Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La ricerca della sapienza
Prima parte - Seconda parte
di Marco Calzoli - Maggio 2023
Aristotele sosteneva che il Motore Immobile, che Tommaso d’Aquino identificava come Dio, è la causa incausata, cioè che non ha causa, la Scolastica diceva che è causa sui, causa di sé stesso.
Secondo la teologia classica Dio è anche l’origine della sapienza, in quanto in Dio vi è scienza allo stato perfettissimo. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae I, 14, 1): “In Dio vi è scienza allo stato perfettissimo. Ad analisi di ciò bisogna considerare che gli esseri conoscitivi si distinguono dagli esseri non conoscitivi in questo, che i non conoscitivi hanno solo la propria forma, mentre quelli dotati di conoscenza sono fatti per avere anche le forme delle altre cose, poiché in colui che conosce si trova l‘immagine dell‘oggetto conosciuto. Quindi è chiaro che la natura degli esseri non conoscitivi è più ristretta e più limitata, mentre quella dei conoscitivi è di maggiore ampiezza ed estensione. Per tale motivo il Filosofo Aristotele (De anima 3, 8) dice che «l‘anima è in certo qual modo tutte le cose». Ma la limitazione della forma viene dalla materia. Per questo anche sopra abbiamo detto che le forme, quanto più sono immateriali, tanto più si accostano a una certa infinità. È dunque evidente che l‘immaterialità di un essere è la ragione della sua natura conoscitiva, e che la perfezione del conoscere dipende dal grado di immaterialità. Per questo Aristotele (De anima 2, 12) dice che le piante non sono dotate di conoscenza a causa della loro materialità. Il senso invece è conoscitivo per la sua capacità di ricevere le immagini delle cose senza la materia; l‘intelletto poi lo è ancora di più, in quanto maggiormente staccato dalla materia e senza misture, come dice Aristotele (De anima 3, 4). Quindi, essendo Dio nel sommo grado di immaterialità, ne viene che egli è all‘apice del conoscere”.
Presso i popoli antichi la sapienza è spesso un attributo della divinità. La radice ugaritica ḥkm, “essere sapiente”, è riferita in tutte le attestazioni al supremo dio El. In sudarabico ḥwkm è il nome di un dio, certamente di ‘Amm. In un testo di Qumran (CD 2, 3 s.) conoscenza della sapienza (d’t ḥkmh wtwšjjh), intelligenza (‘rmh), indulgenza (‘rk’pjm) e pazienza (rwb sliḥwt) sono proprietà divine. Nel Corano (LVII 4. 6) è scritto: “Egli conosce ciò che si insinua nella terra e ciò che ne esce e ciò che discende dal cielo e ciò che vi sale; Egli è con voi ovunque voi siate: Dio osserva ciò che fate … Egli conosce il segreto dei cuori”, ya’lamu mā yaliju fī l-arḍi wamā yakhruju min’hā, wamā yanzilu mina l-samāi wamā ya’ruju fihā; wahuwa ma’akum ayna mā kuntum. Wal-lahu bimā ta’malūna baṣīrun … wahuwa ‘alīmun bidhāti l-ṣudūri.
La sapienza, concessa all’uomo da Dio, che ne è il vero detentore, insegna all’uomo ad andare avanti, a progredire lungo il cammino evolutivo, ma il segreto della sapienza è che l’inizio coincide con la fine. In ebraico “albero” (‘etz) ha le stesse lettere di “consiglio” (‘etzah), come a dire che chi pensa e si evolve con la mente ha le radici ben piantate a terra. Il ritorno sta già nella partenza e ne costituisce la base, le radici. La Sapienza divina “ha messo le radici” in mezzo al popolo della salvezza (Siracide 24, 12).
Per parlare della sapienza possiamo evocare anche il Papiro Prisse, uno dei libri più antichi del mondo, datato al 3300 a.C., redatto in egiziano classico (medio egiziano) con scrittura ieratica, che contiene le Massime di Ptahhotep, classico della letteratura egiziana, divenuto opera fondamentale per l’addestramento degli scribi. Il Papiro Prisse è oggi conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi e deve il suo nome allo scopritore, l’egittologo Emile Prisse d’Avennes. Il testo delle Massime di Ptahhotep è conservato da quattro manoscritti di provenienza tebana: tre papiri e una tavoletta. Il più antico, il solo completo, è il Papiro Prisse.
Queste Massime fanno parte della letteratura sapienziale, cioè che vuole dare un insegnamento. La fase iniziale della letteratura dell’umanità si apre con la sapienza.
La letteratura sapienziale non ha la funzione principale del bello artistico e del diletto, ma mediante uno stile bello cerca di dare un insegnamento, un po’ come detto da Lucrezio (De rerum natura I, 935-947) con un esempio divenuto celebre (ripreso anche dal Tasso) per il quale il bello artistico è il miele posto sull’orlo del bicchiere per far assumere al bambino una medicina amara ma necessaria:
Sed veluti pueris absinthia tetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contingunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificetur
labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali facto recreata valescat
sig ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur
testior esse quibus non est tractata, retroque
vulgus abhorret ab hac, volui tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem exponere nostram
et quasi musaeo dulci contingere melle.
“Ma come quando i medici cercano di dare ai fanciulli il disgustoso assenzio prima cospargono di dolce e biondo (liquido di) miele gli orli tutt’intorno ai bicchieri, perché gli inesperti fanciulli siano ingannati fino alle labbra, e intanto bevano fino in fondo l’amaro succo dell’assenzio e, pur ingannati, non ricevano danno, ma piuttosto in questo modo rigenerati riacquistino la salute, così io ora, poiché questa dottrina sembra per lo più troppo ostica a coloro che non l’hanno trattata a fondo, e il volgo rifugge da essa, ho voluto esporre a te con l’armonioso canto delle Pieridi la mia ragione”.
La letteratura sapienziale non è esclusiva del mondo egiziano, anche Lucrezio nella sua opera si rifà al genere sapienziale, pensiamo altresì a Le Opere e i giorni di Esiodo, alle Sentenze di Focilide, alle Georgiche di Virgilio, alle Sentenze di Sesto, agli Insegnamenti di Silvano. Più indietro nel tempo, pensiamo al sumerico Istruzioni di Shuruppak. L’unico scritto sapienziale della comunità di Qumran era conosciuto come Parole di Maśkil (dbrj mśkjl), che egli rivolgeva ai “figli dell’aurora” (probabilmente quest’ultima locuzione indica i membri della comunità nella fase di prova). Per la letteratura biblica pensiamo solo a Proverbi, Siracide, Giobbe, Salmi, Sapienza.
Celebre è l’inno alla Sapienza di Proverbi 8:
“1La sapienza forse non chiama
e l'intelligenza non fa udire la sua voce?
2In cima alle alture, lungo la via,
nei crocicchi delle strade si apposta,
3presso le porte, all'ingresso della città,
sulle soglie degli usci essa grida:
4"A voi, uomini, io mi rivolgo,
ai figli dell'uomo è diretta la mia voce.
5Imparate, inesperti, la prudenza
e voi, stolti, fatevi assennati.
6Ascoltate, perché dirò cose rilevanti,
dalle mie labbra usciranno sentenze giuste,
7perché la mia bocca proclama la verità
e l'empietà è orrore per le mie labbra.
8Tutte le parole della mia bocca sono giuste,
niente in esse è tortuoso o perverso;
9sono tutte chiare per chi le comprende
e rette per chi possiede la scienza.
10Accettate la mia istruzione e non l'argento,
la scienza anziché l'oro fino,
11perché la sapienza vale più delle perle
e quanto si può desiderare non l'eguaglia.
12Io, la sapienza, abito con la prudenza
e possiedo scienza e riflessione.
13Temere il Signore è odiare il male:
io detesto la superbia e l'arroganza,
la cattiva condotta e la bocca perversa.
14A me appartengono consiglio e successo,
mia è l'intelligenza, mia è la potenza.
15Per mezzo mio regnano i re
e i prìncipi promulgano giusti decreti;
16per mezzo mio i capi comandano
e i grandi governano con giustizia.
17Io amo coloro che mi amano,
e quelli che mi cercano mi trovano.
18Ricchezza e onore sono con me,
sicuro benessere e giustizia.
19Il mio frutto è migliore dell'oro più fino,
il mio prodotto è migliore dell'argento pregiato.
20Sulla via della giustizia io cammino
e per i sentieri dell'equità,
21per dotare di beni quanti mi amano
e riempire i loro tesori.
22Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, all'origine.
23Dall'eternità sono stata formata,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
24Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d'acqua;
25prima che fossero fissate le basi dei monti,
prima delle colline, io fui generata,
26quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
27Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull'abisso,
28quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell'abisso,
29quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
30io ero con lui come artefice
ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante,
31giocavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.
32Ora, figli, ascoltatemi:
beati quelli che seguono le mie vie!
33Ascoltate l'esortazione e siate saggi,
non trascuratela!
34Beato l'uomo che mi ascolta,
vegliando ogni giorno alle mie porte,
per custodire gli stipiti della mia soglia.
35Infatti, chi trova me trova la vita
e ottiene il favore del Signore;
ma chi pecca contro di me fa male a se stesso;
quanti mi odiano amano la morte".
