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Riflessioni sul Senso della Vita

Riflessioni sul Senso della Vita

di Ivo Nardi

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Riflessioni sul Senso della Vita
Intervista a Valerio Magrelli

Ottobre 2013

 

Valerio Magrelli. Poeta, traduttore, saggista, critico letterario, è ordinario di Letteratura francese alle Università di Cassino e Pisa. Nel 1993 ha assunto la direzione della serie trilingue della collana Einaudi "Scrittori tradotti da scrittori", ottenendo dal presidente della Repubblica, nel 1996, il Premio nazionale per la traduzione. In virtù della sua attività letteraria - che lo pone fra gli autori all'avanguardia della poesia italiana - Valerio Magrelli ha ottenuto molti premi letterari. Nel 2003 l'Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il Premio Antonio Feltrinelli per la poesia italiana. Tra i suoi lavori più recenti: Geologia di un padre, Einaudi, 2013, vincitore del Premio Mondello e finalista al Premio Campiello. Collabora alle pagine culturali di «Repubblica». Intervista 15 giugno 2013.


1) Normalmente le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte; difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo. Cos’è per lei la felicità?

Vorrei rispondere con una poesia che reca un occhiello del grande autore inglese Philip Larkin:

 

Elegia

 

L'uomo passa all'uomo penuria.

Si approfondisce come un'insenatura.

Esci prima che puoi,

E non aver figli tuoi.

 

                              Philip Larkin

 

Se tutto ciò che cresce e brucia è brace,
amore è visione del rogo.
Pensa all'estate,
che nasce dissanguandosi
in una sorridente emorragia di luce.
Ciò che ti è caro muore, ciò che muore
ti è caro, se qualcosa ti è caro, è
perché muore. Ed ecco il corollario:
"Ciò che ti è caro, è solo la sua morte".
E' sera, nella stanza dei miei figli.
Disteso accanto a loro, li ascolto cinguettare.
Un bosco al buio. Posano
sui miei rami il peso caldo e vivo della voce,
un peso-volo trepidante.
O devo credere che siano soltanto le punte
incandescenti di un fuoco mezzo spento,
crollato, mezzo freddo, di un tizzone
già nero e muto, già muto,
mezzo morto?

 

Nota. Questa poesia nasce dal terrore che accompagna ogni felicità, dalla sensazione della sua spaventosa vulnerabilità. Quanto ai versi di Larkin, che ho ritradotto, mi seguono da anni: ho deciso di impiegarli come esergo perché ai miei occhi indicano il divario tra ciò che sarebbe stato giusto e ciò che invece è stato vero.

 

Adoro Larkin, tuttavia, la risposta che forse mi ha più colpito si trova in una lettera di Manzoni, nella quale si spiega come la felicità coincida con il senso della sua perdita. Per Manzoni (almeno da come ricordo questo passaggio), felicità diventa sinonimo di vulnerabilità, come se nel momento della realizzazione, del desiderio, ci aprissimo al mondo scoprendo il fianco. Questo è per me un sentimento vivissimo: nella felicità si compie il nostro anelito all’esaudimento, ma proprio ciò dischiude la possibilità di un pericolo. Credo nella presenza di un meccanismo di carattere diciamo “sadico” in molti fenomeni naturali e antropologici. Pensiamo all’estate, il periodo più dolce dell’anno, che paradossalmente nasce morendo, diminuendo, perdendo luce. L’estate infatti nasce dissanguandosi, poiché, proprio dal momento in cui inizia, la durata della luce comincia a diminuire. Per saltare di palo in frasca, nulla è più vero della canzone dei fratelli Righeira: L’estate sta finendo… L’estate “è” la propria fine, e questo rappresenta uno dei paradigmi più significativi dell’esserci, dell’essere in vita: la coincidenza di perdita e ottenimento.

 

2) Professor Magrelli cos’è per lei l’amore?

In Nature e venature, il mio secondo libro, dell’87, quasi riproducendo il gioco del titolo, ho scritto due capitoli intitolati uno Amori l’altro Disamori. Volevo cioè raccontare le due facce della passione, perché evidentemente sono interessato alla polarità dell’esperienza. Dunque cercavo di descrivere l’amore attraverso il disamore, e il disamore attraverso l’amore. Certamente, se vogliamo risalire alle nostre origini classiche, greco-romane l’amore è veramente la pasticca di uranio che muove il mondo. In tale prospettiva, nulla appare più terribile del disamore, che consiste in qualcosa di terminale come l’abbandono, il lutto.

 

Vorrei fare una piccola parentesi. Recentemente ho tradotto un libro di Roland Barthes che in francese era Journal de deuil (ossia Diario di lutto) e in italiano è diventato Dove lei non è. Qui Barthes parla della morte della madre, l’essere che amava di più, e non so se questo lo abbia addirittura condotto al suicidio qualche anno più tardi. Fatto sta che in quel libro mi è sembrato di toccare con mano che cosa voglia dire una perdita che mette in questione l’esistenza stessa dell’altro.

