Riflessioni sulla Tecnosophia
di Walter J. Mendizza - indice articoli
Dall'oscurità alla luce
Dicembre 2016
Era il 14 marzo del 1980. Venerdì. In ufficio si lavorava solo fino alle due, poi incominciava il fine settimana per noi assicuratori. Un fine settimana che prometteva bene e che già pregustavo. L’aria era fresca e il cielo terso. Fuori soffiava una bora leggera. Ad un tratto sento Gabriele, il più alto in grado dell’ufficio, che spiegava a qualcuno con voce assai forte e sicura: “No, no. Non è la bora che spazza il cielo dalle nuvole. Le nuvole sono a migliaia di metri d’altezza e la bora soffia sì e no fino ai 600 metri. Lo dico sempre ai triestini che su questo sono incredibilmente testardi: il fenomeno del cielo pulito quando c’è bora non è dovuto alla bora, ma ad altre motivazioni …”.
Gabriele ricopriva l’incarico di procuratore speciale, ed era anche un esperto in meteorologia. Sotto di lui c’era Mario, che era funzionario, poi c’era Roberto capoufficio, poi venivamo noi impiegati e infine due segretarie Annamaria e Vivien. Gabriele e Mario erano entrambi romani, avevano lavorato alla Riunione Adriatica di Sicurtà di Milano per poi trasferirsi a Trieste, sempre in RAS ma alla Direzione Estero, nel bellissimo palazzo situato in centro, in uno slargo chiamato Piazza della Repubblica, a metà di via Mazzini. Il palazzo è di inizio del Novecento e si trova all’interno del borgo Teresiano, un borgo storico di Trieste chiamato così in onore dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria che fece costruire il borgo nel diciottesimo secolo.
Nel momento in cui Gabriele tuonò il suo concetto sull’indipendenza tra bora e nuvole, io stavo guardando dalla finestra perché aspettavo che il computer stampasse alcuni tassi di mortalità che mi servivano per fare una quotazione ai dirigenti del Gruppo Olivetti. Dall’altra stanza, sentii una delle segretarie, Vivien, fare una battutaccia ad alta voce, dicendo qualcosa contro i romani che vengono ad insegnare ai triestini cos’è la bora. Ci scambiammo una occhiata di sottecchi con Roberto e ci venne da sorridere.
I tassi con le probabilità di morte insieme ai corrispondenti premi, uscivano dalla stampante pigramente. Ogni riga stampata faceva il suono di una cornacchia. Non esistevano stampanti a laser. Avevo controllato tre o quattro righe a caso ed i calcoli erano giusti, così mentre aspettavo che il computer terminasse tutta la quotazione mi misi a guardare le due statue che stanno sull’edificio di fronte, nel palazzo Terni-Smolars. Con la bora una di esse moveva leggermente un braccio, tanto che sembrava ci salutasse. Anche la mattinata trascorreva lentamente e non lasciava presagire alcuna sorte avversa; tutto sembrava filare liscio, tra una settimana sarebbe cominciata la primavera.
Del tutto inconsapevole di quello che si stava preparando, lavoravo duramente per il prossimo ciclo di insensibilità e di incoscienza. Intorno alle 11 ricevetti una telefonata di mia madre. La cosa mi sembrò strana, non mi chiamava mai al lavoro. Ci volle qualche secondo per rendermi conto che stava singhiozzando. A mala pena riuscivo a capire. Mi disse che le avevano trovato un tumore in testa.
Non seppi dire niente. Solo ottuse parole di consolazione passeggera: “Vedrai che non è niente…”. Lei continuava a singhiozzare. Ed io: “non ti preoccupare… sicuramente non è come ti hanno detto”. Riattaccò. Le avevo parlato in spagnolo per non farmi capire dagli altri. Usavamo fare così a casa, dato che i miei genitori emigrarono negli anni Cinquanta ed io e mio fratello siamo nati a Montevideo e là siamo rimasti fino agli inizi degli anni ’70. Tra di noi era rimasta l’abitudine di parlare ancora in spagnolo.
Probabilmente in quel momento io dovevo essere sconvolto. Vivien entrò nella stanza e guardandomi mi chiese se avevo per caso visto un fantasma. Non seppi cosa dirle e abbozzai un sorriso. Nei minuti che seguirono cercai davvero di convincermi che non poteva essere niente. Mamma si era sicuramente sbagliata, e se non lei il medico. Come se queste cose non ti possano accadere. Il mio lavoro era quello di calcolare le probabilità di morire per fare i tassi assicurativi. Ma muoiono sempre gli altri. Mamma era ancora giovanissima, aveva appena compiuto 49 anni. Aveva tutti i capelli neri. Allontanai subito il pensiero della morte.