La Sapienza viene personificata dall’autore biblico e considerata una creatura di Dio mediante la quale Egli crea tutte le cose. Secondo vari studiosi questa personificazione della Sapienza deriverebbe dalla divinità egiziana Maat, ma probabilmente anche da Iside, oppure dall’Amesha Spenta persiana Armaiti. Nei templi di Ra, il dio solare creatore egiziano, particolarmente nell’ultima cella, spesso vi è questa raffigurazione: Ra è in piedi e al suo cospetto vi è una fanciulla, bella, con le vesti trasparenti e una piuma sul capo, è Maat, la Sapienza, che sta plasmando la materia. La raffigurazione significa che Ra crea attraverso Maat. Nel geroglifico della parola egiziana maat, che significa “verità, ordine, giustizia”, vi è il cubito, che serve all’architetto per misurare in vista della costruzione.
Il v. 30 del libro dei Proverbi presenta una problematica filologica. Il termine ebraico amon può essere inteso sia come “architetto, artefice, capomastro” (quindi la Sapienza ha un ruolo attivo nel disegno della creazione voluto da Dio) oppure “giovane, fanciulla, bambina” (allora la Sapienza è una fanciulla che “gioca” o “danza”, un po’ come il dio indiano Shiva, che crea i mondi danzando).
Paolo (Colossesi 1, 15-17) vedrà nella Sapienza nientemeno che Cristo – “potenza di Dio e sapienza di Dio”, theou dynamin kai theou sophian, 1Corinzi 1, 24 – applicando al Redentore le parole del libro dei Proverbi: “Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui”.
Il Vangelo di Giovanni (1, 1-3) riprende la identificazione tra la Sapienza e Cristo: “In principio era il Verbo, en archēi ēn o logos, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste, panta di’autou egheneto, kai chōris autou egheneto ouden en”. Quest’ultima espressione è costruita mediante un parallelismo antitetico semitico: letteralmente “tutto per mezzo di lui è stato fatto/e senza di lui è stato fatto nulla”, nell’originale greco abbiamo ouden en, “neppure una (cosa)”.
Quindi nel Nuovo Testamento appare un parallelo tra Sapienza e Cristo. È interessante Proverbi 8, 22: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine”. Il verbo ebraico qanani significa letteralmente “mi ha posseduto”. Ma la versione greca della Settanta lo traduce con “mi ha creato”. La prima interpretazione (“mi ha posseduto”, “mi ha acquistato”), accettata anche dalla Vulgata, mira a identificare fortemente il Verbo con Dio. Infatti Girolamo, l’autore della Vulgata, forse voleva contrastare Ario, per il quale Cristo è subordinato rispetto a Dio. Invece la seconda interpretazione (“mi ha creato”) distanzia il Verbo da Dio, che crea Cristo come una creatura.
Bisogna dire che in greco antico logos significa anche “facoltà di ragionare, ragione, pensiero, buon senso”. Platone (Repubblica 529 d): “cogliere con il pensiero”, logōi lambanein. I filosofi greci usavano la parola logos anche in senso sapienziale, come la Ragione da cui tutto promana oppure la legge fondamentale delle cose (Eraclito). Anche in Platone, quindi in Plotino e Filone. Inoltre gli stoici contemplavano il concetto di logos spermatikos, che dà origine a tutte le cose. Secondo il Lexicon di Esichio, il significato filosofico del termine logos è “la causa dell’azione”.
Il termine logos deriva dal verbo greco leghein, “raccogliere”, in riferimento alle parole raccolte in un testo. Siamo nello stesso ordine di idee del vocabolo cinese xiĕ, “scrivere”. Esso è espresso da un carattere che rappresentava una gazza, uccello noto per rubare cose preziose e per disporle in ordine nel proprio nido. Come la scrittura, che raccoglie i pensieri più preziosi e li mette in ordine.
Pochi sanno che la cultura greco-romana deriva per molti aspetti da quelle mesopotamiche. Il logos ellenistico, come “ragione” e “parola razionale”, deriverebbe per alcuni dal concetto babilonese di Mummu. La parola Mummu si forma dal participio piel del verbo accadico “amu”, “parlare”. Non si può fare un discorso senza ragione. Per altri la parola Mummu potrebbe derivare dal participio duplicato sumerico del tipo mud-mud, quindi Mummu significherebbe “Colei che dà la vita”. Forse in questa etimologia vi è una connessione con la Sapienza che crea.
“In principio”, in greco en archēi, richiama l’inizio della Genesi (quindi di tutta la Bibbia): “In principio Dio creò il cielo e la terra”, in ebraico be-reshit barà ‘Elohim ‘et hashamaim w’et ha’arez. L’ordine delle parole è quello consueto in ebraico: particella + verbo + soggetto + complemento (invece una alterazione avrebbe avuto un senso enfatico). Se all’espressione be-reshit (“in principio”) si cambia la vocalizzazione, abbiamo baresi, che significa “dentro il principio”. Secondo questa nuova lettura, Dio crea il mondo entro il Principio, che sarebbe la sua Sapienza, che quindi media la creazione. Il verbo ebraico del creare, barà, ricorre nella Bibbia 48 volte ed è di etimologia discussa (non ha equivalenti in accadico). Come risulta dal fenicio (“scolpire”), potrebbe indicare l’agire dell’artista, quindi Dio sarebbe come il demiurgo platonico che modella un’opera d’arte. Secondo un’altra possibile etimologia, il verbo ebraico deriverebbe dalla radice biconsonantica br con il senso di “separare”. Gli esegeti notano che il verbo barà è nella Bibbia usato esclusivamente per Dio. L’ebraico shamaim, “cieli”, dovrebbe essere un duale, in quanto anticamente sopra si immaginava esserci una calotta, quindi i cieli erano due, quello sotto la calotta e quello al di là. L’espressione “i cieli e la terra” è un merismo, è una coppia di opposti che indica la totalità, cioè Dio creò tutto quanto esiste.
Dio è detto in ebraico anche ‘Eloh-im, che ha la forma di un plurale maschile (-im). Perché? Potrebbe trattarsi di una forma solo graficamente plurale ma che indica semplicemente un singolare, come quando diciamo “le forbici”, ma indichiamo un solo oggetto. Per alcuni sarebbe addirittura un plurale di intensità, per esaltare il Dio unico. Un altro modo di riferirsi a Dio è quello di adonay, “signore”. Letteralmente adonay significa “signori di me”, si tratta di un altro plurale di intensità (il singolare è adon, “signore”, termine ebraico che forse è un prestito dall’egiziano ‘dwn, “amministratore”). Abramo rivolgendosi a YHWH, lo chiama “signori di me YHWH”, adonay YHWH (Genesi 15, 2). Tecnicamente adonay è un plurale costrutto, invece il plurale assoluto è adoniym, “signori”, riferito anche a Dio, come in Deuteronomio 10, 7. Però forme come ‘Elohim e Adonay/Adoniym potrebbero essere un retaggio linguistico del fatto che anticamente gli ebrei non credevano ancora nel Dio unico (monoteismo) bensì in una pluralità di divinità, ma sottomessa a un dio più forte (monolatria). Anche nel Corano ci sono tracce del passato preislamico, quando si adoravano più divinità ma sottomesse ad Allah, che non era quindi il Dio unico degli attuali musulmani ma il dio più importante. Corano 16, 57: “Attribuiscono figlie ad Allah”. Sui tetti delle moschee si vedono ancora oggi delle cupole che riproducono i seni di una dea, non adorata attualmente dai musulmani, forti propugnatori dell’unicità di Dio, ma retaggio del lontano passato. Addirittura, secondo alcuni, la stessa parola Allah sarebbe un plurale arabo, ma l’opinione che va per la maggiore è di intendere Allah come sostantivo indeclinabile, senza genere né numero.
Nel Cantico di Debora (Giudici 5), poemetto biblico che costituisce la parte più antica della Bibbia e comunque scritto in un linguaggio poetico arcaizzante, l’articolo determinativo ebraico ha- non c’è mai. Non solo, ma il fenicio (lingua semitica più antica dell’ebraico) usa l’articolo determinativo molto meno rispetto all’ebraico. I linguisti ritengono, da questi e altri indizi, che nelle lingue semitiche l’articolo sia posteriore, cioè non originario, infatti forse si sarebbe formato con la evoluzione successiva della lingua. Probabilmente il fenicio e l’ebraico ha-, il nordarabico ha(n)-, l’arabo (a)l- derivano da una sorta di pronome poi foneticamente semplificato, infine usato come articolo determinativo. Per altri invece questi articoli deriverebbero da un semplice rafforzamento della consonante iniziale di alcuni sostantivi, il quale poi si è differenziato (dissimilazione) fino a formare una particella grammaticale a sé stante, cioè l’articolo determinativo. Invece l’articolo aramaico -a (che si unisce alla fine della parola) deriverebbe dalla marca semitica dell’accusativo, che è il suffisso –a. Tuttavia altri hanno ipotizzato che l’articolo determinativo aramaico derivi da quello fenicio e ebraico posto però non all’inizio ma alla fine di parola. Ebbene, la lingua araba è storicamente recente ma strutturalmente antichissima, tanto che gli studiosi la usano per vocalizzare l’accadico, la lingua semitica di più antica attestazione. Ora, il termine Allah è assai antico (tanto che nell’alfabeto arabo attuale si scrive in maniera arcaizzante): quindi è possibile che questo antico termine usi già l’articolo determinativo al- assieme alla radice AL/LA? Per altri studiosi, infatti, il termine Allah deriverebbe da un sostantivo siriaco assai simile (il siriaco è una lingua semitica recente, ma in questo caso potrebbe aver mediato una radice semitica assai più antica). Ricordiamo che nel Corano, che costituisce la prima opera in arabo vero e proprio, i prestiti maggiori provengono dal siriaco, tanto che alcuni filologi hanno ipotizzato che il Corano sia stato scritto originariamente in siriaco e poi tradotto in arabo.