 

3) Come spiega l’esistenza della sofferenza in ogni sua forma?

Mi piacerebbe  rispondere con il passo di un articolo uscito sulla rivista “Micromega” a proposito del laicismo, dove espongo una mia vecchia teoria alla quale per altro ho dedicato anche una poesia intitolata Babbo Natale gnostico. Per me, sostanzialmente, il problema della teodicea si riduce a un dilemma: o Dio è Debole, o Dio è cattivo. Altrimenti detto, o fa esistere il male contro la sua volontà, perché non riesce a frenarlo, oppure conviene con il male e lo sostiene. A mio parere, chi è andato più vicino a una soluzione plausibile, sono stati gli gnostici, che infatti prevedevano l’esistenza di due divinità: un demiurgo potente e cattivo, e un secondo Dio buono ma debole.

 

Riporto una citazione di Etty Hillesum, che dice: “Noi dobbiamo pregare per Dio, inginocchiarci verso di lui, salvarlo dentro di noi, perché è lui ad aver bisogno di noi”. E’ un’immagine folgorante. Non siamo noi ad avere bisogno di Dio, ma lui di noi, perché è un essere debole, che altrimenti morirebbe…

 

4) Cos’è per lei la morte?

A questa domanda penso di aver risposto con i miei libri; non c’è un mio libro che non parli di morte, a cominciare dal primo Ora serrata retinae, dove parlo di un pettine che “supera la morte pettinandola”, parlo cioè della sopravvivenza degli oggetti. Sono passati trentatré anni, e il mio ultimo libro, Geologia di un padre, riprende proprio quella domanda, cioè la questione di oggetti che sopravvivono al loro proprietario. In quest’ultima opera, divisa in 83 capitoli senza un titolo ma con un numero, come gli anni di mio padre, c’è il capitolo 15, intitolato Le idi, che per me esprime nella maniera più sconvolgente l’essenza della morte, attraverso la descrizione di un’agonia. Ho assistito a questa agonia da solo, e la descrivo in un orizzonte completamente profano, diverso dal consueto. Cos’è la morte? Forse è il motivo che ci tiene in vita.

 

5) Sappiamo che siamo nati, sappiamo che moriremo e che in questo spazio temporale viviamo costruendoci un percorso, per alcuni consapevolmente per altri no, quali sono i suoi obiettivi nella vita e cosa fa per concretizzarli?

Innanzitutto credo che gli obiettivi siano il frutto di una educazione; è in base all’educazione che si riceve, e alle condizioni di vita nelle quali si trascorrono i primi vent’anni, che si elaborano gli obiettivi. Personalmente ho sempre sposato un atteggiamento da bastian contrario. Durante gli anni ’70, gli anni della politica e dell’impegno, mi mettevo a studiare Francis Ponge, mentre adesso mi viene spontaneo dedicarmi a Brecht, perché mai come ora vedo, nella società dello spettacolo, dell’informazione, della tv, della telematica, mai come adesso vedo gli aspetti veramente indiscutibili del materialismo. Per me le condizioni di vita condizionano quasi completamente l’essere umano; il libero arbitrio è solo un piccolo orlo che ci rimane rispetto al luogo in cui siamo stati gettati - e qui riprendo ancora una volta un termine heideggeriano, la Geworfenheit  cioè “l’essere gettati”. Noi siamo gettati in un mondo che ci plasma, ed è sulla base di tutto ciò che noi plasmiamo i nostri obiettivi. Se io nasco in una favela, in una famiglia di narcos, il mio obiettivo sarà avere una grande villa con tante donne e la droga migliore; viceversa se nasco da una famiglia di studiosi e persone rispettose l’una dell’altra, sarò “libero” di diventare un narcotrafficante, ma esercitando la mia scelta. Ecco la differenza: nel primo caso non esiste possibilità di scelta.

 

Io sono nato in una famiglia religiosa e sono diventato laico, anche senza riuscire a terminare questo percorso. Mi restano infatti delle tracce incancellabili di credenza, magari in forma di superstizione. Comunque, i miei obiettivi sono quelli di curare la mia famiglia, di educare dei figli e poi di realizzare una ricerca di scrittura poetica. Credo di lavorare praticamente sempre (sogni inclusi); non ho un momento in cui, o non legga, o non produca un testo, o non scriva un articolo o non butti giù un’idea per una possibile poesia. Ho una passione felice, totale, euforica per il mio lavoro: questo è uno dei miei obiettivi, accanto a quello, principale, di una vita privata che sia giusta e armonica.

 

6) Abbiamo tutti un progetto esistenziale da compiere?

