Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa Indice
La gestione del punto di vista. Spunti per un'ermeneutica del cambiamento in Epitteto.
di Lucio Scognamiglio
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I riferimenti del suo pensiero
Manuale, 52.
Il luogo che è il primo e il più necessario in filosofia è quello dell'applicazione dei principi, per esempio: non mentire. Il secondo è quello delle dimostrazioni, per esempio perché non bisogna mentire? Il terzo è quello che conferma e analizza i primi due, per esempio perché questa è una dimostrazione? Che cos'è una dimostrazione, una conseguenza logica, una contraddizione, che cos'è il vero, che cos'è il falso? Così il terzo luogo è necessario a causa del secondo e il secondo a causa del primo. Ma quello che è più necessario e su cui bisogna soffermarsi, è il primo. Eppure noi facciamo proprio il contrario. Passiamo tutto il nostro tempo nel terzo e ad esso dedichiamo tutto il nostro impegno, e non ci preoccupiamo per nulla del primo. Ecco quindi la ragione per la quale mentiamo, ma come si dimostra che non dobbiamo mentire lo abbiamo ben chiaro.
La natura dell'uomo evidentemente rimane immutata. Oggi, come venti secoli addietro, siamo assillati dal giudizio come parametro immediato di conoscenza. Il discrimine tra giusto e sbagliato, ci appare sempre con immediatezza e da questo chiaro/scuro facciamo poi discendere tutte le nostre azioni conseguenti. Eppure ci dimostra Epitteto che il giudizio, per certi versi, è la fase meno importante del processo cognitivo, essendo invece l'applicazione e la dimostrazione dei principi le fasi più importanti di ricerca della verità. In questo senso l'odierna abitudine a tenere sempre attiva la funzione giudicante, risulta fuorviante perché colloca la nostra visuale al piano inferiore della scala della conoscenza. Volendo azzardare un paragone è come tracciare la mappa di un territorio percorrendo a piedi le sue strade, anziché studiarlo dall'alto eseguendo i rilievi aero fotogrammetrici. Per posizionare correttamente la propria prospettiva, bisogna essere consapevoli che, giudicando come buono o cattivo ogni evento della vita, si striscia per terra legando il giudizio al puro contingente, e quindi col rischio di assumere decisioni incongrue rispetto all'orizzonte che non conosciamo.
Perché siamo così affezionati al giudizio? Forse perché oggi dobbiamo decidere in fretta, percorriamo strade affollate e dobbiamo saper percepire un semaforo rosso o un senso unico per non essere travolti. Però a situazioni difficili corrispondono giudizi difficili e per questi occorre attivare le funzioni di spazio e tempo. Ambedue queste funzioni ci allontanano necessariamente dal contingente. Lo spazio è sinonimo di prospettiva, allargare la prospettiva per percepire meglio il reale. Epitteto in questo è un maestro, anche se non conosce gli assi cartesiani, non solo innalza il nostro punto di osservazione sull'asse delle ordinate, sganciandolo dal giudizio contingente (Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose, Manuale, 5); ma lo fa scorrere anche sull'asse delle ascisse, facendolo ruotare intorno all'evento (Ogni cosa ha due prese, una da cui la si può portare, l'altra da cui non la si può portare, Manuale, 43).
Sbarazzandoci della funzione giudicante assumiamo una libertà sconosciuta che ci predispone ad essere osservatori neutrali verso l'oggetto che si intende “conoscere”, al pari dello scienziato impegnato nei suoi esperimenti. La libertà dal giudizio e di giudizio rappresenta la posizione più corretta quando occorre confrontarsi con situazioni complesse, insolite, nuove, inattese dove non valgono più i vecchi parametri.