La parola ebraica ‘Elohim deriva dalla radice semitica della divinità, che è EL, presente anche in arabo nel termine Allah, che non è il nome proprio di un dio, come Zeus, ma indica semplicemente la divinità in genere. Allah è formato dall’articolo determinativo arabo al più la radice semitica della divinità (in questo caso con una alternanza vocalica, che forma AL/LA), quindi Allah vuol dire letteralmente “il Dio”, Iddio. La radice semitica EL/AL sarebbe collegata all’idea di forza, potenza, energia. Presso i popoli semitici del Vicino Oriente antico vi era una divinità suprema chiamata El, che era considerato “il più alto”, in quanto sotto di lui vi erano gli altri dei. È interessante osservare come in ebraico la preposizione ‘el significa “verso”, spesso si alterna con chal, che propriamente significa “verso l’alto, sopra”. In 2Cronache 15, 4 si dice di ritornare a Dio (YHWH) con questa espressione: chal-YHWH, invece di ‘el-YHWH.
Nel suo Vangelo Giovanni, collegandosi alla Genesi, presenta dunque l’avvenimento Cristo come un secondo inizio della creazione. “In principio” (en archēi, be-reshit): in greco abbiamo una preposizione (en), invece l’espressione ebraica ha un valore avverbiale. In questo secondo inizio, quello della Nuova Alleanza, si manifesta nuovamente la parola di Dio, infatti Cristo è detto in greco logos, “parola”, in latino verbum, certamente vi è un richiamo al fatto che nella Genesi Dio disse e le cose vennero all’esistenza, Dio crea attraverso la sua parola. Se la creazione nasce da un evento sonoro, allora tutto il creato serba traccia di una profonda musicalità, come avviene soprattutto nei salmi. Salmo 150: “Tutto ciò che respira canti l’alleluia”. Salmo 19: notte e giorno sono immaginate dal salmista come sentinelle che di postazione in postazione trasmettono una voce, un messaggio divino.
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Vi è la figura retorica della concatenatio, detta anche tecnica a ondate, per cui il secondo verso riprende il primo e lo sviluppa, e via di seguito. Inoltre la paratassi risente del sostrato delle lingue semitiche. Poi l’ordine delle parole del primo membro (“in principio era il Verbo”) riproduce quello della sintassi ebraica: particella + verbo + soggetto. C’è da fare una osservazione anche sull’imperfetto greco ēn, “era” Questo verbo non va inteso come fosse un passato, ma ha valore retroattivo ed equivale a un presente: fin dal principio assoluto il Verbo era Dio e lo è tuttora. L’imperfetto greco è in questo caso traduzione del perfetto aramaico (l’aramaico era la lingua parlata quotidianamente dagli ebrei nel tempo in cui redassero il Nuovo Testamento in greco) e sottolinea la pienezza dell’essere (essere di eternità). Invece il divenire della creazione (v. 3) e l’entrata in scena del Battista (v. 6) sono espressi con il verbo greco ghignomai, così come l’incarnazione del Verbo nella storia (v. 14). È tipico di Giovanni l’uso del verbo “essere” all’imperfetto per indicare l’esistenza eterna: pensiamo solo a una formula dell’Apocalisse dove la costruzione greca è impossibile ma è usata da Giovanni in modo significativo: “Io sono ... colui che è, che era e che viene” (1, 8) dove il secondo membro (“che era”) è in greco o ēn, indicativo imperfetto più l’articolo. Il valore del verbo “essere” come pienezza dell’essere è espresso nel Vangelo di Giovanni anche con “Io sono” (egō eimi), usato tanto in modo assoluto (per esempio “Prima che Abramo fosse, io sono”, 8, 58, traducendo il nome di Dio nella rivelazione del roveto ardente di Esodo 3, 14, “Io sono colui che sono”, ‘eye asher ‘eye, che la versione greca della Settanta traduce egō eimi o ōn) quanto nelle cosiddette “formule di rivelazione” (per esempio “Io sono il pane di vita”, 6, 35).
Riguardo la divinità del Verbo, occorre dire questo. Nel Vangelo di Giovanni abbiamo: kai theos en o logos, che la CEI traduce “e il Verbo era Dio”. Ci sono due sostantivi (theos, “dio”, e logos, “parola”) di cui il primo è senza articolo e il secondo è con l’articolo. Ora, prendiamo Giovanni 18, 12: “La coorte dunque e il tribuno e le guardie dei giudei presero Gesù e lo legarono”. Si potrebbe supporre che siano stati solo gli ebrei ad arrestare Cristo ma questo non è storicamente possibile, perché i giudei stavano sotto il dominio dei romani, quindi la sfera pubblica era appannaggio dei romani. Nel testo greco abbiamo: e oun speira kai o chiliarchos kai oi uperetai ton Ioudaion. La ripetizione degli articoli davanti a ciascun sostantivo (speira = coorte, articolato; chiliarchos = tribuno, articolato; uperetai = guardie, articolato) rende abbastanza evidente che sono tre cose separate, cioè non si può intendere che la speira sia un altro modo di intendere il corpo di guardia dei giudei. In greco antico, se diciamo o basileus kai o egemon vogliamo dire "il re e il governatore": intendendo entrambi i sostantivi come articolati, il re deve essere una persona separata dal governatore, quindi abbiamo due persone distinte. Se invece diciamo o basileus kai egemon togliendo l'articolo dalla seconda parola, intendiamo dire "il re e governatore", cioè una sola persona che è re e anche governatore, spieghiamo o qualifichiamo meglio chi è questa persona. Questa regola sintattica è chiamata Granville Sharp Rule. Pertanto, ritornando al Vangelo di Giovanni, dato che theos non ha l’articolo e logos sì, allora Giovanni vuole dirci che “dio” e “verbo” non sono distinti, ma sono la stessa entità. Quindi il Verbo è Dio, come Dio Padre. Giovanni 10, 30: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (ego kai o pater en esmen). Giovanni 14, 9: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (o eorakos eme eoraken ton patera).
Nel Vangelo di Giovanni la creatività del Verbo è identificata con la sua divinità. Il potere creativo della parola trova espressione anche altrove. Dall’antico Egitto ci proviene la Stele di Shabaka, nella quale il dio Ptah viene presentato nell’atto di creare e si dice che egli crea prima nel cuore (ḥA.tj) e poi sulla lingua (nes) mediante l’atto di comandare. Allora già in Egitto la parola è una potenza creatrice, strettamente collegata alla magia (Heka). Quindi la creazione prende avvio dal cuore mediante un “discernimento” (sjA) e prosegue sulla bocca come comando orale (questo secondo passaggio è detto in egiziano ḥw). A Babilonia il dio Marduk parla ed ecco che nel cielo compaiono le costellazioni dell’Egitto. Ma prima ancora un dio sumerico, detto Signore del cielo e della terra (Lugal-an-ki) era definito Parola Efficace (inim kal), in quanto crea mediante la sua parola.
Per quanto riguarda la letteratura biblica, pensiamo anche a Sapienza 18 (nella notte dal trono di Dio vola un essere che sembra un angelo – è la sua parola, nell’originale greco o pantodynamos sou logos, “la tua parola onnipotente” – che scende sulla terra per portare il giudizio di Dio), al finale del Secondo Isaia (che è una sezione del libro di Isaia comprendente i capitoli 40-55, nel quale la parola di Dio è come l’acqua che scende dal cielo e poi risale per continuare il ciclo della vita: vale a dire che è una realtà viva, operante), a Geremia 23 (“la mia parola non è forse come fuoco, ka-‘esh, e come un martello, ke-pathish, che spacca la roccia?”, quindi efficacissima). Ricordiamo che in ebraico il termine “parola”, dabar, significa anche “cosa”, “azione” e “progetto”, concezione analoga a quella nigeriana. Isaia 40, 8: “L’erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio Signore dura per sempre”. 1Pietro 1, 25: “La parola del Signore rimane in eterno”. Deuteronomio 8, 3: “Egli ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non hanno mai conosciuto, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che di tutto quello che procede dalla bocca del Signore vive, py YHWH yichyeh”. Giovanni 5, 25: “In verità, in verità vi dico: viene un’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, oi nekroi akousousin tēs phōnēs tou yiou tou theou, e coloro che l’avranno ascoltata vivranno”. Per quanto riguarda i rotoli di Qumran, nel Salmo di Creazione (4Q3 81) posto all’inizio della raccolta dei salmi, è documentata la concezione della creazione “per mezzo della parola della sua bocca”, b-dbrj pjw, cioè di Dio.
Per l’induismo la Parola (in sanscrito vāc) è la prima manifestazione dell’Assoluto. Essa è Parola Eterna (nityā vāc: Ṛg-Veda VIII.75.6). Il dio indiano Prajapati crea il mondo mediante la sua parola. In un testo sanscrito (Aitareya-āraṇyaka II.1.6) è scritto: “Ha una corda la parola, di cui i nodi sono i nomi. In virtù della parola-corda e dei nomi-nodi il mondo intero è legato”. Già nel Ṛg-Veda (X.25.3.7) la Parola dice di sé stessa: tāṃ mā devā vyadadhuḥ purutrā bhūristhātrāṃ bhūryāveśayantīm, “gli dei mi hanno distribuito in molti luoghi: io sono colei che ha molte sedi e che assume molte forme”.