Tuttavia da qualche tempo mamma aveva giramenti di testa. Avevamo pensato fosse dovuto alla menopausa. Anche i medici che aveva consultato le dicevano che si trattava probabilmente di questo. I giramenti di testa si mescolavano alle vampate. I sintomi erano quelli. Uno di essi, sembrava un caldarrostaio, l’ascoltava pazientemente e poi emetteva il giudizio climaterico. Nessun dubbio. Nessuna ricerca di diagnosi alternativa. Tutto normale. Nessuna riflessione a più piani, nessun tracciato che rivestisse una volontà di scoprire quale fosse il problema reale. Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata.
Dopo un anno e più che si andava avanti con la storia dei capogiri e delle vampate, una TAC scoprì la vera ragione dei giramenti di testa. Un tumore grosso come un pisello, ma cresciuto alla base del cervelletto. Fu il giorno che glielo scoprirono che mi chiamò.
Si trattava di una rogna gigante alla quale, ancora una volta, né io né mio fratello e tanto meno mio padre fummo in grado di prestare la giusta attenzione. La prima cosa che tutti noi facemmo fu consolarci pensando che la piccola dimensione del tumore significava averlo scoperto in tempo. Ma non era così. Non si trattava di un tumore qualsiasi: un pisello estraneo messo nel cervello sarebbe stato molto meglio, ma che ne capivamo noi? Il cervelletto, invece, è una parte fondamentale del sistema nervoso centrale. Coordina le attività motorie. Rappresenta il dieci percento del cervello ed è suddiviso in lobi, in fessure, in lamine, il tutto per aumentare la superficie cerebellare. Un pisello lì dentro è come un’albicocca nel cervello. Anzi, è peggio ancora.
Giovani medici, barboncini dal pensiero unico conformista, stavano tutti attorno al luminare come simpatico repertorio di una trasparenza resa opaca dal linguaggio tecnico incomprensibile: l’area paravermina, la fossa endocranica posteriore, gli emisferi cerebellari… Noi stavamo là, nella stanza di ospedale, cercando tra occhiate sbiadite e gelide luci al neon una traccia rasserenante. Che non c’era. Nelle loro facce smussate, si disegnavano solo sguardi di impermeabilità anfibia. Tuttavia ci sembrava ugualmente di poter intravvedere, alle volte, qualcosa di confortante. O almeno così volevamo credere. La speranza è l’ultima a morire ma alla fine muore anch’essa, come tutte le altre cose.
Io mi ero laureato due anni prima con la lode in Economia e Commercio. In qualche modo fungevo un po’ da intellettuale della famiglia. Mio fratello studiava ingegneria elettronica. Anche lui si sarebbe laureato con lode, l’unico del suo corso. Ma nonostante questa ottusa cultura tecnica, nulla potemmo fare contro il destino: la morte aveva messo le sue uova a casa nostra. Mia madre non riuscì a vedere entrambi i suoi figli laureati. Morì il 20 dicembre del 1980. E morì in un modo che ancora oggi, a distanza di vari decenni mi appare incomprensibile, assurdo. Mi sembra incredibile di non essermi reso conto dell’immane tragedia che si stava abbattendo in casa nostra. Con quanta leggerezza pensavamo che dopo l’operazione tutto sarebbe tornato normale. Ridevamo e scherzavamo con lei sul fatto che la avrebbero rasata a zero, come un uovo. Ci illudevamo e facevamo castelli in aria sul suo ritorno a casa, il cane che l’aspettava. Ma si sa, i castelli in aria sono i più costosi da demolire.
La prima operazione non riuscì. Fu la peggiore. Il macellaio fece una strage. Ci andò dentro in modo brutale tagliando tutto per arrivare a quella maledetta cicerchia. Un macello. Io non lo sapevo ma ci sono chirurghi specialisti per ogni parte del corpo. Quelli che operano il cervello, anche se sono competenti non devono necessariamente essere altrettanto capaci di operare nel cervelletto. Anzi. Però noi eravamo ignari e ignoranti e ci fidammo del primario che usò mia madre come una cavia da laboratorio. Tralascio il calvario che seguì dopo. Una Via Crucis di dolore alla ricerca dello specialista ad hoc. Le varie operazioni che la resero sempre più debole.
Il tempo che all’inizio sembrava scorrere lento, dispiegò tutta la sua potenza. Inesorabile e assoluto. Era come quando si gira una clessidra. All’inizio sembra che la sabbia non si muova. Invece è la dissoluzione di un impero. Verso la fine, gli ultimi granelli vanno via in un lampo. Come la vita.
