Scrittura e vita, simbiosi perfetta
di Matilde Perriera
Uno scatto di molla, Giacomo Leopardi.
Recensione su “Il giovane favoloso”
Dicembre 2014
7,00 euro ben spesi per 135' intensissimi di un biopic che, dal 16 ottobre al cinema, a soli due mesi dalla sua prima comparsa, ha già incassato più di 4.000.000 €. Nello snodarsi dell’avventura esistenziale del protagonista si respira il grande rispetto per la mente fertilissima “isolata nella scelta esclusiva di un lirismo soggettivo in cui prevale la trepida auscultazione del proprio cuore”(1). “Le sombre amant de la mort”(2), il pallido amante della morte, ingabbiato dai filtri fisici e psicologici della dorata trappola della biblioteca, è succubo dello sguardo giudice di Monaldo, della gelida immobilità velata da una pensosa malinconia della Marchesa Adelaide Antici, di Don Vincenzo forte con i deboli e debole con i forti, del grigiore avvilente del loco natio che lo separano dall’immediatezza di vita, ne segnano per sempre la psiche e tentano di congelare l’intensa sete di sapere, di conoscere, di nutrirsi spiritualmente sempre viva nel bambino prima, nell’adolescente e nell’uomo adulto dopo. Lo spettatore è messo continuamente di fronte a inedite letture filologiche, citazioni letterarie, traduzioni estemporanee di classici latini e greci, teorie filosofiche molto articolate, dialoghi colti, storia e fantasia, immagini evocative ai limiti del delirio e, soprattutto, ai Centoundici pensieri, allo “straordinario giacimento di lettere”(3) e allo Zibaldone, “operose officine”(4), frantumi di mondo da “caleidoscopio impazzito, a tratti ridente, a tratti crudele, che, pur non possedendo un valore artistico e speculativo autonomo, costituiscono un documento essenziale per ricostruire la storia di un gigante rimasto vivo nell’animo di ogni lettore di tutti i tempi e sollecitano a ricostruirne il sistema delle idee sostanziate nell’opera”(5).
IL GIOVANE FAVOLOSO, “il cui titolo è tratto da “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”(6), è stato prodotto nel 2014 con un budget di 8 milioni di euro da Carlo Degli Esposti, Patrizia Massa e Nicola Serra per Palomar con Rai Cinema … Ciak, si gira… e comincia a snodarsi l’intensa produzione filmografica dando il LA alle tante interpretazioni critiche sul poeta italiano moderno che ha stimolato l'interesse degli uomini di cultura e la varietà di opinioni ne è, appunto, un indice particolarmente rappresentativo. Tante le domande che si accalcano nella mente degli astanti… Perché una locandina rovesciata? E’, forse, prolessi di una struttura filmica orientata a capovolgere ataviche convinzioni? … E, poi … Quale motivazione induce a fare ancora studiare “le petit comte” che, implacabilmente disfattista, canterella l’insistente motivetto secondo cui “il n'y a pasdesdieux parce que il est bossu, il est bossu car il n'y a pasdesdieux”(7)? Come le sue parole possono incoraggiare una rifondazione culturale che dia spazio alle potenzialità degli liceali e riaprire i cassetti dei loro sogni? Che risposta propositiva lascia ai giovani del XXI secolo, impotenti di fronte a un paese per il quale la meritocrazia è una chimera, uno spirito attanagliato dal “mal du siècle”(8), sconfortato e disperso nel gran mare dell’essere, condannato ante litteram dalla formula crociana della “vita strozzata”(9)? Esiste un’altra icona che, nel “viaggio di uno zoppo infermo per luoghi impervi, alla neve, al gelo, all’ardore del sole”(10), codifichi, in maniera tanto nitida, la loro anima in subbuglio? E, di contro, quale altra araba fenice riesce a catturare in maniera così incisiva delle menti avvilite da obiettivi frustrati, stati di ansia altalenanti, irrequietezza, depressione, paura del domani, se non quella di chi è sempre alla frenetica ricerca di un quid “vagheggiato con invincibile nostalgia e salutato con affetto a ogni sua momentanea apparizione”(11)? Giacomo Leopardi fa riflettere. All’evoluzione di giudizi e delle tante sfaccettature, contribuisce, oggi, il nuovo traguardo segnato da Mario Martone che, affidando il suo pupillo alla magistrale interpretazione di Elio Germano, ha costruito una grammatica filmica per farne rivivere diacronicamente la vicenda discontinua di attese e di delusioni.
