Testi per Riflettere
Volevo essere una farfalla.
Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere
Di Michela Marzano - Gennaio 2012
Brani tratti da: Volevo essere una farfalla. Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere, di Michela Marzano, Mondadori, 2011.
[…] Ma quando si soffre, si è sempre soli. È come se l'altro percepisse il dolore da lontano e volesse proteggersene. Lo sente, ma lo nega. Se ne allontana. Torna al proprio lavoro. Gli affari. La politica. Il giornale... Come per evitare il rischio di precipitare anche lui in un buco nero.
Soprattutto quando non riesce a capire cosa succede, quelle lacrime improvvise, quel brusco «non è niente», quella paura che si spalanca...
[…] Arrivata in Normale, è stato il trionfo del dovere. Mi ricordo che nei corridoi si raccontava che il «più bravo» avesse fatto sei esami il primo anno. Io, allora, ne ho fatti nove. E in due anni li ho finiti tutti.
E mi sono laureata in «tre anni e una sessione». Con una tesi in due volumi sul rapporto tra «essere» e «dover essere».
Quei problemi logici sull'impossibilità o meno di derivare le proposizioni normative da quelle descrittive mi divertivano. La logica mi rassicurava. Tutto era chiaro. Limpido. Cristallino.
E poi era bello vedere che tra l'essere e il dover essere non c'era alcun rapporto. Che potevo anche non «essere» la persona giusta e perfetta che papà avrebbe voluto che fossi. Ma che potevo diventarlo. Perché il «dovere» implica il «potere», come mostrava Kant. Quindi bastava «dovere». Come volevasi dimostrare.
È buffo come l'inconscio sia talvolta a fior di pelle... e si insinui nei meandri più reconditi della mente senza che nessuno se ne accorga... meno che mai i diretti interessati.
È buffo e affascinante al tempo stesso. Perché visto così, da lontano, chi poteva immaginare che la mia passione per la logica nascondesse il bisogno di sapere che non si può fare nulla di fronte al fascino discreto del «dover essere»?
[…] La fame è terribile. Ma io, per fortuna, non so più cosa sia. Non perché non abbia più fame. Al contrario. Ho fame come tutti. Ma quando ho fame, mangio. Almeno ora. Che ho riscoperto l'equilibrio tra fame e sazietà. Che riesco a sapere se ho voglia di dolce o di salato. Che posso di nuovo nutrirmi senza sentirmi in colpa. Che posso mangiare due porzioni di torta al cioccolato senza fare il calcolo delle calorie ingurgitate o del numero di vasche in piscina che dovrei eventualmente fare per smaltirle tutte.
Anche se l'anoressia è solo un sintomo, e in quanto sintomo è solo la punta dell'iceberg, il mio sintomo non c'è più. E non è poco. Visto che è proprio nel sintomo che mi sono incastrata per anni.
Anni persi a non fare altro che lottare con la fame. Parlare della fame. Convivere con la fame. Anni passati a punirmi per ogni caloria di troppo che avevo la debolezza di ingoiare. Anni persi a mangiare e vomitare tutto...
Perché tra il «niente» e il «tutto» non c'era più alcuna differenza.
[…] Senza rendermene conto, ho vinto la medaglia d'oro in «anticipazione».
L'anticipazione. Utilissima per farsi accettare in società. L'anticipazione. Strategia vincente nel lavoro. L'anticipazione... Una catastrofe!
Perché a forza di anticipare non sono più stata capace di capire quello che desideravo veramente... i miei bisogni, le mie contraddizioni...
Mi sono costruita un «falso sé» per adattarmi all'ambiente che mi circondava e sentirmi accettata. Mi sono sottomessa per sopravvivere. Mi sono organizzata per tenere a bada il mondo. E strada facendo mi sono dimenticata che, in ognuno di noi, esiste una parte inviolabile e sacra. Inaccessibile. Che nessuno può conoscere. Anche quando ci si appoggia su una frattura, un magma in ebollizione, un difetto fondamentale...
«Se sta bene agli altri, allora sta bene anche a me!»
Tutto pur di non «pesare» sugli altri. Tutto pur di non essere un «peso»...