Secondo la dottrina del Mantra Shastra, esiste un Principio Immutabile che coincide con Cit, la Suprema Coscienza. Cit equivale a un Uno primordiale e assoluto, senza alcuna dualità. In sé stessa Cit è priva di moto (Nishpanda), priva di azione (Nishkriyā), priva di mente (Amanah), priva di suono (Ashabda). Non è soggetto e non conosce alcun oggetto che non sia sé stessa. La creazione è l’inizio della dualità. La dualità inizia ad emergere da Cit per opera di Shakti. Mediante Shakti quindi si formano i Molti, cioè mente e materia, soggetto e oggetto. La creazione ha inizio da un moto primordiale o vibrazione iniziale: si tratta di Spanda. Il suono che si associa a tale vibrazione iniziale è la sacra sillaba AUṂ, detta anche OṂ. Essa è la prima manifestazione dell’Assoluto, il Suono Assoluto (Shabda-Brahmana).
Per il mazdeismo o zoroastrismo, la religione dell’Iran, che si basa sulla dottrina espressa nell’Avesta, il dio supremo è Ahura Mazda, che letteralmente significa Signore (Ahura) che crea (da) con il pensiero (maz). Si potrebbe intendere anche come Signore che dispiega il pensiero, quindi Signore Saggezza. Ora, il pensiero/saggezza si comunica mediante la parola e, come dimostra la psicologia moderna, il pensiero razionale è articolato come un linguaggio, anche l’inconscio è strutturato come un linguaggio (Lacan). Quindi la creazione con il pensiero è affine concettualmente alla creazione con la parola.
Il nome Avesta forse significa “testo di lode” o “testo sottostante” o “ammonizione”. Il primo grande scopritore della letteratura avestica, nella seconda metà del Settecento, entra in contatto con sacerdoti zoroastriani, i quali gli donano lo Zend Avesta, ma solo dopo si scoprirà che lo Zend, dall’iranico “conoscenza”, non è l’Avesta vero e proprio, ma una sua “scienza”, vale a dire un commentario, scritto in pahlavi, che è persiano medioevale. Invece l’Avesta è scritto in avestico, una lingua iranica antica: si tratta di una lingua indoeuropea paragonabile al vedico, con il quale sono scritti i Veda induisti. L’avestico, essendo una lingua indoeuropea, ha strutture simili a quelle del greco, del latino, dei canti norreni o di quelli russi antichi. L’Avesta è una composizione di più testi, scritti in lingue leggermente differenti: avestico antico, avestico recente medio, avestico pseudo-gathico, avestico recente. L’Avesta nasce come testo orale dalla riflessione dei sacerdoti zoroastriani lungo un periodo di tempo assai vasto, dal I millennio a.C. al V secolo d.C (quando finalmente viene fissato per iscritto). Viene messo per iscritto dai sovrani persiani sasanidi per differenziare lo zoroastrismo dalle varie religioni allora in voga in Persia. Nella Persia di allora ci sono varie religioni del libro, come i cristiani, ma soprattutto gli ebrei, i quali tra l’altro oltre ad avere la Bibbia ebraica mettono per iscritto il loro Talmud babilonese in Persia. L’impero persiano sasanide ha come cornice culture di alta tradizione scrittoria, dove il libro ha valore sacrale, quindi sente la necessità di fissare il testo fondamentale dello zoroastrismo.
Ricordiamo che per lo zoroastrismo l’Avesta non è sacro in quanto tale, così come non lo sono i Veda in quanto tali per la tradizione indiana più antica, ma è sacra solo la liturgia che su di esso si basa, tuttavia è invalso in Occidente l’uso di riferirsi all’Avesta come un testo religioso quale la Bibbia, che invece ha valore come oggetto in sé. Il sacerdote zoroastriano recita le preghiere contenute nell’Avesta come formule sacre aventi valore magico (ciò che anche nell’induismo è detto mantra). Anzi il sacerdote recitante è visto come un mantra incarnato. Abbiamo certamente a che fare con culture diverse dalla nostra, nelle quali la parola è veramente una essenza divina. Nella liturgia due sacerdoti zoroastriani (a volte anche più) incontrano fisicamente Ahura Mazda, non solo ma si fondono con questa divinità. Per tale ragione i sacerdoti recitanti devono essere mantra incarnati nel senso che devono conoscere tutto l’Avesta a memoria, altrimenti non avviene la fusione con Ahura Mazda, quindi il sacrificio fallisce. Pertanto ciò che conta non è il libro in quanto tale, ma la formula sacra (mantra) che trova nella liturgia il suo momento ideale. Il libro come oggetto fisico è solo un supporto che conserva i mantra. Bisogna aggiungere che oggi il clero zoroastriano può anche leggere durante il rito, ma anticamente non era in questa maniera: con il crollo progressivo della cultura originaria dell’impero sasanide per via dell’invasione islamica, alcune tradizioni si sono perdute, oggi il clero zoroastriano, per ragioni economiche, non può più avere officianti preparati sin dall’infanzia a imparare a memoria tutto l’Avesta.
Nel mondo zoroastriano l’oralità è fondamentale in quanto su di essa si basa il valore sacrale della parola, come abbiamo accennato brevemente. Nel mettere per iscritto l’Avesta i sacerdoti zoroastriani ideano un alfabeto eccezionale (che esprime tutte le sfumature della lingua) e producono un testo che si articola in tre blocchi detti nask, ciascuno dei quali ha una propria caratteristica, ma essi non corrispondono esattamente alla liturgia, in quanto il fulcro del rito è il sacerdote mantra vivente, il testo scritto è solo un supporto, come abbiamo ricordato. L’Avesta sasanide, quello scritto, è semplicemente un insieme di testi estrapolati da una lunghissima liturgia che è andata avanti dal IV-V secolo a.C. in poi. Il primo nask è detto Yasna, che contiene la liturgia del sacrificio (in vedico yajña è il “sacrificio”), abbiamo poi le altre due parti, rispettivamente: Wisprad e Wistasp Yast.
Il sacrificio zoroastriano è l’ordine che serve a sostenere l’armonia cosmica. Finito un rito un’altra squadra di sacerdoti inizia il rito successivo di modo che ci sia una continuità che sostenga l’armonia dell’universo. Anche nel mondo vedico il sacrificio è basilare per l’equilibrio dell’universo. Quindi la parola liturgica, per il mondo zoroastriano e per quello vedico, è ciò che fa reggere l’universo. I demoni sono operativi soprattutto di notte e combattono per la distruzione del mondo, anche impedendo al sole di sorgere, tra le altre cose: il sacerdote zoroastriano ha il compito di recitare formule sacre per contribuire, assieme alle divinità, a mantenere l’universo ancora sussistente. Il mantra è parola fatta mente e corpo in quanto il sacerdote zoroastriano deve meditarla e quindi incanalarla nel plesso solare, da dove deve uscire con una respirazione tipica e movimenti ben studiati: solo così la parola sortisce gli effetti magici creando una interazione tra umano e divino.
Per avere uno Yasna incarnato, gestendo esclusivamente a memoria, in uno stesso rito, molti versi da declamare accompagnati da una gestualità e una ritualità ben precisi, è necessario lo studio per mezzo di una mnemotecnica assai accurata. Sono necessari molti anni per imparare efficacemente un rito. In verità la mnemotecnica esiste anche nel mondo vedico, composta da queste parti:
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Saṃhitā-pāṭha: parole pronunciate in sequenza;
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Pada-pāṭha: parole pronunciate in sequenza nella forma in pausa;
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Krama-pāṭha: recitazione del verso vedico ripetendo due parole per volta in una modalità ben precisa, diversa da altre modalità come per esempio jaṭa-pāṭha oppure ghana-pāṭha.
Manipolare in sequenza le parole del testo vedico in questa maniera permette, con il passare del tempo, di trattenere in memoria assai vividamente tutte le parole. Si ritiene che nel mondo avestico la mnemotecnica deve essere stata come quella vedica.
Inoltre, sia nel mondo vedico sia in quello avestico queste performance non avvengono soltanto nella liturgia ma anche durante tenzoni poetiche, nelle quali gli officianti si sfidano con versi originali creati ad impronta. Queste gare vengono chiamate apūrvyam nel mondo vedico (Ṛg-Veda X.23.6) e apaouruuīm in quello avestico (Yasna 28.3), che vuol dire “senza precedenti”.
Ricordiamo che in tutte le culture il suono e la parola hanno caratteristiche mitiche e sacrali. Per fare un esempio, nel latino arcaico carmen, che assumerà il significato di “poesia”, era impiegato in contesto magico-sacrale. Pensiamo altresì al concetto giapponese di kotodama, “anima della parola”, la quale avrebbe una intrinseca energia magica talmente potente da dover essere manipolata con prudenza. Per l’induismo la recitazione costante (japa) di formule specifiche (mantra) può portare alla liberazione (mokṣa). Negli Spandakarika (II.1), testo fondamentale dello shivaismo tantrico del Kashmir, i mantra sono addirittura equiparati a divinità, infatti è scritto: tadākramya balam mantrāḥ sarvajñabalaśālinaḥ/pravartante’dhikārāya karaṇānīva dehinā, “ricorrendo al potere della Spanda Tattva, le divinità, mantra e formule sacre, piene di potere onnisciente, procedono a svolgere le funzioni assegnate delle anime incarnate limitate”. Di più, per l’estetica indiana, le arti, quindi anche quelle letterarie e teatrali, hanno una essenza (rasa), fruendo della quale sarebbe possibile ottenere la liberazione.