Alcuni sono liberi di formularlo, altri non possono. Ieri sera vedevo in tv “Romanzo Criminale”. Ebbene, senza arrivare al disfacimento dell’America Latina, penso che in certe zone di periferia romana, come purtroppo in tante zone del mondo, come nei ghetti neri di troppe città americane, non si possa scegliere: o si diventa campioni sportivi, o si entra in una gang. Ecco, per me questo è l’orrore, questa è la negazione dell’umanità: laddove non c’è libertà, subentra il male. Per questo sono uno strenuo difensore della scuola pubblica, della sanità pubblica: perché l’idea di tornare sotto i Borboni, sotto Luigi XIV, in una società esclusivamente basata sul privilegio della nascita, mi ripugna.

 

L’idea che un bambino sia destinato a diventare un rapinatore, solo perché non ha alternative, ci fa diventare animali. Io dico sempre che i film sulla mafia mi annoiano in quanto mi sembrano dei documentari di “Quark”: la libertà di un personaggio di Goodfellas, è uguale a quella che ha una gazzella di non essere mangiata. Vedere questa umanità ridotta ai suoi elementi primari, da bestia, da mollusco, mangiare, essere mangiato, copulare, stuprare, essere stuprato, insomma, che noia! Se noi dobbiamo vivere per essere come Al Pacino, tanto varrebbe tornare alle spugne, ai molluschi: che è vita quella? Quella è vita animale, puramente meccanica, completamente priva di libertà. Tutto sta nel far si che l’elemento sociale preveda una scelta. Io trovo splendido ciò che si chiama “ascensore sociale”. Le scuole pubbliche funzionavano molto bene, perché c’era un progetto che le animava. La stessa classe accoglieva il figlio dell’industriale e il figlio del muratore, dopodiché, se il figlio del muratore voleva studiare di più, diventava ad esempio matematico. A casa nostra lavorava una donna di servizio (così le chiamavamo, ma per me era una tata, stavo per dire una seconda madre se non fosse che, probabilmente, è stata addirittura la prima), una donna che ho amato al di sopra di tanti miei esseri cari o parenti. Ora, aveva il fratello che faceva il fabbro il cui figlio era diventato appunto dottore, aveva preso la laurea. Questo è molto bello: non si tratta di dire:  “Ah! che ideali borghesi!” Questo è molto bello perché un uomo che è stato costretto a esercitare per anni un lavoro pesante, faticoso, manuale, ha avuto la soddisfazione di vedere il figlio cambiare classe, cambiare vita, elevarsi non solo socialmente, ma anche intellettualmente. Non siamo ipocriti: chi preferirebbe battere il ferro, piuttosto che studiare e insegnare in una scuola o in un’università?

 

Adesso tutto questo oggi non è più possibile. Per andare in Erasmus, ad esempio, gli studenti devono pagare di tasca loro. Ciò vuol dire che l’offerta vale solo per chi è ricco. Ecco lo schifo, la censura sociale: come dicevo prima, non essendo più “sociale”, l’uomo diventa un animale e basta.

 

7) Siamo animali sociali, la vita di ciascuno di noi non avrebbe scopo senza la presenza degli altri, ma ciò nonostante viviamo in un’epoca dove l’individualismo viene sempre più esaltato e questo sembra determinare una involuzione culturale, cosa ne pensa?

Sono completamente d’accordo, e vorrei citare Ken Loach, un autore che batte e ribatte sul concetto di comunità, di amicizia, credendo in quello spirito fraterno che aiuta gli uomini a superare i problemi individuali. Nei suoi film, c’è sempre un gruppo che aiuta uno dei suoi membri e questa è la cosa più esaltante che esista - la stessa, anche se a prima vista non sembrerebbe, che si canta nell’Iliade e nell’Odissea, dove un manipolo di soldati si aiutano tra loro per ottenere uno scopo. Quando viene meno tale solidarietà, subentra il SUV, subentra l’arbitrio, subentrano i privilegi, subentra la casta. Personalmente, ritengo che i due giornalisti che hanno coniato questo termine, recuperandolo da un passato orientale, abbiano davvero saputo gridare: “Il Re è nudo”. Noi siamo oggi in balìa della casta, di una casta di sinistra, di destra, delle corporazioni, di chiunque esibisca e difenda privilegi abusivi.

 

Io ho fiducia nella lotta al privilegio, perché è questo che ci hanno insegnato le rivoluzioni americana e francese, ormai duecento, duecentocinquanta anni fa. Ma siamo sempre lì, perché basta abbassare la guardia, e la casta rialza la testa. Addirittura spaventoso è l’esempio sovietico, allorquando, nel cuore del progetto comunista, nasce la Nomenklatura, poi perpetratasi nell’orrenda classe di miliardari mafiosi russi prodotta da Putin. Sappiamo chi sono gli amici di Putin, e quindi non resta che tirare le somme.