[…] Il dottor F. […] cercava, con le migliori intenzioni del mondo, di rintracciare l'origine del mio malessere.
Ma forse il problema era proprio lì, nel cercare a tutti i costi di spiegare, di analizzare, di capire. Perché a forza di scardinare tutte le certezze che mi portavo dietro, si era rotto l'argine che mi separava dalle tenebre.
Talvolta il sintomo è anche questo. Protegge da qualcosa di talmente profondo e pericoloso che non si può rischiare di portarlo allo scoperto troppo presto. Può sembrare assurdo, ma il rituale del «mangiare e vomitare» dà l'illusione di «controllare» la situazione: è meglio restare prigionieri della dipendenza dal cibo, che lasciarsi andare all'angoscia terribile dell'assenza irreparabile...
«Non riesco a far altro che mangiare e vomitare.»
Mi sedevo in poltrona di fronte all'analista. Ed era sempre la stessa storia. Il cibo. Ormai onnipresente. Come se nella vita non ci fosse nient'altro.
«Perché? Che cos'ha di tanto affascinante questo rituale ossessivo?»
Ogni volta le stesse domande. Perché il dottor F. voleva delle risposte. Dei perché. Anche solo una parola cui potersi aggrappare.
«Quando mangio e vomito, tutto finisce lì. Non c'è né prima né dopo. Non c'è nemmeno bisogno di impegno...»
«Ma allora potrebbe mangiare e basta. Solo quando ha fame.»
«Se dopo non avessi i sensi di colpa lo farei. Il vomito li annulla. Solo così mi sento tranquilla.»
«Lei utilizza il rituale del vomito per non soddisfare le aspettative di chi la circonda senza dover però, nello stesso tempo, mettere in discussione la dipendenza che ha con suo padre. Proprio mentre avrebbe bisogno di luce e chiarezza per fare delle scelte, prendere delle decisioni.»
Chissà! Forse si sono tutti passati la parola. Come se il problema delle anoressiche fosse sempre lo stesso: utilizzare il cibo come un diversivo, per non darsi la possibilità di «scegliere», per evitare di «costruire il rapporto con l'altro nell'ambito di un'organizzazione più realistica e costruttiva della propria identità», come si legge in uno dei tanti libri dedicati alla questione...
Intendiamoci bene. Non sto dicendo che sia falso. E senz'altro vero. Ma detto così, non vuol dire nulla. Chi è veramente capace di costruire un rapporto con gli altri a partire da una concezione costruttiva della propria identità? E poi che cos'è l'identità? Che cosa significa che la si deve «organizzare» in modo costruttivo?
Mangiare tutto, subito, sbriciolando il presente. Vomitare tutto, subito, annullando il passato. Non più controllo, ma paralisi. Il fascino discreto della morte. Del nulla... Per punirsi di qualcosa. Vendicarsi. Ingoiare le proprie incertezze. Vomitare rabbia a fiotti. Finché il corpo, esausto, non ne può più...
E ogni volta che finisce tutto, ritrovarsi in frantumi... Altro che identità!
[…] Mi ci sono voluti più di dieci anni di psicanalisi per imparare a districarmi all'interno del paesaggio familiare. Quando sono arrivata in Francia. Appoggiandomi proprio su quello che avevo imparato a fare. Ricominciando a lavorare come prima. Mettendo tra parentesi la decostruzione progressiva del passato e del mio essere.
Mi sono dovuta riagganciare al «dovere» che conoscevo a memoria. E adagio adagio, senza rendermene conto, sono slittata da un piano all'altro. Non più il cibo. Non più il peso. Non più l'ideale... La realtà.
Sì, la realtà. Proprio quella! Quella che «sporca», «tinge», «fa ingrassare». Quella fatta di frustrazioni e impotenza. D'imperfezioni e fragilità...
Quando ti accorgi che fare l'amore può essere deludente... che amarlo può farti soffrire... che smettere di amarlo è possibile...
Non si trattava di accettare il mondo esterno, perché quello lo avevo sempre accettato. Fin troppo. La vera difficoltà era accettare me stessa... anche se non ero la più brava... anche se papà non era d'accordo con me... anche se sbagliavo, perdevo, cadevo, piangevo...