È significativo che in egiziano antico il “nome” (ren) era l’essenza stessa della persona, quasi una parte anatomica, per cui la punizione più grave era togliere il nome. Allora c’era un nome pubblico e poi quello vero, che conteneva energeticamente e magicamente la cifra della individualità di un essere. Iside voleva sconfiggere il nemico conoscendone il nome segreto. In geroglifico ren si scrive con il segno della bocca e sotto quello dell’energia.
Ma in tutto il Vicino Oriente antico il nome è qualcosa di più di una semplice designazione. Nella Bibbia il nome (in ebraico šem) è la persona stessa, spesso quella di Dio. Nel Cantico dei Cantici (1, 3) c’è un gioco di parole tra il nome dell’amato (šem) e il profumo (šemen) che emana dalla sua persona. Già in eblaita c’è l’espressione šum-ra-bu, “il nome/il figlio è grande”. Secondo questo contesto, quando nel Padre nostro diciamo “sia santificato il tuo nome”, in greco aghiasthētō to onoma sou (Matteo 6, 9), significa annunciare non un nome di Dio bensì tributare la giusta adorazione (santificare) alla sua divina Persona. Il verbo greco aghiasthētō è un aoristo passivo (imperativo, III persona singolare), quindi indica una azione puntuale, pertanto non si riferisce a una azione che continua nel tempo (espressa invece da presente, imperfetto, aggettivo verbale), come quella di una organizzazione che si muove per far conoscere un nome di Dio, bensì a uno specifico atto puntuale, come può essere una data cerimonia religiosa.
Anche per i greci il nome non è un mero suono ma indica simbolicamente o magicamente caratteristiche essenziali della persona che lo porta. Plutarco pensava che gli dei provenissero dalla Grecia, poi si spostarono in giro nel mondo, quindi i loro nomi hanno una origine ellenica. Nel De Iside et Osiride Plutarco riconduce il nome Osiride a due parole che hanno attinenza con il sacro: osios, ieros. La prima parola è il sacro entro la sfera umana, la seconda è il sacro entro la sfera divina. Pertanto Osiride è il dio che media le due sfere. Per i romani nomen omen, cioè il nome è un presagio. Lo stoico romano Anneo Cornuto nel suo Compendium offre numerose esegesi etimologiche dei nomi delle divinità greche collegandole in questa maniera a precise funzioni. Per esempio, nel capitolo 2 di Zeus è scritto: “Come noi siamo governati dall’anima, così anche il cosmo possiede un’anima che ne mantiene la coesione, e questa è chiamata Zeus, in quanto vive primariamente e dovunque, ed è causa del vivere (dal greco zēn) per i viventi: perciò si dice che Zeus regni su tutti gli esseri, come si può dire che anche su di noi regni l’anima”.
Nel mondo greco l’orfismo si caratterizza per due elementi assai importanti: è l’unica corrente religiosa che si ispira a un fondatore, per l’appunto Orfeo, ed è l’unica che si basa espressamente su testi scritti, quasi in opposizione al percorso religioso della polis che si perpetua per via orale. Nel V secolo a.C. la polis porta avanti una strenua opposizione alla scrittura che si stava diffondendo. Platone (Repubblica 364 e – 365 a) fa riferimento alla “caterva di libri di Orfeo e di Museo”.
Non è facile classificare l’orfismo per la struttura stessa che a noi rimane di questo movimento religioso. Orfeo avrebbe fondato tutti i culti misterici della Grecia antica, portandoli dall’Egitto. Da ciò l’importanza estrema dell’orfismo per il mondo antico, tanto che la filosofia greca antica riprende molto da questa setta. Tuttavia l’orfismo si pone in maniera alternativa rispetto alla polis, anche per il fatto che essa ha come momento basilare il sacrificio, il quale mette in armonia uomini e divinità e costituisce l’unico momento in cui tutti ufficialmente mangiano carne, ma l’orfismo celebra la dieta vegetariana.
L’orfismo si basa sulla dottrina della reincarnazione: il mito narra di Orfeo che con la sua musica seduce il dio degli inferi per la restituzione alla vita della moglie Euridice, ma non vi riesce; il mito sarebbe un simbolo dell’anima immortale che però per via di una colpa originaria deve reincarnarsi in condizioni di vita mortali, ma può salvarsi mediante una vita pura e iniziatica. Pensiamo solo a quanto l’orfismo sia operante nel Detto di Anassimandro (“Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo”, che parla dell’ammenda per una colpa, la ingiustizia, che sarebbe scontata in questa vita mortale) oppure nel mito della caverna di Platone (gli uomini nella caverna sarebbero quelli costretti a reincarnarsi).
Clemente Alessandrino ci dice che Dioniso viene ucciso dai Titani quando ancora era un bambino: lo fanno a pezzi. Ora, Olimpiodoro dirà che Zeus punisce i Titani fulminandoli e “dal denso fumo dei vapori che ne erano scaturiti si formò della materia da cui ebbero origine gli uomini” (Commento al Fedone). Olimpiodoro usa un linguaggio alchemico. L’alchimia nasce in Egitto con l’intento di ottenere oro dai metalli vili. Non solo, ma la parola Titano significa in greco “calce”. Questa dimensione divina dell’uomo – per cui l’uomo è formato della stessa materia degli dei – può essere raggiunta dall’uomo mediante la teletē, la iniziazione, che in greco significa letteralmente “portare a compimento”.
Si tratta della legge di Adrastea (presente anche in Platone, Fedro 248 c – 249 b): l’uomo ha senso solo se è inserito in un sistema universale ordinato, nel Kosmos, che in greco vuol dire “ordine” più che “mondo” (infatti la parola greca akosmia, formato da alfa privativo + kosmos, non vuol dire “nulla” ma “disordine”). In questo sistema ordinato l’uomo se incorre in colpe si reincarna in esistenze dolorose, ma se si purifica (già in questa vita oppure anche dopo la morte) può reintegrarsi nella originaria natura beata e divina.
Orfeo è molto legato al discorso mitico per via della musica: nella Grecia antica la “musica” serve per accompagnare la recitazione del mito, e il mito si differenzia dal logos perché esso è un discorso non razionale, mentre il logos è un discorso razionale-filosofico. Orfeo con la sua musica accompagna gli argonauti alla ricerca del vello d’oro e, secondo Apollonio Rodio, gareggia con le Sirene riuscendo a vincerle.
Quello che a noi qui interessa è che Orfeo compone libri, oppure secondo altri vengono messi per iscritto da Museo. Il mondo egiziano ha già i testi sacri scritti, Esiodo già compone la Teogonia sulla nascita degli dei e la origine del sacrificio per opera di Prometeo. Esiodo non parla della nascita dell’uomo al contrario dell’orfismo, quindi con questa setta si afferma un nuovo statuto antropologico. Anassagora pubblica nella metà del V secolo a.C. un riassunto del suo pensiero, venduto nei mercati di Atene. Non solo, ma Alcidamante intenta un processo contro Palamede e Gorgia si erge a difensore di quest’ultimo. Si tratta certamente di una invenzione retorica ma questo racconto serba l’ostilità che la polis di allora nutre contro Palamede, inventore della scrittura. Nell’Atene del V secolo infatti vi è un dibattito acceso riguardo la scrittura. Si sa che Platone non ama il testo scritto, la considera pericolosa perché fa perdere la memoria (Fedro 274 c-276 a). Ricordiamo che non si tratta di un dibattito contro la parola in quanto tale, considerata importantissima, ma solo contro la scrittura: come abbiamo detto l’Atene del V secolo si basa sulla parola orale, sia mitica sia filosofica. È dalla struttura democratica della polis che nasce la filosofia: da quei dibattiti tra concittadini si afferma un pensiero libero sui grandi temi dell’esistenza.
Pertanto, in considerazione di questo alto valore della parola nel mondo antico, non stupisce che spesso gli dei delle varie religioni creano o agiscono mediante essa. Il dio creatore indiano Brahma è raffigurato con quattro volti (catur-anana), uno per ognuno dei quattro Veda, il testo sacro dell’induismo. In latino Fatum, che addirittura si situa al di sopra delle divinità, deriva da un verbo latino che significa “dire”, fari. Mentre per i babilonesi il destino era detto šimptu (dal verbo accadico šamu, “stabilire”, quindi il destino è “ciò che è stabilito” per essere assegnato, un po’ come la moira greca), prima ancora per i sumeri il destino era indicato pure dal sumerogramma NAM, che per alcuni deriverebbe da na, “annunciare, parlare”. A volte sono gli stessi dei a tracciare il destino di altre divinità o di uomini. Come osservava l’illustre semitista Furlani nei testi da lui esaminati, gli dei babilonesi fissano il destino mediante un comando, una parola. Nel mondo germanico un termine per destino è urder, dal verbo verda, “divenire”, vertere in latino, riferito al tirare il filo del destino, allusione al tessere delle Norne.
Nel pensiero cinese si hanno due tradizioni fondamentali per la civiltà ma opposte: il confucianesimo e il taoismo. Il primo fu fondato da Confucio nel VI secolo a.C. e si basa sul controllo della mente, quindi sul dovere e sul rango sociale, l’uomo ideale per il confuciano è il buon padre di famiglia e l’onesto funzionario di stato. Il taoismo fu fondato da Laozi tradizionalmente anch’esso nel VI secolo a.C. e si basa sul lasciare libera la mente dai condizionamenti della società, quindi l’uomo ideale per il taoista è l’eremita della montagna che fa i riti magici nei boschi. Per il taoismo il Principio supremo da cui tutto deriva, che permea di sé ogni cosa e a cui tutto ritornerà è detto Tao, termine cinese che significa anche “strada, via” e anche “parola”, come a dire che il Tao è la Parola per eccellenza. Solo il Tao, infatti, ha un “nome vero” ma che è inconoscibile da parte degli uomini (Laozi, Tao Te King XXV).