 

8) Il bene, il male, come possiamo riconoscerli?

Mi irrito molto davanti ai discorsi in cui il relativismo tende ad avere il sopravvento. Intendiamoci, almeno a partire da Montaigne in poi, il relativismo culturale, da cui nascono l’antropologia e l’etnografia, costituisce il nucleo radiante del pensiero occidentale, con la scoperta dell’altro il riconoscimento dei valori di società diverse dalla nostra. Montaigne, che preferisce i cannibali ai persecutori cristiani, esprime una forma di intelligenza suprema. Odio però quel tipo di relativismo che ci porta a dire: “Mah! non possiamo dire cosa sia la verità, non possiamo dire cosa sia il bene, non possiamo dire cosa sia il male”. Neanche per sogno! Lo possiamo dire e lo dobbiamo dire. E’ quanto ci hanno insegnato alcuni grandi pensatori, due su tutti. Sono i miei lari: Kant da una parte e Gandhi dall’altra. Kant dice: “Non fare all’altro ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui”, ripeto; non “ciò che tu non vorresti fosse fatto a te” ma “ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui”. Ecco cosa significa la “religione dell’altro”.
Altrove, Kant arriva addirittura ad affermare: “Chi tira fuori un fazzoletto profumato dalla tasca, fa violenza al suo interlocutore”, perché non può sapere se costui abbia o no voglia di sentire quel profumo. Siamo cioè di fronte a un’imposizione, per quanto olezzosissima. Pensiamo all’uso della musica nella società moderna. Passo la vita a dire al mio vicino di ridurre il volume delle cuffie, al dentista di spegnere la radiolina, al ristorante di abbassare la musica. Perché mai devo subire la musica altrui? Vuoi la musica? Limitati a te stesso! Arrivo a dire che i suoni sono come gli escrementi: perché esporli alla sensibilità di chi non vuole? Perché mi devi sottoporre questo tuo bisogno? Questo è l’insegnamento di Kant, secondo cui, “la musica ha un’essenza molesta”. Allora, vogliamo sapere cos’è il male? Questo è il male! Non rispettare il prossimo. Chi si mette al centro di una carreggiata e rallenta le altre auto, compie un’azione violenta. Io spero che nel futuro esistano carceri appositi per i guidatori di roulotte, una specie a cui vorrei dare la caccia con il fucile a pompa. Taccio, poi, su chi tiene la musica alta. In breve, si tratta di persone che impongono la loro volontà agli altri, che usano violenza sul resto dell’umanità - e sto parlando della violenza del profumo e della musica, in maniera ovviamente paradossale. Immaginate cosa può accadere su larga scala.

 

9) Dalla sua nascita ad oggi l’uomo, è sempre stato angosciato e terrorizzato dall’ignoto, in suo aiuto sono arrivate prima le religioni e poi, con la filosofia, la ragione: cosa ha aiutato lei?

Forse tutte e due. Da ragazzo sono stato sottoposto a una formazione cattolica, sono stato chierichetto, in certi momenti anche con grande entusiasmo; poi me ne sono distaccato e adesso guardo in maniera diversa, da un’altra prospettiva, lo stesso oggetto. Vorrei dire, però, che l’ignoto ha anche un elemento propulsivo - immaginiamoci cosa sarebbe la nostra vita senza la sua spinta. Da una parte l’ignoto getta il terrore e viene usato come elemento di ricatto: pensiamo a cosa è stata la religione in quanto “instrumentum regni”. Abbiamo avuto per secoli forme di predicazione che terrorizzavano il povero contadino analfabeta, dicendogli: “Se tu ti ribelli, morirai all’infinito nelle fiamme dell’inferno”. In tal senso, l’apparato religioso serve a bloccare, a paralizzare qualsiasi forma di rivolta sociale. Ma esiste anche una religione opposta, che non è impositiva bensì positiva, una religione fatta di dedizione, fratellanza, in cui io riconosco uno dei più alti frutti della nostra cultura. La religione per me è un Jekyll e Hyde: può essere una cosa magnifica, fraterna e aperta come il sorriso del missionario o del volontario, come può essere il sadico rogo preparato per il dissidente. La religione è doppia, bianco e nero.

 

10) Qual è per lei il senso della vita?

Sembra una battuta, ed è una risposta facile, me ne rendo conto, però non ne ho trovata una migliore: “Il senso della vita consiste nella ricerca del senso della vita”. Questo vuol dire che il senso della vita ha tante risposte quanto gli uomini che sono vissuti, perché ognuno, e qui nasce l’origine del rispetto, ognuno è in ogni caso diverso dall’altro e come tale darà un colore unico alla propria esistenza.


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