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Testi per riflettere

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Il mito dell'io

Di Alan Watts

Da: "Il Tao della filosofia" - Red Edizioni

Inviato da Claudio

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Credo che, se siamo onesti con noi stessi, il problema più affascinante che ci possiamo porre è: "Chi sono io?" Che cosa intendiamo e che cosa sentiamo quando diciamo la parola 'io'? Non penso che vi possa essere una percezione più seducente di questa, così inafferrabile e nascosta. Ciò che sei nell'intimo del tuo essere sfugge all'osservazione allo stesso modo in cui non puoi guardarti direttamente negli occhi senza servirti di uno specchio. Ecco perché esiste sempre un elemento di profondo mistero nella domanda: "Chi siamo noi?" Questo interrogativo mi ha attirato per diversi anni. Ho chiesto a molte persone: "Che cosa intendi con la parola io?" Ho visto che esiste un certo accordo sulla risposta, soprattutto fra la gente della civiltà occidentale: abbiamo, secondo la mia definizione, una concezione di noi stessi in quanto "ego incapsulati nella pelle". La maggior parte di noi percepisce l'io (l'ego, il mio , la fonte della mia coscienza) come un centro di consapevolezza e una sorgente di azioni che risiedono nel mezzo di una borsa di pelle. È curioso come usiamo la parola io. In un discorso comune non siamo abituati a dire: "Io sono un corpo". Diciamo piuttosto: "Io ho un corpo". Non affermiamo: "Io batto il mio cuore", così come enunciamo invece: "Io cammino, io penso, io parlo". Sentiamo che il cuore batte da solo e che non ha niente a che fare con l'io. In altre parole, non consideriamo l'io 'me' come coincidente con il nostro organismo fisico. Riteniamo che sia qualcosa al suo interno: la maggior parte degli occidentali colloca l'io dentro la testa, da qualche parte tra gli occhi e le orecchie, mentre tutto il resto di noi penzola da quel punto di riferimento. In altre culture non è così.
Quando un giapponese o un cinese vogliono localizzare il centro di sé, il primo lo chiama kokoro e il secondo lo definisce shin: cuore-mente. Alcune persone situano il proprio sé nel plesso solare, ma in generale lo immaginiamo dietro agli occhi e da qualche parte tra le orecchie. È come se all'interno della zona superiore del cranio ci fosse una specie di centrale che somiglia al quartier generale dell'Aeronautica a Denver, dove gli addetti siedono in grandi locali, circondati da schermi radar e da ogni sorta di monitor, e controllano i movimenti degli aerei in tutto il mondo. In ugual modo, noi concepiamo noi stessi come una piccola persona all'interno della nostra testa, che indossa una cuffia di ascolto per captare i messaggi dalle orecchie, che ha un televisore davanti a sé per ricevere i messaggi dagli occhi e che è coperta sul corpo da elettrodi di ogni tipo che le inviano messaggi dalle mani e così via. Questa persona si trova dietro un pannello pieno di pulsanti, quadranti, eccetera, e in tal modo riesce, più o meno, a controllare il corpo. Non è però il corpo, perché 'io' sovrintendo solo a quelle che vengono chiamate le azioni volontarie, mentre le cosiddette azioni involontarie mi succedono. Vengo comandato a bacchetta da queste ultime, anche se posso impartire, fino a un certo punto, ordini al mio corpo. Questa è, secondo la conclusione a cui sono arrivato, l'ordinaria concezione dell'uomo moderno di ciò che è il proprio sé.
Osserviamo come i bambini, influenzati dal nostro ambiente culturale, ci chiedono: "Mamma, chi sarei se papà fosse stato un altro uomo?" Dalla nostra cultura il bambino prende l'idea che padre e madre gli hanno dato un corpo dentro il quale, a un certo momento, è stato infilato (il fatto che sia stato concepito o partorito un po' vago). Comunque, in tutto il nostro modo di pensare c'è l'idea che siamo un'anima, una qualche essenza spirituale, imprigionata dentro un corpo. Guardiamo fuori, in un mondo che ci è estraneo e sentiamo, per usare le parole del poeta A. E. Housman: "Io, uno straniero che ha paura di vivere in un mondo non fatto da me". Di conseguenza parliamo del dovere di confrontarci con la realtà, di fronteggiare gli eventi. Diciamo di essere venuti in questo mondo e siamo allevati con la sensazione di essere un'isola di consapevolezza rinchiusa in un sacco di pelle. All'esterno vediamo una realtà che ci è profondamente aliena, nel senso che ciò che è al di fuori di 'me' non è me. Questo fatto crea una fondamentale sensazione di ostilità e di distacco tra noi e il cosiddetto mondo esterno. Quindi continuiamo a parlare di conquista della natura, di conquista dello spazio e vediamo noi stessi come se fossimo schierati in battaglia per opporci a tutto quanto rappresenta l'altro da me. Parlerò più estesamente di questo argomento nel prossimo capitolo, mentre qui voglio esaminare la strana sensazione di essere un sé isolato. Dunque, è assolutamente assurdo dire che siamo entrati in questo mondo. Non è così: in effetti ne siamo usciti! Che cosa credete di essere? Facciamo un esempio: supponete che il mondo sia un albero. Siete per caso una foglia dei sui rami o uno stormo di uccelli arrivati da qualche parte che si è stabilito sopra un vecchio albero morto? Ogni cosa che conosciamo sugli organismi viventi, dal punto di vista scientifico, ci mostra che "cresciamo fuori" da questo mondo, che ciascuno di noi è ciò che si potrebbe definire un sintomo dello stato dell'universo nella sua globalità. Tuttavia, questo pensiero non fa parte del nostro senso comune.
Per molti secoli l'uomo occidentale è stato sotto l'influenza di due grandi miti. Quando uso il termine "mito" non intendo necessariamente dire "falso". La parola mito richiama una grande idea nel cui ambito l'uomo cerca di trovare il significato del mondo; può essere un concetto, oppure un'immagine.


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