L’incipit, con gioiose pennellate, focalizza i legatissimi fratelli Leopardi, Giacomo, Carlo e Paolina; i bambini, perennemente controllati da Monaldo, giocano dietro una siepe nel giardino del palazzo austero “pieno di stimoli culturali ma povero di esperienze reali”(12). Il padre, che programma esami pubblici di fronte a una platea di amici, parenti e studiosi, spegne ogni loro entusiasmo, orgoglioso di circoscrivere la vita dei figli nella raccolta di libri di famiglia per uno "studio matto e disperatissimo" che li dovrebbe far giungere alla gloria; il suo maggiore impegno è, comunque, rivolto a Giacomo, da lui destinato a indossare l’abito talare per divenire “un luminare letterario”. Il giovane filologo, intanto, è già all’altezza di catturare l’attenzione di molti scrittori dell’epoca, tra cui spicca la figura di Pietro Giordani che, facendogli “toccare con mano le sculture della santa Casa di Loreto, lo incoraggia ad assumere piena consapevolezza del valore dell’arte e della poesia come unica, possibile risposta alla sofferenza umana”. Il poeta intrattiene con Valerio Binasco una concitata relazione epistolare che, osteggiata dal capofamiglia ma favorita dalla complicità di Edoardo Natoli e Isabella Ragonese, fa nascere tra i due un’empatia corroborante presto trasformatasi in profonda amicizia e stima reciproca. L’atmosfera, in tutta la prima ora dell’orditura storico-biografica, marca l’organizzazione gerarchica oppressiva di una Recanati "ostinata, nera, barbara, malinconica", infarcita di regole dogmatiche e gestita da istanze superegoiche demistificanti, da Massimo Popolizio, fine erudito ma intransigente reazionario visibilmente preoccupato per la crescente autonomia del pensiero laico del genio brillante di cui si permette arbitrariamente di leggere la corrispondenza privata, a Raffaella Giordano, fervente religiosa incapace di gesti di affetto, invecchiata anzitempo, cattedratica persino di fronte agli accorati genitori di Teresa Fattorini e metaforicamente impersonata in quella “natura matrigna”(13) a cui l’energia scoppiettante rivolgerà gli accenti più disperati, a Sandro Lombardi, precettore di casa Leopardi incarnato nell’icastica allegoria dell’intransigenza conservatrice, allo zio Carlo Antici, sempre pronto a scagliare le frecce dell’intimidazione e contestato dall’ingegno illustre che lo attacca ribadendo una considerazione lapidaria … “Pessimismo, che parola vuota. Non sono io a definire questo il peggiore dei mondi possibili, siete voi che dovete convincermi del contrario”. Il mondo cambia e il rinomato talento è fermo nel condannare la pudibonda fraseologia ipocrita della società che ha intorno, non può permettere che il suo “grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria” venga piegato; la granitica determinazione di chi non è disposto a cedere ad alcun compromesso, né “a trascorrere i suoi giorni nella sterile occupazione di commentare gli autori antichi”, né ad accettare “il conformismo imperante” gli fa esplodere dalle viscere l’urlo spaventoso davanti al genitore e a Paolo Graziosi, egli “odia questa prudenza, questa vile prudenza che rende impossibile ogni azione umana”.
