Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
J. P. Sartre, La Nausea: Riflessioni
di Monica
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Prima di addentrarci nelle complessità irrisolte di un romanzo come La Nausea, è doveroso chiarire anzitutto cosa l'autore intenda con il termine Nausea.
La Nausea è una dimensione metafisica ed un atteggiamento psicologico nei confronti dell'esistenza, che ci pervade completamente, al punto che le cose, l'in-sé, hanno un'incidenza enorme sulla coscienza, il per-sé: le sensazioni suscitate dalle cose sono anzitutto ribrezzo e disgusto, giustificati dal fatto che ciò che ci circonda ci tocca, nostro malgrado, e ci opprime. Gli oggetti che quotidianamente osserviamo intorno a noi costituiscono un "troppo", posseggono una tale pienezza e "gonfiezza" da risultare soffocanti e ributtanti; a proposito di ciò, qualche studioso molto attento ha voluto ravvisare una qualche analogia con La metamorfosi di Kafka, anch'essa pervasa da un senso di orrore per tutto quello che ci tocca e ci opprime. Ecco come il protagonista del romanzo-diario, Antoine Roquentin, stabilitosi per tre anni a Bouville - ove si svolge la vicenda - per completare le sue ricerche storiche sul marchese di Rollebon, vissuto in epoca settecentesca, sperimenta per la prima volta la Nausea, e la descrive così: «(...) La Nausea m'ha colto, mi son lasciato cadere sulla panca, non sapevo nemmeno più dove stavo; vedevo girare lentamente i colori attorno a me, avevo voglia di vomitare. (...) Da quel momento la Nausea non m'ha più lasciato, mi possiede» . In queste poche righe si nota molto chiaramente come questo tipo di sentire coinvolga sia la parte sensibile (i sensi, cioè) sia la parte razionale (la consapevolezza) della coscienza dell'individuo. La condizione umana viene a configurarsi, dunque, come un solitario ed angoscioso sperimentare le cose che sono intorno a noi, giungendo sino a provare ciò che l'autore chiama "orrore di esistere" . A questo punto la Nausea non si configura più come uno stato doloroso transeunte, «non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io stesso», scrive Sartre; nella scena seguente, che si svolge nel giardino pubblico, Roquentin osserva la radice di un castagno e solo in quell'istante si rende conto di aver compreso la vera natura delle cose, vale a dire la loro insensatezza e la sensazione di soffocante ingombro che esse suscitano. Soltanto la solitudine in cui è immerso il protagonista consentirà a quest'ultimo di prendere le distanze dall'inautenticità del mondo altrui e dal comune divertissement. Dal momento che il soggetto centrale dell'intero romanzo è la contingenza, l'ingiustificabilità degli oggetti intorno a noi, chi non comprende tutto ciò appartiene alla schiera dei Salauds, gli Sporcaccioni, ossia coloro che mentono a se stessi ed agli altri al solo scopo di dare un senso, il più alto e nobile possibile, alla propria esistenza: è l'atteggiamento che altrove Sartre chiama malafede. Quest'ultima si differenzia dalla bugia in quanto mette a repentaglio la struttura stessa della coscienza. La malafede è, in altre parole, menzogna verso se stessi e su se stessi; infatti, colui che mente deve conoscere la verità per potere dissimularla e colui al quale si mente deve credere a questo inganno. Parafrasando Sartre ne L'essere e il nulla, «perché sia possibile la malafede, occorre che la sincerità stessa sia in malafede».
A questo punto credo di essere riuscita a definire, sia pure in modo sommario, il concetto di Nausea; l'individuo appare dunque solo, sperduto, disgustato dal mondo in cui vive e non sa come comportarsi. Ma esiste un comportamento che impedisce, almeno in parte, alla Nausea di paralizzarci nel disgusto e nell'orrore: avvalersi della propria libertà ed assumersi la responsabilità di ogni azione. Libertà e responsabilità sono dunque, insieme alla solitudine ed allo spaesamento , due delle categorie fondamentali che meglio descrivono la "condition umaine" contemporanea. L'individuo è solo in ogni istante, sebbene viva in società, e proprio per questo è condannato a decidere come agire; egli è quindi libero di scegliere, libero di vivere - pur essendo condizionato dagli altri - e libero persino di non essere libero, ossia libero di lasciarsi vivere, nel senso che la sua esistenza viene manipolata e decisa dagli altri (è chiaro che, in questo caso, si tratta di esistenza inautentica, non voluta e non scelta in piena autonomia).
In queste poche righe è racchiuso, a mio avviso, il dramma dell'esistenza, tragedia, questa, che genera un'intollerabile angoscia, causata dall'imprevedibilità della propria libertà, ossia la certezza che ogni decisione è revocabile e che ogni regola stabilita può essere infranta perché liberamente scelta. Per "angoscia" l'autore intende il continuo mettersi in gioco, lo scoprire se stessi come fonte inesauribile di infinite possibilità, che si scontra, in ultima analisi, con un solo limite invalicabile: la morte. Essa, però, contrariamente a quanto sostenuto da Heidegger, non riguarda e non appartiene all'orizzonte umano della libertà ; si configura invece come un fatto assurdo che rende assurda ogni scelta di vita; al di là di ciò, comunque, siamo perfettamente liberi. Tornando al concetto dell'angoscia, è opportuno precisare che essa si differenzia nettamente dalla paura: quest'ultima, infatti, consiste nel temere questo o quell'altro oggetto in quanto minaccia la posizione o la vita del per-sé. L'angoscia, al contrario, è il sentimento provato dalla coscienza che teme per la sua libertà.
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