A questa intuizione, che tuttora dispiega i suoi effetti prorompenti, si aggiunge la funzione tempo. Ciascuno è proprietario, nel senso pieno del termine, del proprio giudizio. Questa titolarità, al pari del diritto di proprietà, può essere esercitata nel tempo in cui si ritiene più opportuno decidere. Lasciando decantare il reale, prendendo tempo per il giudizio, assumendo cioè nel processo valutativo il fattore tempo, si rompe la catena delle reazioni tipica dei momenti critici. Col tempo il reale “decanta”, si mostra nei suoi tratti essenziali che sono più facilmente conoscibili (Nessuna cosa grande compare all'improvviso, nemmeno l'uva, nemmeno i fichi. Se ora mi dici: "Voglio un fico"; ti rispondo: "Ci vuole tempo". Lascia innanzitutto che vengano i fiori, poi che si sviluppino i frutti e, poi, che maturino, Diatribe I,15).
Il giudizio non è velleitario, perché presuppone un'analisi e una ricerca della verità che per Epitteto è sinonimo di conoscenza, da rivolgere anzitutto verso se stessi e comunque sempre svolta con umiltà e onestà intellettuale. Sarebbe del tutto inutile attivare meccanismi cognitivi di questo tipo se non si è disposti ad abbandonare le certezze che si ha in tasca. Il tempo del giudizio matura quando le condizioni lo consentono e ciò potrebbe anche non avvenire mai, essendo importante vivere secondo i propri principi prescindendo dalle valutazioni dei fatti. Evidentemente queste ricerche impongono sforzi considerevoli a livello personale che i “progredienti” di oggi difficilmente sarebbero disposti a sostenere se non vi fosse una stringente necessità. E la molla che attiva la volontà per sostenere questi sforzi, la si ritrova appunto nelle situazioni negative di disorientamento, a cui in precedenza si è fatto riferimento.
L'invito a sostenere ora queste nuove sfide viene richiamato dallo stesso Epitteto alla fine del Manuale (... Se ti trovi di fronte a qualcosa di doloroso, o di piacevole o ancora che porta o non porta buona reputazione, ricordati che è in questo momento che ha luogo il combattimento, che è in questo momento che si svolgono i Giochi Olimpici, che non è più il momento di arretrare e che la rovina o la salvezza del tuo progresso morale dipendono da un solo giorno, da una sola circostanza. Manuale, 51). La vita è adesso sembra volerci dire, non è più tempo di rimandare, di rinviare l'inizio del percorso verso la conoscenza e la verità. Un percorso da seguire con animo sereno sapendo che, in fin dei conti, il futuro non è tutto nelle nostre mani: “Conducimi, Zeus, e tu, Destino, là dove avete stabilito per me; vi obbedirò senza esitare; se resistessi, diventato allora malvagio, dovrò pur seguirvi sempre. (...)” (Manuale, 53). Questa invocazione non è poi molto lontana da quanto avrebbe considerato Kant, diciassette secoli dopo: "Due cose in vita mi furono sommamente care: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me."
Consigli riferiti al soggetto percettore
Manuale, 5.
Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose. Per esempio, la morte non ha nulla di temibile, altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate. Ma è il giudizio che noi formuliamo sulla morte, cioè che essa è temibile, ad essere temibile nella morte. Pertanto quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi: è proprio di chi non è ancora stato educato attribuire agli altri la responsabilità dei suoi mali; è proprio di chi è all'inizio della propria educazione attribuirne la responsabilità a se stesso; è proprio di chi ha completato la propria educazione non attribuirne la responsabilità né ad altri né a se stesso.
Epitteto include il giudizio di valore tra le cose che dipendono da noi insieme all'impulso ad agire, al desiderio e all'avversione, quindi lo inserisce tra le cose che - per loro natura - ci appartengono e di cui possiamo disporre. Che il giudizio sia nella “disponibilità” di ciascuno non è affatto palese nella nostra cultura corrente. Proprio per le motivazione esposte, il legame tra un determinato aspetto del reale e la relativa qualificazione positiva o negativa del medesimo, risulta invece un elemento immediato e inscindibile della nostra percezione. Finiamo per rappresentarci il reale principalmente “attraverso” o “accompagnato” da un giudizio pre-costituito. Il giudizio, che logicamente dovrebbe seguire l'analisi, viene spesso e inconsapevolmente collocato in una fase antecedente cosicché, invece di percepire il reale per quel che è e, solo successivamente (ed eventualmente), qualificarlo lo si percepisce già etichettato.