Lo scorrere dei fotogrammi, con una vertiginosa ellissi, lo fa ritrovare a ventiquattro anni, dopo aver lasciato finalmente la sua “odiosa-amata” Recanati, trasformato in giovane intellettuale proiettato in un mondo puntellato da moltissime esperienze da cui spera di poter dare ossigeno ai suoi pensieri … Firenze … Roma … Milano … Pompei … l’infatuazione impossibile per Fanny Targioni-Tozzetti, il confronto con la società intellettuale dell'epoca da cui viene prima celebrato, poi criticato ed emarginato, le lungimiranti considerazioni sulla distanza che artisti e intellettuali dovrebbero sempre tenere con la politica per preservare l’universalismo della cultura e non obbedire ad altra legge che a quella della verità, la delusione per il concorso vinto da Carlo Botta, la necessità “di cacciare a sassate i preti, causa di ogni male, almeno dalle giurie letterarie”, la perplessità verso quanti ritengono la sua lirica potenziale sabotatrice delle "magnifiche sorti e progressive"(14), la tragica dialettica del pupo pirandelliano sempre in bilico tra “vedere” e “vedersi”, la salute sempre più cagionevole, la semicecità, la deformazione … fino all’arrivo a Napoli, la cui aria “salùbre” e il clima mite sono più consoni alle sue condizioni di salute ormai allo stremo delle forze, una città che, piena di vita malgrado il colera e i rischi latenti del Vesuvio, affascina il “ranavuottolo”, il ranocchio, gli regala attimi gioiosi, gli scioglie, facendolo bere e scherzare, la coltre di gelo che gli ottenebra il cuore, lo coinvolge in serate di festa ridestandogli attimi di felicità e barlumi di passione che solo l’improvvisa epidemia del colera gli rovinano.
La narrazione è condotta egregiamente da una sceneggiatura che, scritta dal direttore artistico in sinergia con Ippolita di Majo, supportata dal contributo della contessa Olimpia Leopardi e dall’autorevole cast scelto, riesce a coordinare efficacissime strategie per cogliere, in ipotiposi, un microcosmo arricchito dalle tanti pregevoli sfumature in cui spiccano il potente zoom ottico di Renato Berta, il caratterizzante ordito musicale di Sasha Ring, l’accurato montaggio di Jacopo Quadri, la fantasmagorica scenografia di Giancarlo Muselli, lo studio meticoloso dei costumi d’epoca di Ursula Patzak, il trucco di Maurizio Silvi ... In questa pregnante galleria cinematografica nessuno passa inosservato, vi spiccano la meravigliosa Isabella Ragonese nelle vesti di Paolina Leopardi, la strepitosa Fanny Torgioni Tozzetti interpretata da Anna Mouglalis, il cameo del conte Vanni eternato nel Cocchiere che porta Monaldo a Loreto, Federica de Cola che ritrae la dolcissima e sollecita Paolina Ranieri, la gente sparsa nei quartieri popolari, gli scugnizzi con il loro “lieto romore”(15), le prostitute, gli avventori delle taverne mentre il din don di campane “invita a godere l’incanto di un’atmosfera ravvivata da figure idilliche che, concretizzandosi tra vitalità e disperazione, danno il sopravvento ai ricordi lieti”(16).
Un posto a parte deve essere riservato all’agente prioritario che, messo alla prova nei panni di Leopardi, si è impegnato “con un entusiasmo tanto contagioso da imitarne alla perfezione, dopo pochi giorni di lavoro, persino la grafia”(17) o di ricalcarne la golosità capricciosa del gelato o le difficoltà a usare il coltello. Elio Germano, Premio Pasinetti 2014, nel ruolo complesso e di forte spessore assegnatogli, con lo sguardo perennemente stralunato, si dimostra un attore molto versatile, “punto di forza incontrastato”(18), abilissimo a rendere credibili le disfunzioni fisiche del poeta fino a vedersi spuntare i crudeli cuscinetti sui muscoli dorsali, via via più ingobbito, avviluppato su sé stesso, capace di passare in un attimo dalla maschera di falsi sorrisi di circostanza alla lettura intensa, emozionante ed è perfetto nella costruzione del “lottatore, con sete di vita e di sapere "(19), dominato da dolcezza e rabbia, slanci vitali e profonde inquietudini. Lo minia nella prospettiva del quotidiano, gli presta voce e corpo, ne dipinge la struggente vulnerabilità, ne compendia l'animo fragile e la lucidità intellettuale, riesce a far salire a galla l’uomo vero che si accende o ripiega