Quando finalmente trovammo la persona giusta, il primario giusto, quello che operava esattamente quel tipo di tumori in quella parte del corpo… fu troppo tardi. Mia madre morì prima dell’ennesimo tormento. Sono passati parecchi decenni dalla sua morte e ancora oggi il ghiaccio della mia anima continua a sciogliersi in segreto. Come il primo giorno.
Dicono che ogni uomo ha un suo compito nella vita e non è mai quello che egli avrebbe voluto scegliersi. Forse è vero. L’essenziale è invisibile agli occhi. Me ne sono reso conto subito. Ma la cosa che più mi pesa è non aver potuto aiutarla. Chissà cosa pensava quando era sola? Tutte quelle lunghe notti. Perché non abbiamo mai parlato veramente invece di aggrapparci stupidamente all’idea vana che sarebbe andato tutto bene? L’errore più grande che si possa commettere è quello di non far niente perché si può fare troppo poco. In effetti, potevo fare poco e perciò non ho fatto niente. Così persi mia madre. Mi fu tolto un frammento di infinito. Porto ancora dentro la ferita di non aver potuto e saputo esserle vicino. Vorrei poterle dire quanto mi manca, vorrei parlare con lei. E a volte cercavo di farlo, quando andavo in quel luogo sgraziato che si chiama cimitero. Il posto meno appropriato del mondo per entrare in comunione con chi non c’è più. Ogni volta che ci penso, il cuore fonde come cera nel mio petto.
Ero ormai avvezzo a trascinarmi questa pena infinita nell’anima quando, qualche anno fa, mentre tornavo in aereo dal Canada dove ora vive mio fratello, mi imbattei in una rivista che raccontava una vicenda che mi incuriosì molto. Vi era un’intervista ad una signora che parlava di suo marito morto qualche mese prima e che era sempre con lei. La signora parlava del diamante che si era appena fatta fare dalle ceneri di cremazione di suo marito e del colore azzurro che le ricordava tanto il colore dei suoi occhi. Da quel momento non feci altro che pensare a quella circostanza. Ma come era possibile? Un diamante dalle ceneri? In effetti lo era. E così cominciai a cercare di capire che cos’è un diamante, come si forma, cos’è il carbonio, perché si trova nelle ceneri di cremazione.
In realtà si tratta di un processo semplice anche se altamente tecnologico. È lo stesso processo che segue la natura per creare i diamanti, un diamante vero in tutti i sensi, con le stesse caratteristiche dei diamanti naturali, ma proveniente dalla persona amata.
Le ceneri umane contengono carbonio, elemento fondamentale alla vita. Un processo chimico, toglie dalle ceneri tutti i sali e gli altri elementi estranei lasciando solo carbonio. Poi gli atomi del carbonio vengono sottoposti a temperatura e pressione elevatissime. In questo modo si cristallizzano dando luogo al diamante. Una preziosa forma di sepoltura.
Nel dicembre del 2010 terminavano i 30 anni di sepoltura di mamma. Il funzionario della Divisione Servizi Funebri cercò di convincermi a rinnovare la sepoltura per altri 10 anni. Ma io avevo in mente un’altra forma di sepoltura: volevo che da quel lungo periodo di buio, mamma ritornasse alla luce. Sono certo che così avrebbe voluto anche lei. Perciò assieme a mio fratello decidemmo di cremarla: volevamo averla con noi.
L’iter burocratico per raggiungere questo risultato è stato piuttosto complicato e lungo. Viste le difficoltà che ho avuto con mamma, vorrei evitare, quando arriverà il mio momento, che i miei figli abbiano problemi riguardo alla scelta della forma di sepoltura; perciò ho deciso di iscrivermi alla Socrem, aggiungendo a mano vicino al riquadro della dispersione, che desideravo essere trasformato in diamante. Come mamma, non amo molto l’oscurità, preferisco la luce.
Il processo di trasformazione delle ceneri in diamante non è un processo veloce. Dura qualche mese. Però questi mesi di attesa creano uno spazio interiore per il recepimento del diamante. Sono certo che quell’angoscia che si annida nel profondo della mia solitudine, per non aver saputo starle vicino quando ne aveva bisogno, adesso con la sua ritrovata presenza, mi sarà più facile scacciarla. Sono certo che sarà più semplice per me lasciare che emergano quegli interrogativi che ho cercato di rimuovere e che ancora oggi si addentrano nei meandri della mia anima.
Adesso mamma sta sempre con me. Il suo diamante è il mio santuario della memoria. Un ponte che mi unisce a lei, al suo sogno eterno, che mi riporta all’essenziale, che mi infonde una dimensione senza tempo che mi profuma la vita e mi rinfresca le giornate. Sento che mi riempie l’anima e colma il desiderio di eternità nascosto nel mio cuore.
Walter J. Mendizza
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