Basta allora con tutti questi luoghi comuni che dicono che «le anoressiche» rifiutano il mondo, mentre «le bulimiche» si lascerebbero andare al magma delle pulsioni!
Non esistono le anoressiche e le bulimiche. Esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa. Che non sanno più bene come e quando «aprirsi» o «chiudersi» al mondo.
Che cercano solo di proteggersi... perché perdono il controllo... perché gli altri le invadono... perché non sanno quello che desiderano... perché vorrebbero essere felici... perché...
«Controllare» mi tranquillizzava. Avevo la sensazione di proteggermi dalla certezza di dissolvermi perché, prima o poi, tutto sarebbe crollato e mi sarei ritrovata di nuovo sola. Piccola. Indifesa.
Allora «controllavo» tutto. Soprattutto l'amore. Nonostante il bisogno di essere amata. Perché la paura di non esserlo era troppo forte. E allora era meglio far finta di nulla…
[…] In una lettera a suo marito, Hannah Arendt scrive che è solo dopo averlo incontrato che ha veramente capito il significato della parola «autonomia». Perché è solo grazie all'amore che ha avuto accesso a quella parte intima di sé che ignorava ancora. Scoprendo la gioia della dipendenza, ha potuto misurare l'importanza dell'autonomia.
È un brano che porto sempre con me. E allora, prima di continuare la discussione, lo leggo. Anche se io, per capirlo veramente, ho dovuto leggerlo almeno un centinaio di volte…
Come si può essere al tempo stesso autonomi e dipendenti? Eppure è proprio così. È solo quando si accetta la dipendenza che si diventa liberi. Perché si accetta quella parte di fragilità che ci portiamo dentro. Perché si accetta di non «avere tutto» e di non «essere tutto». Perché si capisce che l'altro «ha qualcosa» che noi non abbiamo, «è qualcosa» che noi non siamo...
Per anni, la storia della mia vita è stata l'esatto contrario. Avevo talmente tanta paura della dipendenza che facevo «come se» non avessi bisogno di niente e di nessuno.
E lo mettevo in scena col cibo. Come se non avessi bisogno di mangiare. Come se il cibo mi fosse indifferente. Come se...
E con l'amore facevo lo stesso. Come se non avessi bisogno di lui. Come se l'abbandono fosse immediato. Come se non potessi evitarlo. Perché niente era definitivo. Tutto andava e veniva.
Soprattutto l'amore, anche quando si fa di tutto per meritarlo. Perché non c'è proprio niente da meritare. E nonostante tutto, lui se ne può sempre andare via…
Ora so che lui se ne può andare. Ora so che se scompare perdo tutto. Ora so che, anche se perdo tutto, sopravvivo... E allora lascio sempre la porta aperta. Così lui può andarsene quando vuole. E come per miracolo, da quando la porta è aperta, lui resta.
A modo suo, certo. Perché ognuno di noi è diverso. E non può reagire esattamente come vorremmo che reagisse. Esattamente come noi non reagiamo mai esattamente come l'altro vorrebbe che reagissimo.
È la magia dell'amore. Sempre insieme e sempre separati. Come se tutto dipendesse da lui. Come se fossi sempre sola.
L'unica cosa che vale, nella vita, è la ricerca della verità. Quel germoglio di verità che emerge quando sono insieme a lui. Quelle rare ore rubate alla routine.
Quando mollo tutto il resto. Quando sono libera... Perché, in fondo, l'amore e la verità sono la stessa cosa. Hanno in comune l'attesa e la sorpresa. La ricerca e l'accettazione.
Se non si impara a pensare «con» l'altro, niente ha più senso.
[…] In fondo, si vive sempre e solo quello che si vuole vivere. È da lì che si deve ripartire. Per desiderare quello che si ha già. Senza passare il tempo a sperare che forse un giorno tutto sarà diverso. Perché tutto è già diverso, non appena si fa la pace con i propri ricordi. Quelli che smetteranno di accompagnarci solo quando avremo ritrovato quei profumi e quei rumori, la fine della fatica, l'inizio della gioia.