Il Tao è la natura che è libera di manifestarsi, quindi coincide con l’uomo che porta avanti una vita naturale, senza costrizioni sociali. L’ideogramma cinese Tao, nell’evocare l’idea della via, evoca anche quella del cammino, quindi della possibilità di raggiungere in qualche modo il sistema delle cose (Struttura dell’universo), allora ciò che le informa nel profondo, vale a dire il Principio. All’inizio l’ideogramma indicava le grandi arterie che collegano i centri più importanti della Cina alla capitale, pertanto vi è anche un senso di “essere guidato” e di “sicurezza”. Anche i confuciani parlano del Tao, ma in un altro senso, quello cioè di moralità, di dovere morale.
L’azione del Tao è detta “non azione” (wu wei). Il titolo del trattato di Laozi è Tao Te King, che in cinese significa Classico (King) del Tao e della Virtù (Te). Questa virtù del Tao non è una repressione della propria natura, a mo’ dei confuciani, ma la libera espressione delle qualità naturali. Infatti al capitolo XXXVIII Laozi scrive: “La virtù superiore è senza agire e senza scopo”. Il principio taoista del wu wei, “non azione”, non è un far nulla ma un lasciare agire spontaneamente la natura, di modo che così si manifesti liberamente il Tao.
Per il taoista la sapienza suprema sta nel capire cosa sia il Tao. Il Tao coincide con il Vuoto. Tutto quanto esiste si basa sul Vuoto. Laozi scrive che il Tao ha il titolo di Grande Vuoto (xu), che esiste prima della formazione del Cielo e della Terra. Ma l’uomo che pensa con pensieri umani e si esprime con parole umane non può capire un concetto del genere, infatti solo il Tao ha quel nome vero ma che l’uomo non può afferrare.
Sono significative le parole del grande filosofo taoista Zhuangzi (cap. XXII): “Concepisco il non essere esistente (you wu)/non concepisco il non essere esistente (wu wu)/quando si è un essere inesistente (wu you), come si arriva a tanto?”. I tre membri di questo pensiero taoista si basano sulla combinazione delle parole cinesi “esserci” (you) e “non esserci, vuoto” (wu). Il primo dice: posso concepire che il non esserci c’è, cioè che il vuoto c’è, vale a dire che il vuoto è reale. Il secondo afferma: non concepisco che il non esserci non c’è, cioè non concepisco che il vuoto non c’è, vale a dire non concepisco che il vuoto non è reale, quindi l’autore afferma di concepire che il vuoto è reale. Il terzo asserisce: è impossibile (“come si arriva a tanto?”) capire fino in fondo che il non esserci è necessario alla realtà. In poche parole questo grande filosofo taoista, che tra l’altro scrive il suo trattato con notevole stile letterario, vuole dirci che il vuoto esiste ma che è impossibile afferrarlo pienamente con la mente umana.
Anche il confucianesimo attribuisce un grande valore alla parola. Secondo una nota glossa confuciana, “governare significa essere nella rettitudine”. La parola zheng piuttosto che “governare” come noi occidentali intendiamo, significa “ordinare il mondo”, senso contenuto nel carattere zhi, che all’inizio significava “curare un organismo malato”, nell’accezione di ristabilirvi un equilibrio perduto. Quindi l’arte di governare non è una questione di tecnica politica ma di carisma personale da avere in sé ma anche da coltivare. Solo così, dal carisma personale, è possibile passare a sanare l’organismo sociopolitico, quindi a farlo andare nel giusto modo. Questo nesso tipicamente cinese tra il sovrano e il mondo esterno trova tutta la sua forza nella nozione del “rettificare i nomi”. Questa nozione vuol dire che l’atto di conferire un nome a un ministro (per denominazione) significa nominarlo ministro (per nomina). Questo vuol dire che tra nome (ming) e realtà (shi) esiste un rapporto ontologico inscindibile. Vige quindi una forza contenuta nel linguaggio che esprime la dinamica delle relazioni umane ritualizzate. Tra interno e esterno, tra il carisma dell’uomo di stato veicolato dal suo nome e l’andamento dello stato vi è una coincidenza assoluta. Si intravede in questo denso nucleo concettuale il sogno confuciano che l’andamento dello stato non dipenda da fattori estrinseci ma dallo stesso sovrano che, in sé, sarebbe in grado di dare equilibrio e armonia, come al tempo del mitico sovrano Shun, che si limitava a restar seduto rivolto a sud, incarnando la forza del principio della “non azione” (wu wei) tipicamente taoista. In Confucio c’è una forte tendenza all’accordo tra la vicenda umana e l’andamento naturale delle cose in cui il Tao si manifesta spontaneamente. Houang-ti, il primo sovrano, si assunse come dovere quello di “dare le denominazioni corrette” (tcheng ming), ogniqualvolta si usava la parola (non solo nel mondo della politica), per mettere ordine a livello sociale.
Il buddhismo nasce in India nel VI secolo a. C. con la predicazione del Buddha storico. Egli si esprime in ardhamagadhi, quando è in vita non vuole che i suoi discorsi vengano scritti in versi vedici per non riservarli sono ad una elite di intellettuali, infatti egli intende concedere a tutti il suo insegnamento. Oggi i canoni buddhisti superstiti sono tre: pali, cinese, tibetano. Ogni canone buddhista è formato da tre parti: discorsi (sutra), regole di vita monastica (vinaya) e commenti agli insegnamenti (abhidhamma o sastra). Quindi ogni canone buddhista è detto Tripitaka, che vuol dire Tre Canestri, in riferimento alle tre parti di cui è composto.
Le Quattro Nobili Verità alla base della dottrina del buddhismo sono:
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esiste il dolore nella vita umana;
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il dolore nasce dal nostro attaccamento per ciò che è effimero: cose e persone;
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per eliminare il dolore dobbiamo lasciare andare l’attaccamento per ciò che è effimero;
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esiste un percorso per attuare questo, cioè per liberarsi dal dolore: è il Nobile Ottuplice Sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione meditativa).
L’attaccamento fa restare la persona nel ciclo delle vite o reincarnazioni (saṃsāra). Se l’attaccamento cessa, ci si libera dal saṃsāra, cioè anche dal dolore, procurato dalle vite. Fino alla estinzione nel nirvāṇa, che è la cessazione del ciclo delle vite, la pace ultima, l’annullamento, una consapevolezza totale che coincide con l’assenza di ogni desiderio e pensiero. Ma il concetto di nirvāṇa varia da scuola a scuola.
Secondo la legge del karma, se in vita si fanno buone azioni e si hanno buoni pensieri, ci si reincarna in una esistenza migliore, altrimenti in una esistenza peggiore. Seguire i dettami del Nobile Ottuplice Sentiero permette di accumulare karma positivo (per reincarnarsi in esistenze migliori) e ha il fine ultimo di procurare il nirvāṇa, anche se questo non deriva automaticamente dal perseguimento di tali regole.
Secondo il Sutra n. 22 della Digha Nikaya la retta parola è questa: “E che cosa è la Retta Parola? Astenersi dal mentire, dal calunniare, dal parlare aspramente, dal parlare di cose futili: questa è la Retta Parola”. Usare male la parola equivale ad accumulare karma negativo.
C’è da dire che la identificazione cristiana tra Sapienza, Parola e Cristo si compie sia per la Persona di Cristo sia per il suo messaggio. Il termine “vangelo”, in greco euanghelion, vuol dire “buona notizia”. La buona notizia è che Cristo, l’Uomo Dio sceso sulla terra, è morto in croce per i nostri peccati, quindi, avendoci così redenti, ci ha donato la vita eterna. In greco “redenzione” è lutrōsis, che significa letteralmente “scioglimento”. Cristo ci ha tolto dai legami del peccato che ci consegnavano alla morte e ci ha donato una nuova vita, già su questa terra mediante il battesimo, anche se essa avrà compimento con la risurrezione finale. “Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5, 12). La redenzione cristiana ripropone la figura del redentore dell’Antico Testamento, in ebraico il goel, cioè il “riscattatore”, colui che riscattava chi era finito imprigionato per debiti. In aramaico “peccato” e “debito” si dice con una sola parola.