nella delusione, che dichiara sommessamente di non aver “bisogno di stima o di gloria, ma di amore, di entusiasmo, di fuoco”, che “non solo conosce ma per essere persuaso di quanto coglie con la mente deve intensamente osservarlo e sentirlo(20)”, che introietta il postulato secondo cui “la ragione umana non potrà mai spogliarsi dello scetticismo in cui risiede il vero” e attesta, con risoluta cocciutaggine, la necessità di ritrovare “il vero nel dubbio”. Quando nella sala cinematografica palpitano le celebri composizioni de “L’Infinito”(21), “La sera del di’ di festa”(22), “A sè stesso”(23), “La Ginestra”(24) e la stessa stimolante prosa del “Dialogo della Natura e di un Islandese”(25), il volto di Elio mantiene un composto vigore, come se “i versi-dinamite”(26) nascano proprio in quel momento dalle sue labbra. E’ commovente notare come “l’artista romano interpreti le liriche senza declamarle, reintegrandole nel contesto umano e storico in cui state concepite e restituendo loro l'emozione della scoperta, per il poeta nel momento in cui le ha scritte e per il pubblico nell’istante in cui le (ri)ascolta”(27). Si rimprovera a Martone l’aver omesso alcuni dei canti più ricercati del poeta e, primo fra tutti, “A Silvia”, ma questa polemica dà lustro al regista che, umilmente, dichiara di aver studiato a lungo prima di mettere in azione la macchina da presa. Giacomo, invero, intento a logorare i migliori anni sulle “sudate carte”, trova un attimo di rilassata serenità ascoltando l’armonioso canto di una fanciulla impegnata a ricamare “la faticosa tela” di un inutile corredo; Gloria Ghergo, però, impersona unicamente Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi divorata dalla tisi in giovanissima età, a cui la voce critica del disagio umano aveva già dedicato, nel 1819, “Per una ragazza inferma di una malattia lunga e mortale”(28). Il “fiore freschissimo di gioventù”(29), la “Silvia”(30) del 1828, è, piuttosto, pura immagine capace di “rendere vivo al cuore in fibrillazione il ricordo delle speranze dell’adolescenza”(31). Si sottintende, è vero, l’amarezza per una situazione precaria, ma, a fine lettura, difficilmente si ricorda il “pria che l’erbe inaridisse il verno”, prolessi della morte della ragazza, o “la mano” che mostra “una tomba ignuda” e distrugge la “lacrimata speme” di un cantore introverso; al fruitore del messaggio rimane nell’animo, appunto, solo la toccante interpretazione della letizia affidata alle sensazioni positive di un quadro musicale che trasmette l’entusiasmo della fanciulla dagli “occhi ridenti” pronta ad assaporare un domani felice perché “ogni lirica di Leopardi pare pianto, ma è un pianto che, nel dolore e nella disperazione, contiene speranza e desiderio d’amore”(32). Fertilissimi, nel tragitto di iniziazione, i “sette anni di sodalizio e di amore fraterno” trascorsi da Giacomo con Antonio Ranieri; il patriota rivoluzionario, diffidato dalla polizia borbonica per le sue idee eversive, lo assiste con devozione fraterna, lo asseconda quando scambia il giorno per la notte o fa colazione alle tre di pomeriggio e cena a mezzanotte o si ostina a uscire da solo e, pur non rendendosi del tutto conto di avere davanti uno dei mostri sacri della letteratura italiana, mette su carta i versi che “l’intelletto sovranamente penetrativo”(33) gli detta. Michele Riondino lo affianca fino all’epilogo della sua esistenza quando, compiuti i 39 anni e ormai vicino al crepuscolo per l’aggravarsi delle sue sofferenze con i sintomi del colera, chiude il suo itinerario terreno. Martone, con la focalizzazione di alcune espressioni, mette a fuoco il discusso rapporto tra il poeta e la figura dell’esule politico, in modo particolare nella scena in cui il tormentato marchigiano scruta con silenziosa ammirazione il corpo nudo e atletico dell’amico. Leopardi avrebbe realmente scambiato l’intimo connubio tra camerati per un'intensità amorosa nei confronti dello sfrontato e affascinante casanova? O, addirittura, si potrebbe realmente parlare di omoerotismo? O è più credibile pensare a un passione che, semplicemente, va oltre l’amicizia e lascia affiorare la gratitudine più pura da parte del giovane conte verso l’animo gentile di Riondolino?
