Testi per Riflettere
L'esperienza del non sè (il trascendimento dell'Io)
di Bernadette Roberts - Ed. Astrolabio-Ubaldini
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Note
Bernadette Roberts è stata per 9 anni suora carmelitana.
Bernadette Roberts usa il termine "sé" per indicare l'ego, l'io psicologico.
La mia passata esperienza mi aveva portato a conoscere intimamente vari tipi e livelli di silenzio. C’è un silenzio interiore; c’è un silenzio che discende dall’esterno; un silenzio che ferma l’esistenza e un silenzio che inghiotte l’universo intero. C’è un silenzio del sé e delle sue facoltà: volontà, pensiero, emozione. C’è un silenzio in cui non c’è nulla, un silenzio in cui c’è qualcosa; c’è infine il silenzio del non-sé e il silenzio di Dio. Se esistesse un sentiero su cui poter segnare le tappe della mia esperienza contemplativa questo sarebbe il sentiero sempre più vasto e profondo del silenzio.
In un’occasione, tuttavia, è sembrato che questa strada fosse giunta al termine: è stato quando sono penetrata in un silenzio da cui non sarei mai totalmente riemersa. Ma, prima di iniziare il racconto, devo fare una premessa: in precedenza, in alcune occasioni, ero sprofondata in un silenzio che pervadeva ogni facoltà in maniera così assoluta da provocarmi una sottile sensazione di paura. Era la paura di essere inghiottita, di perdermi, di essere annullata e cancellata, forse per sempre. In quei momenti, per tenere lontano il terrore, con un movimento interiore abbandonavo il mio destino a Dio. Era come un pensiero, un atto di volontà, una sorta di proiezione. E ogni volta che facevo questo, il silenzio si rompeva e io gradualmente tornavo al mio sé abituale e alla sicurezza. Finché un giorno le cose andarono diversamente.
Nella strada in cui abitavo, poco oltre casa mia, c’era un monastero sul mare, e i pomeriggi in cui potevo liberarmi e uscire mi piaceva trascorrere qualche ora da sola nel silenzio della sua cappella. Quel pomeriggio non era diverso dagli altri. C’era come ogni volta un silenzio diffuso, tentacolare, e come ogni volta io attesi che l’affacciarsi della paura lo rompesse. Ma in quest’occasione la paura non venne. Forse per l’abitudine dell’attesa o perché la paura era sotto controllo, per qualche secondo provai un senso di suspense, di tensione, quasi in attesa che la paura mi toccasse. Durante quei secondi di attesa, provai la sensazione di essere in bilico sull’orlo di un precipizio, o in equilibrio su una corda sottile, avendo il noto (me stessa) da un lato e l’ignoto (Dio) dall’altro. Un movimento di paura avrebbe voluto dire piegare verso il sé e il conosciuto. Sarei passata, questa volta, o sarei ricaduta nel mio sé, come sempre? Dal momento che non era in mio potere muovermi o scegliere, capii che la decisione non era mia; dentro di me era tutto calmo, silenzioso e immoto. In questa calma, non avvertii il momento in cui la paura e la tensione dell’attesa mi abbandonarono. Immobile, continuai ad aspettare un movimento proveniente dall’esterno e quando questo non venne restai semplicemente in una grande calma.
La suora stava agitando rumorosamente le chiavi della cappella. Era l’ora di chiudere, e l’ora di andare a casa, a preparare la cena ai ragazzi. In passato, era sempre stato difficile dovermi improvvisamente strappare a un silenzio profondo: le mie energie in quel momento erano al loro minimo e muovermi richiedeva altrettanto sforzo che sollevare un peso morto. Questa volta invece improvvisamente mi accadde di non pensare ad alzarmi ma di farlo, semplicemente. Penso che non fu una cosa da nulla quello che imparai, perché lasciai la cappella come una foglia portata dal vento. Ero sicura che una volta fuori avrei ritrovato le mie normali energie e il controllo della mia mente, ma quel giorno la cosa fu problematica: ricadevo continuamente nel grande silenzio. Andare verso casa fu una costante lotta contro la completa incoscienza, e quando cercai di approntare la cena fu come voler smuovere una montagna.
Per tre logoranti giorni, non feci che lottare per rimanere sveglia e tenere a bada il silenzio che a ogni secondo minacciava di sopraffarmi. L’unico modo in cui riuscii a sbrigare un minimo di faccende domestiche fu tenendo ostinatamente in mente quello che stavo facendo: adesso sbuccio le carote, adesso le taglio, adesso prendo una pentola, adesso metto l’acqua nella pentola, e così via, fino a quando ero così esausta che dovevo correre a letto. Non facevo in tempo a mettermi giù che sprofondavo nel vuoto. A volte mi sembrava di essere stata fuori di coscienza per ore, quando invece erano passati solo cinque minuti: altre volte avrei giurato che fossero passati solo cinque minuti quando invece si era trattato di ore. In quel vuoto non c’erano sogni, né la coscienza di ciò che mi circondava, non c’erano pensieri né esperienze: non c’era assolutamente nulla.
Il quarto giorno, sentii il silenzio alleggerirsi, così che potei stare sveglia con minore sforzo e, di conseguenza, trovai il coraggio di andare a fare la spesa. Non so come accadde, fatto sta che a un tratto mi trovai a essere scossa da una signora che mi chiedeva se stessi dormendo. Le sorrisi, cercando di orientarmi, poiché sul momento non avevo la più pallida idea di come fossi finita in quel negozio o di cosa stessi facendo. Per cui, dovetti ricominciare tutto da capo: adesso spingo il carrello, adesso devo prendere delle arance, e via dicendo. La mattina del quinto giorno, non riuscii a trovare le pantofole in nessun posto, ma, al momento di preparare la colazione per i ragazzi, aprii il frigo e ci trovai qualcosa di decisamente assurdo.
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