Il cristianesimo insegna che il fine ultimo dell’uomo è la risurrezione della carne, quando alla fine dei tempi, quando Cristo verrà di nuovo, anche il nostro corpo si unirà alla gloria dell’anima già salvata in cielo. Noi non siamo della terra ma siamo esseri spirituali, quindi il nostro destino ultimo sono le realtà celesti. Non per nulla, dei santi si ricorda sul calendario il giorno della nascita in cielo. Nel Nuovo Testamento il risorgere dei morti è indicato dal verbo greco anistēmi, che significa “mi alzo”, e anche dal verbo greco egheirō, “mi sveglio”. Fino ad allora la salvezza dell’anima in Paradiso ancora non è completa in quanto l’uomo è formato da anima e corpo, quindi deve partecipare anche il corpo. Prima della fine dei tempi, cioè prima del giudizio universale, vi è un giudizio particolare che attende l’anima appena staccata dal corpo per essere assegnata all’inferno o al purgatorio o al paradiso. Il giudizio universale ratificherà quello particolare già pronunciato un istante dopo la morte fisica. Anche i dannati risorgeranno ma per una risurrezione di condanna. Prima della risurrezione finale, il battesimo ci ha fatto risorgere spiritualmente con Cristo: immergendoci nell’acqua del battesimo siamo morti al peccato, risalendo siamo risorti spiritualmente con Cristo. Attualmente sono solamente due le persone risorte anche con il corpo: Gesù Cristo (che è vero Dio e vero uomo) e la Madonna (la più perfetta delle creature). Il Nuovo Testamento insegna che il corpo risorto non è un corpo ordinario ma “spirituale”, svincolato dai limiti del tempo e dello spazio, quindi la risurrezione di Lazzaro non coincide con la risurrezione finale, ma quest’ultima è stata semplicemente un ritornare alla vita ordinaria.
Cristo ha compiuto un sacrificio di espiazione offrendosi a Dio Padre come l’Agnello senza macchia sacrificato al posto nostro. La Santa Messa è il memoriale della morte e risurrezione di Cristo, fonte di tutte le grazie, che ci fa diventare con Cristo un solo corpo e un solo spirito. Il pane spezzato e il vino versato sono il corpo e il sangue di Cristo sacrificati per il perdono dei peccati. La sua risurrezione ci assicura la vita eterna. La Santa Messa è il sacrificio di Cristo che perdura sulla terra, specchio della Messa che continua a essere celebrata in cielo. Nella Eucaristia vi è la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo. Nel Santo Sacrificio dell’Altare vi è tutta la Santissima Trinità. Nelle icone antiche si raffigura Dio Padre con le braccia aperte e il sangue fuoriuscire dalle mani.
Pertanto la tradizione cristiana insegna che la vera sapienza è la croce di Cristo, mediante la quale si attua la nostra redenzione. Paolo (1Corinzi 2, 6-8): “Tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l'ha conosciuta; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria”.
La morte in croce di Cristo e la sua risurrezione costituiscono l’evento centrale della storia, mediante il quale il mondo viene rigenerato. È dal costato di Cristo trafitto dalla lancia del soldato romano che la tradizione chiama Longino, che escono sangue e acqua (Giovanni 19, 34), simboli dei sacramenti della nostra salvezza che rigenerano il mondo. L’acqua infatti richiama l’acqua viva che scaturisce dal Cristo: chi la beve non avrà più sete. Giovanni 4: “Chiunque beve di quest'acqua avrà sete di nuovo; Ma chi beve dell'acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi l'acqua che io gli darò, diventerà in lui una fonte d'acqua che scaturisce in vita eterna”. È un rimando a Ezechiele, capitolo 47, il quale dice che dal Tempio di Dio scaturisce acqua che risana il mondo: “Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell'Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà”.
L’acqua è molto importante in tutta la Bibbia vista la particolare condizione geo-climatica della Palestina. È significativo che in Numeri 24, 7 si dice: “Fluiranno acque dalle sue secchie”, espressione chiaramente metaforica per indicare il dominio. Infatti la traduzione greca della Settanta rende: “Signoreggerà su molte nazioni”. Il salmo 65, 10 presenta la parola ebraica peleg, “fiume”, in riferimento al fiume di Dio: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque”. Ma peleg può anche essere inteso come “canale”, quindi Dio sarebbe paragonato quasi a un ingegnere che dalla volta celeste, ove sono raccolte le acque, scava un canale per irrigare la terra. Geremia 2, 13 contrappone le cisterne screpolate (i falsi dei) alla sorgente d’acqua viva (il vero Dio). È significativo altresì che Gioele 3, 1-2 indica l’effusione dello Spirito di Dio con il verbo ebraico shafak, “versare” un liquido: il richiamo al liquido esprime sia l’origine divina dello Spirito sia la sua capacità di trasformare l’uomo, come l’acqua che penetra nel terreno fecondandolo.
L’Apocalisse (1, 8) dice che Cristo è l’Alfa e l’Omega, rispettivamente la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, quindi Cristo costituisce l’inizio e la fine. Dio Padre ha avuto il disegno “di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Efesini 1, 10), in greco anakefalaiōsasthai ta panta en tōi Christōi, dove il verbo contiene la parola kefalaion, che indica il supporto di legno attorno al quale si arrotola il rotolo di papiro, quindi Paolo vuole dirci che la storia con tutte le varie dottrine è come un libro che viene riavvolto nella Persona di Cristo mediante la sua Parola. Questo perché “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Colossesi 1, 16).
Il messaggio della croce di Cristo racchiude il senso dell’umanità intera. Cristo appariva alla Beata Speranza di Gesù, una mistica morta in Umbria nel 1983, e le diceva di contemplare il crocifisso perché da esso aveva molto da imparare. Il senso della vita umana su questa terra è il dolore, lo stesso che ha sofferto Cristo incarnandosi qui. Insegnava sempre Gesù alla Beata Speranza, il dolore ci strappa dalla materia e dall’io illusorio legato alla materia e quindi agli egoismi e ci dispone ai valori e ai mondi spirituali. Il dolore è causa del nostro innalzamento al Paradiso.
Il senso della vita cristiana è tendere alla santità. “Siate santi perché io sono santo” (Levitico 19, 2; 1Pietro 1, 16). La Lumen gentium dichiara la vocazione universale alla santità di tutta la chiesa e invita a “perseguire la santità e la perfezione del proprio stato” (n. 42). La Lettera ai cercatori di Dio della CEI afferma: “Riteniamo che chi cerca ragioni per vivere, in qualche modo e nel profondo della sua attesa cerchi Dio”. Le prove della vita sono un modo per diventare santi. Infatti Agostino (Discorso 223/I) diceva: “Umilmente vegliamo, umilmente preghiamo, con piissima fede, con saldissima speranza, con ferventissima carità, pensando quanto la nostra glorificazione risplenderà come giorno, se già la nostra umiliazione cambia la notte in giorno”.
In ebraico Santo si dice qadosh, da una radice ebraica che significa “separare”, come il verbo greco aghiazein, che vuol dire anche “santificare”, così come il verbo latino sancire, da cui il participio passato sanctus. Anche in egiziano antico la radice dśr significa in origine “separare” e poi “consacrare” (tA dśr è il cimitero, cioè letteralmente “terra separata” dal resto della città, non già “terra religiosa”). Santo è innanzitutto Dio, che è “separato” dal mondo da lui creato. Egli è il Santo di Israele (2Re 19, 22). Mediante un tipico superlativo semitico Dio è definito Santo, Santo, Santo, espressione che quindi vuol dire Santissimo. Il luogo dove Dio dimorava nel Tempio era detto Santo dei Santi, un altro superlativo semitico. Ma santo è anche il popolo scelto da Dio, in questo modo “separato” dagli altri (Esodo 19, 6: Israele è un goj qadosh, un “popolo santo” nel senso che è “separato” dal resto degli altri popoli, cioè è proprietà esclusiva di Dio). Esodo 13, 2: i primogeniti “si devono santificare” in quanto destinati a Dio, quindi “separati” dagli altri bambini. Santi sono anche coloro che seguono l’insegnamento di Dio, la cui patria non è questa terra ma il cielo. Nella Lettera a Diogneto (capitolo 5) è scritto dei cristiani: “Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo”. Giovanni 15, 18-21: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che io vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno a voi tutto questo a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato”.
Mentre il Dio dell’Antico testamento si fece conoscere come “separato”, invece il Dio del Nuovo Testamento, Gesù Cristo, è Emmanuel, che in ebraico significa Dio-con-noi. Dio è talmente vicino a noi che si è fatto uomo. È questo l’evento capitale della storia umana. Si tratta di un vero incontro tra Dio e l’uomo e di un atto reciproco di amore.
In Giovanni 13, 23 è scritto che uno dei discepoli, quello che Gesù amava, “si trovava a tavola al fianco di Gesù … ”, in greco anakeimenos … en tōi kolpōi tou Iesou. Il senso più scontato di questa pericope evangelica è che, poiché anticamente le persone mangiavano sdraiate su divani, questo discepolo, stando vicino a Cristo, si trovava prossimo al suo petto. Ma il Vangelo di Giovanni è molto allusivo ed è intriso di connotazioni assai significative. La traduzione greca della Settanta usa l’espressione o kolpos, “il fianco”, in un modo tale da indicare tenerezza viscerale (1Re 3, 20: il posto occupato dal bimbo nel seno della madre o della nutrice), Giovanni potrebbe collegarsi a questo uso, in ragione anche del fatto che il discepolo era amato da Cristo. Giovanni usa un lessico tecnico e altamente specifico, si tratta di un vero e proprio vocabolario giovanneo, dove anche le singole particelle hanno un grande valore, quindi en, “nel”, non ha solo una funzione di localizzazione, ma indica anche lo spazio mistico-religioso. Allora tra le righe il Quarto vangelo vuole ammiccare al fatto che il discepolo amato da Gesù è il prototipo di ogni discepolo di Cristo, che sta in strettissima vicinanza spirituale con Dio. Dio è talmente vicino all’uomo che si è incarnato ed è morto e di una morte infamante come la croce, talmente degradante che i cittadini romani ne erano esenti di diritto. Poco dopo lo stesso evangelista (15, 9.14.15) dirà: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore … Voi siete miei amici … Non vi chiamo più servi”.