Il reale ha una sua oggettività che sfugge ad una conoscenza assoluta. Possiamo mai affermare di possedere immediatamente la “verità”, semmai con la presunzione di conoscerne anche le sfaccettature? Evidentemente no! Il giudizio è un processo de – finitorio, è una classificazione necessariamente limitata e limitante che non ha valore in sé, ma è strumentale, funzionale solo alle scelte e al corretto vivere, tanto è vero che gli stessi parametri di giudizio sono in divenire (si pensi a come sono mutati nel tempo i concetti di comune senso del pudore, oppure alle trasformazioni, anche recenti, che ha avuto l'istituto del matrimonio).
Il processo di giudizio spesso ci sfugge perché inconsapevolmente saltiamo al risultato finale (ancora con riferimento al mondo giuridico, è come arrivare al dispositivo della sentenza, senza aver esperito il processo e senza neanche aver scritto le motivazioni). Altre volte il giudizio è estremamente difficile, soprattutto in determinati momenti quando viviamo situazioni complesse, o inaspettate o dolorose. In questa fase essere coscienti che la nostra è solo una delle possibili opinioni, anche se si tratta di quella che più ci appartiene, ci fa rendere conto che non possediamo la realtà (che sicuramente abbiamo già provato a influenzare senza esito), mentre ciò che possiamo cambiare sono le mostre opinioni (quindi il nostro giudizio relativamente alla condizione che stiamo vivendo).
Questo è il primo passo per allontanarsi dal contesto; diminuendo il livello di coinvolgimento, diminuisce anche il carico negativo che ci portiamo addosso. Innalzando il punto di osservazione lungo l'asse delle ordinate, scollegandolo cioè dal giudizio contingente, si allarga la prospettiva, altri elementi entrano a far parte della nostra realtà (come ulteriori valutazioni, ridimensionamento del pericolo o del danno prospettato, opportunità inaspettate ecc.) e conseguentemente diminuisce la nostra focalizzazione su quella determinata condizione che ci crea disagio. La realtà si “raffredda”, perde valenza e ciò ci consente di approcciarsi ad essa più asetticamente e più pacatamente. Spezzare l'anello del primo giudizio, che imprigiona la nostra capacità di qualificazione del reale, facendocela ritenere l’unica possibile, rende più agevole l'avvio del nostro processo di analisi, liberandolo dai gravami che altrimenti non ce ne farebbero neanche considerare l'esistenza.
Non è mero relativismo, ma approccio pragmatico per leggere gli eventi per quel che sono, senza dover necessariamente procede subito alla elaborazione di un giudizio di responsabilità, a carico altrui o nostro. Ciò dimostra il limite del nostro orizzonte confinato in una gabbia che è tale solo perché, alla fin fine, siamo noi a decidere che lo sia. Queste sono le chiavi per uscirne: eliminare l'elemento personale non per annullarlo, ma per separarlo dal contesto. Da una parte c’è la realtà, il fatto da valutare, dall’altro ci siamo noi, con le nostre pulsioni, interessi, emozioni. Saldare i due aspetti significherebbe legare la nostra personale sorte ad eventi che non dominiamo. Separarli consente una più efficace interazione col reale. Metaforicamente siamo al tempo stesso: medico e paziente, avvocato e cliente, architetto e committente. Per svolgere bene il proprio ruolo, ogni professionista deve lavorare con distacco e competenza ed è esattamente ciò che la nostra condizione richiede nei momenti difficili.
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