Solo quando avremo la forza di tradire quello che non ci è stato trasmesso con amore, ma ordinato, con la minaccia implicita di essere un giorno diseredati.
L'ho capito pian piano. Anzi. Forse dovrei dire che, pian piano, l'ho percepito. Proprio mentre scoprivo che ero capace di ascoltare il «se lo fai, sbagli» di mio padre senza scompormi. Proprio mentre cominciavo lentamente a farlo. Nonostante tutto.
[…] Come si fa a smettere di rincorrere qualcosa che tanto poi non si ottiene mai? Come si fa ad accettare veramente l'idea che il senso della propria vita è già lì, semplicemente perché si vive, e che non c'è bisogno di lottare ogni giorno per avere il diritto di esistere?
Solo oggi, a distanza di anni, capisco perché un giorno la mia analista mi ha detto che il mio «mito fondatore» era quello di Sisifo. Spingere un macigno su per una montagna per poi vederlo precipitare in basso appena raggiunta la cima e dover ricominciare tutto da capo.
Aveva ragione lei. Non bastava mai. Tutto era nello sforzo. Scalare la montagna. Andare sempre più in alto. Mettercela tutta. Prima di vedere il masso precipitare a valle e ricominciare di nuovo.
Ognuno di noi riproduce qualcosa. È incastrato nella ripetizione ossessiva di quello che conosce a memoria e che lo fa soffrire ma a cui, nonostante tutto, non riesce a rinunciare. Magari nella speranza che un giorno la storia finirà in modo diverso. E che arrivati in cima alla montagna, questa volta, il macigno non precipiterà più.
Ma nella vita le cose sono sempre più complicate. Il macigno continua a precipitare. E la soluzione è altrove. Perché si tratta sempre e solo di rompere il cerchio e di guardare da un'altra parte. Stare di fronte alla montagna e decidere di lasciar perdere e di non scalarla... […]
Michela Marzano
Da: Volevo essere una farfalla. Come l'anoressia mi ha insegnato a vivere, Mondadori, 2011.
Michela Marzano è un'affermata filosofa e scrittrice, un'autorità negli ambienti della società culturale parigina. Dalla prima infanzia a Roma alla nomina a professore ordinario all'università di Parigi (René Descartes), passando per una laurea e un dottorato alla Normale di Pisa, la sua vita si è svolta all'insegna del «dovere». Un diktat, però, che l'ha portata negli anni a fare sempre di più, sempre meglio, cercando di controllare tutto. Una volontà ferrea, ma una costante violenza sul proprio corpo. «Lei è anoressica» le viene detto da una psichiatra quando ha poco più di vent'anni. «Quando finirà questa maledetta battaglia?» chiede lei anni dopo al suo analista. «Quando smetterà di volere a tutti i costi fare contente le persone a cui vuole bene» le risponde. E ha ragione, solo che è troppo presto. Non è ancora pronta a intraprendere quel percorso interiore che la porterà a fare la pace con se stessa.
«L'anoressia non è come un raffreddore. Non passa così, da sola. Ma non è nemmeno una battaglia che si vince. L'anoressia è un sintomo. Che porta allo scoperto quello che fa male dentro. La paura, il vuoto, l'abbandono, la violenza, la collera. È un modo per proteggersi da tutto ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire. Io non sono morta. Oggi ho quarant'anni e tutto va bene. Perché sto bene. Cioè... sto male, ma male come chiunque altro. Ed è anche attraverso la mia anoressia che ho imparato a vivere. Anche se le ferite non si rimarginano mai completamente.
In questo libro racconto la mia storia. Pensavo che non ne avrei mai parlato, ma col passare degli anni parlarne è diventata una necessità. Per mostrare chi sono e che cosa penso. Perché, forse, senza quella sofferenza non sarei diventata la persona che sono oggi. Probabilmente non avrei capito che la filosofia è soprattutto un modo per raccontare la finitezza e la gioia. Gli ossimori e le contraddizioni. Il coraggio immenso che ci vuole per smetterla di soffrire e la fragilità dell'amore che dà senso alla vita.»
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Nella rubrica "Riflessioni sul Senso della Vita" intervista a Michela Marzano
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