una assoluta impunità.

Il filosofo inglese ci tiene a puntualizzare che le due spade, necessariamente debbono appartenere alla medesima persona per il semplice motivo che l’imposizione di qualcosa, se manca dell’elemento coattivo, perde il suo valore: “E questo diritto (che possiamo chiamare la spada di guerra) appartiene allo stesso uomo o consiglio, cui appartiene la spada della giustizia. Infatti nessuno può di diritto costringere i cittadini alla armi, e a sostenere la spese di guerra se non può di diritto punire chi non obbedisce”[28], e,  “dunque ogni giudizio nello stato spetta a chi ha le spade, cioè a chi ha il potere supremo”[29].

L’analisi dei poteri dello stato mostra la chiara intenzione di Hobbes, di operare una fondamentale unificazione; tutti i poteri sono strettamente legati l’uno all’altro, così da richiedere che il possesso di questi ultimi sia proprio di uno solo, appunto del detentore delle due spade.

 

LEGGE NATURALE E LEGGE CIVILE

Il rapporto tra le due leggi è probabilmente uno dei punti più controversi del modello giusnaturalistico di Hobbes. Fondamentalmente il passaggio dalla prima alla seconda è direttamente proporzionale e parallelo al passaggio dalla stato di natura allo stato assoluto. Anzi , direi che sono le due facce di una stessa medaglia, che ha come fine primo, il raggiungimento della pace.

Le leggi naturali sono, come già notato, delle norme prudenziali, dei dettami della ragione che obbligano solo nel foro interno e che dunque presentano un limite che va risolto nella società civile mediante l’introduzione dell’elemento coattivo. Dunque nello Stato vige sempre la legge naturale, in quanto garantita nella sua osservanza dallo Stato stesso, cioè dal sovrano che punisce i trasgressori.

La legge civile allora sembrerebbe semplicemente il modo di intendere la naturale come legge coattiva.

Ma è anche vero che Hobbes dice che è compito esclusivo del sovrano, mediante l’introduzione di tali leggi, stabilire cosa sia giusto e cosa no, così che il sovrano non comanda ciò che è giusto, ma è giusto ciò che comanda il sovrano; e come afferma il filosofo nel De Cive : “fa parte del potere supremo produrre e rendere pubbliche delle regole, o misure simili comuni a tutti, con cui ciascuno possa conoscere cosa debba dire suo e cosa altrui, cosa giusto , cosa onesto e cosa disonesto, cosa bene e cosa male e insomma cosa si debba fare e cosa evitare, nella vita comune. Queste regole, o misure, si è soliti chiamare leggi civili o leggi dello stato, perché sono i comandi di chi nello stato detiene il potere supremo”[30].

E da quest’ultima considerazione nasce appunto la controversia. Se Hobbes infatti dice che “nessuna legge civile , che non sia stata promulgata per insultare Dio [...] può essere contraria alla legge naturale”, tuttavia non nega che “se la legge civile comanda di impadronirsi di qualcosa, non si tratta di furto”[31] anche se ciò sarebbe proibito dalle legge naturale.

Dunque la legge civile non è più la norma aggiunta dalla sanzione. Il suo contenuto spetta al sovrano che ancora una volta racchiude in sé l’unico vero potere supremo e illimitato.

Secondo il Pacchi la legge civile “Trae la propria legittimità dalla legge naturale, infatti è la ragione naturale a dedurre la necessità della costituzione dello Stato ed è l’obbligazione morale inerente all’osservanza dei patti che dà un senso al rapporto di obbedienza dei sudditi nei confronti del sovrano”[32]. Ma va anche detto che la legge civile una volta istituita, prende il posto di quella morale. Quindi “per un verso la morale fonda la politica, per un altro la politica fonda una nuova morale”[33], come sembra confermare proprio Hobbes dicendo che “le azioni possono a tale punto venire rese diverse dalle circostanze e dalla legge civile, da essere in un momento eque, in un altro inique; in un momento razionali, in un altro contrarie alla ragione.”[34]

Ma al di là di tutto, ciò che conta è il fine per cui l’uomo abbandona lo stato di natura :“tuttavia”, continua Hobbes, “la ragione stessa non muta il fine, che è la pace e la difesa, né i mezzi, ossia le virtù dell’animo che abbiamo sopra enunciato, e che non possono venire abrogate da nessuna consuetudine o legge civile”[35].

 

Altre Riflessioni Filosofiche

 

BIBLIOGRAFIA

OPERE DELL’AUTORE

Thomas Hobbes, De cive, a cura di Tito Magri, Roma, Editori Riuniti, 1993

T. Hobbes, Leviatano, in opere politiche, a cura di N. Bobbio, Torino, Utet, 1971

 

LETTERATURA CRITICA

N. Bobbio, Il giusnaturalismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, Torino, Utet, 1975, vol. IV, L’età moderna, tomo I, cap. VIII, pp. 491-551

N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi,, 1989

A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, (1971), Bari, Laterza, 1997

 

LETTURE COMPLEMENTARI

G. Giannantoni, La razionalità moderna, in La ricerca filosofica, (1968), Torino, Loescher, 1996, parte 2, cap. VII, pp. 169-175

S. Moravia, Dall’umanesimo all’età dei lumi, in Filosofia ,(1989), Firenze, Le Monnier, 1992, L’universo etico-politico, cap. III, pp. 220-230

Aristotele, Politica, a cura di Renato Laurenti, (1993), Roma-Bari, Laterza, 1996


NOTE

[1] Thomas Hobbes, De cive, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 74.

[2] Hobbes cit., p. 76.
[3] Aristotele, Politica, a cura di Renato Laurenti, (1993),  Roma-Bari, Laterza,  p. 6.
[4] N. Bobbio, Il giusnaturalismo, in storia delle idee politiche, economiche e sociali, cura di L. Firpo, Torino, Utet,    1975,  vol. IV, L’età moderna, tomo I, cap. VIII, p. 500
[5] cfr. Hobbes cit., p. 71
[6] cfr. N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  pp. 41-43
[7] Hobbes cit., p. 83
[8] cfr. N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 39
[9] Hobbes cit., p. 160
[10] Hobbes cit.,  p. 167
[11] ivi, p. 86
[12] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 44
[13] Hobbes cit.,  p. 113
[14] ivi, p. 90
[15] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 45
[16] Hobbes cit., p. 90
[17] Hobbes cit., p. 87
[18] ivi, p. 93
[19] ivi, p. 125
[20] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 47
[21] ibidem
[22] Thomas Hobbes, Leviatano, in opere politiche, a cura di N. Bobbio, Torino, Utet, 1971, 112
[23] Thomas Hobbes, De cive, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1993,  p. 128
[24] Hobbes cit., p. 194
[25] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 49
[26] Thomas Hobbes, De cive, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1993,  p. 138
[27] N. Bobbio, Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989,  p. 51
[28] Hobbes op. cit., p. 133
[29] ibidem
[30] ivi, p. 133
[31] ivi, pp. 209, 210
[32] Arrigo Pacchi, Introduzione a Hobbes, (1971), Bari , Laterza, 1997, p. 52
[33] ibidem
[34] Thomas Hobbes, De cive, a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1993,  p. 111

[35] ibidem


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