“Dio è amore” (1Giovanni 4, 8). Egli manifesta il suo amore verso gli uomini creandoli e poi santificandoli. L’essenza del cristianesimo, quindi di tutta la sapienza cristiana, è l’amore. Di Dio prima di tutto, che ci ama avendo mandato suo Figlio per la nostra salvezza (Romani 5, 8). Gesù Cristo per amore sacrifica la propria vita (“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, Giovanni 15, 13). Gli uomini devono seguire l’esempio di Cristo (“Vi ho dato infatti l’esempio perché come ho fatto io, facciate anche voi”, Giovanni 13, 15) amando anche gli altri uomini. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13, 31-35). Certamente anche Dio vuole amore: “Amore desidero e non sacrificio” (Osea 6, 6). “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (Salmo 50, 19).
Un altro celebre inno alla Sapienza è Siracide 24:
“1 La sapienza loda se stessa,
si vanta in mezzo al suo popolo.
2 Nell'assemblea dell'Altissimo apre la bocca,
si glorifica davanti alla sua potenza:
3 «Io sono uscita dalla bocca dell'Altissimo
e ho ricoperto come nube la terra.
4 Ho posto la mia dimora lassù,
il mio trono era su una colonna di nubi.
5 Il giro del cielo da sola ho percorso,
ho passeggiato nelle profondità degli abissi.
6 Sulle onde del mare e su tutta la terra,
su ogni popolo e nazione ho preso dominio.
7 Fra tutti questi cercai un luogo di riposo,
in quale possedimento stabilirmi.
8 Allora il creatore dell'universo mi diede un ordine,
il mio creatore mi fece posare la tenda
e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi in eredità Israele.
9 Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò;
per tutta l'eternità non verrò meno.
10 Ho officiato nella tenda santa davanti a lui,
e così mi sono stabilita in Sion.
11 Nella città amata mi ha fatto abitare;
in Gerusalemme è il mio potere.
12 Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore, sua eredità.
13 Sono cresciuta come un cedro sul Libano,
come un cipresso sui monti dell'Ermon.
14 Sono cresciuta come una palma in Engaddi,
come le piante di rose in Gerico,
come un ulivo maestoso nella pianura;
sono cresciuta come un platano.
15 Come cinnamòmo e balsamo ho diffuso profumo;
come mirra scelta ho sparso buon odore;
come gàlbano, ònice e storàce,
come nuvola di incenso nella tenda.
16 Come un terebinto ho esteso i rami
e i miei rami son rami di maestà e di bellezza.
17 Io come una vite ho prodotto germogli graziosi
e i miei fiori, frutti di gloria e ricchezza.
18 Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate,
e saziatevi dei miei prodotti.
19 Poiché il ricordo di me è più dolce del miele,
il possedermi è più dolce del favo di miele.
20 Quanti si nutrono di me avranno ancora fame
e quanti bevono di me, avranno ancora sete.
21 Chi mi obbedisce non si vergognerà,
chi compie le mie opere non peccherà».
22 Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio
altissimo,
la legge che ci ha imposto Mosè,
l'eredità delle assemblee di Giacobbe.
23 Essa trabocca di sapienza come il Pison
e come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi;
24 fa traboccare l'intelligenza come l'Eufrate
e come il Giordano nei giorni della mietitura;
25 espande la dottrina come il Nilo,
come il Ghicon nei giorni della vendemmia.
26 Il primo non ne esaurisce la conoscenza
né l'ultimo la può pienamente indagare.
27 Il suo pensiero infatti è più vasto del mare
e il suo consiglio più del grande abisso.
28 Io sono come un canale derivante da un fiume
e come un corso d'acqua sono uscita verso un giardino.
29 Ho detto: «Innaffierò il mio giardino
e irrigherò la mia aiuola».
Ed ecco il mio canale è diventato un fiume,
il mio fiume è diventato un mare.
30 Farò ancora splendere la mia dottrina come l'aurora;
la farò brillare molto lontano.
31 Riverserò ancora l'insegnamento come una profezia,
lo lascerò per le generazioni future.
32 Vedete, non ho lavorato solo per me,
ma per quanti cercano la dottrina”.
Nel Siracide la Sapienza viene identificata con la Legge, in ebraico Torah. L’autore biblico ha chiaramente in mente il significato etimologico di Torah, che è “insegnamento”. La Torah contiene i precetti fondamentali per gli ebrei, quindi ha iniziato ad essere chiamata Legge, Nomos in greco. La Sapienza viene anche paragonata ai fiumi, in relazione ai fiumi cosmici del giardino dell’Eden (Genesi 2, 11-14). Quindi la Sapienza non solo crea il mondo ma permette la sua restaurazione nel paradiso futuro, la Gerusalemme celeste. È interessante che nel testo greco al v. 25 si parla di “luce” perché in ebraico il nome del Nilo (jeor) può facilmente confondersi con tale parola (‘or). Nel Corano il paradiso ultraterreno è descritto con la presenza di fiumi: per esempio nella sura 88 si dice che “… c’è una fonte di acqua corrente …”. Per il Corano l’acqua dei fiumi terrestri è quella proveniente dalla pioggia, vera benedizione di Dio. Corano 25, 53: “È lui che lascia libero corso ai due mari, uno composto di acqua dolce, l’altro salato e amaro; è lui che frappone tra i due una barriera invalicabile in una zona intermedia”. Il versetto è strato interpretato in maniera assai diversa entro la tradizione musulmana. Probabilmente i due mari (in arabo baḥr, un duale) alludono rispettivamente al mare (acqua salata e amara) e all’intero sistema dei fiumi (acqua dolce). Tra di loro c’è una barriera, è un linguaggio figurato per dire che le acque salata e dolce non si mischiano. L’aggettivo “amaro” (ugāg) deriva da una radice che indica il bruciare, quindi alcuni esegeti musulmani hanno sostenuto che l’acqua del mare derivi dalle piogge celesti assieme al fuoco terrestre.
Come abbiamo già detto, nella Genesi Dio crea attraverso la parola: Egli dice e le cose si squadernano. Quindi nel v. 3 del Siracide la Sapienza esce dalla bocca di Dio: “Io uscii dalla bocca dell’Altissimo”. Bisogna anche dire che l’autore di questo libro sapienziale è un grande ammiratore della liturgia, considerata come espressione della sapienza di Dio (4, 14; 50, 5-21). Quindi nel v. 10 la Sapienza dice di sé stessa “prestai servizio”, eleitourghesa, il verbo greco indica sempre un servizio religioso, diciamo oggi liturgico. La sapienza mediante la liturgia fissò la sua dimora in Gerusalemme, divenuta in tal modo il centro del popolo eletto. Per gli ebrei il centro del mondo era Gerusalemme, il centro di Gerusalemme era il tempio.
Citiamo poi Giobbe 28:
“1 Certamente, ha una miniera l'argento,
e l'oro un luogo dove lo si affina.
2 Il ferro si cava dal suolo,
e la pietra fusa dà il rame.
3 L'uomo ha posto fine alle tenebre,
egli esplora i più profondi recessi,
per trovare le pietre che sono nel buio, nell'ombra di morte.
4 Scava un pozzo lontano dall'abitato;
il piede più non serve a quelli che vi lavorano;
sono sospesi, oscillano lontano dai mortali.
5 Dalla terra esce il pane,
ma, nelle sue viscere, è sconvolta come dal fuoco.
6 Le sue rocce sono la sede dello zaffiro,
e vi si trova la polvere d'oro.
7 L'uccello rapace non conosce il sentiero che vi conduce,
né l'ha mai scorto l'occhio del falco.
8 Le fiere superbe non vi hanno messo piede,
il leone non c'è passato mai.
9 L'uomo stende la mano sul granito,
rovescia dalle radici le montagne.
10 Pratica trafori dentro le rocce,
e l'occhio suo scorge quanto c'è di prezioso.
11 Frena le acque perché non gemano
e le cose nascoste trae fuori alla luce.
12 Ma la saggezza, dove trovarla?
Dov'è il luogo dell'intelligenza?
13 L'uomo non ne sa la via,
non la si trova sulla terra dei viventi.
14 L'abisso dice: ‘Non è in me’;
il mare dice: ‘Non sta da me’.
15 Non la si ottiene in cambio d'oro,
né la si compra a peso d'argento.
16 Non la si acquista con l'oro di Ofir,
con l'ònice prezioso e con lo zaffiro.
17 L'oro e il vetro non reggono al suo confronto,
non la si dà in cambio di vasi d'oro fino.
18 Non si parli di corallo, di cristallo;
la saggezza vale più delle perle.
19 Il topazio d'Etiopia non può starle a confronto,
l'oro puro non ne controbilancia il valore.
20 Da dove viene dunque la saggezza?
Dov'è il luogo dell'intelligenza?
21 Essa è nascosta agli occhi di ogni vivente,
è celata agli uccelli del cielo.
22 L'abisso e la morte dicono:
‘Ne abbiamo avuto qualche sentore’.
23 Dio solo discerne la via che vi conduce,
egli solo conosce il luogo dove risiede,
24 perché il suo sguardo giunge fino alle estremità della terra,
perch'egli vede tutto quello che è sotto i cieli.
25 Quando regolò il peso del vento
e fissò la misura delle acque,
26 quando diede una legge alla pioggia
e tracciò la strada al lampo dei tuoni,
27 allora la vide e la rivelò,
la stabilì e anche l'investigò.
28 E disse all'uomo:
‘Ecco, temere il Signore, questa è saggezza,
fuggire il male è intelligenza’ ".
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