Mario, Nomination Leone d'oro 2014 alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia con dieci minuti di applausi, inoltre, allargando lo sguardo a 360° per dare nuova linfa alla dimensione umana del “cantore della “doglia umana”(34), ne sottolinea implicitamente la posizione etico-politica facendogli dichiarare come "il suo cervello non concepisca masse felici fatte di individui infelici"; egli, in questa rilettura si allinea al De Sanctis che coglie la positività del sentimento nel “generoso dissidio tra cuore e ragione”(35), nel negare quelle stesse illusioni che, poi, tanto più dolorosamente alimenta, “producendo l’effetto contrario a quello che si era proposto perché è scettico e spinge a credere, odia il progresso e lo fa desiderare, odia la libertà e la fa amare, chiama illusioni la gioia, l’amore, la gloria e ne accende in petto un desiderio inesausto”(36). Elio-Giacomo è un intellettuale isolato; non partecipa, infatti, agli eventi politici, rifiuta la nomina a rappresentante presso l’assemblea nazionale di Bologna del pubblico consiglio di Recanati, si lascia sfuggire “inni al dispotismo illuminato e paternalistico”(37), richiama i suoi Παραλειπόμενα della βατραχομιομαχία per indirizzare le polemiche “ai granchi e alle rane”, metafora delle reazioni brutali degli Austriaci e della politica oppressiva dei Borboni, ma non risparmia nemmeno “i topi” che adombrano l’ottimismo facile dei Liberali napoletani”(38). Se, però, nega ogni possibilità di miglioramento socio-politico, rifugge esplicitamente dalla “consecutio malorum”(39), infiamma l’animo di un “intrepido campion”(40) e, con il suo “attendi, attendi” dalla funzione conativa e fàtica, supera il vittimismo per lasciare il posto all’egotismo attraverso cui dimostra l’impellenza di sotterrare “la obblivion funesta”, l’indifferenza funesta verso i bisogni del proprio Paese, e di allontanarne “la matura clade”, l’imminente rovina. “Il più romantico dei Romantici”(41), in tal modo, fa percepire che, “se il destino gli avesse prolungata la vita, si sarebbe trovato, confortatore e combattitore, dietro le barricate del Quarantotto e che, mentre chiama larva ed errore la vita, non si sa come, stringe più saldamente a quanto è più nobile”(42), titanicamente proteso alla determinata volontà di non rassegnarsi al buio che lo circonda.
Certo. Mentre si snoda la bobina del regista napoletano, nessuno, annotando il modo di concepire la vita e il mondo dell’Uomo-Leopardi, può esitare sulla triste efficacia che le sofferenze personali esercitano su di lui, ma se ne giustificano le proteste contro “meschine volgarità, invenzioni assurde dalle quali non sarebbero mai potute scaturire le sue opinioni filosofiche”(43). “Le poète de tous les hommes qui sentent”(44), il poeta di tutte le anime sensibili, in anafora martellante, chiede orgogliosamente di "non attribuire al suo stato quello che si deve al suo intelletto", contestando, in particolare, quegli avversari che credono di potersi esimere dalla confutazione razionale del suo pessimismo presentandolo come il riflesso delle sue gravi patologie. Che le prime ipotesi, generate dal livore clericale di Niccolò Tommaseo, siano da respingere, non c’è dubbio. “Il modo migliore, però, non consiste nel negare ogni incidenza della malattia e della conformità fisica nella genesi della sua visione del mondo, ma nel sottolineare la coscienza precocemente acuta che la deformità e l’infermità gli hanno dato del pesante condizionamento esercitato dalla natura sull’uomo”(45). Tale intuizione, peraltro, non si è affatto congelata in “un motivo di lamento individuale e nemmeno in un puro tema di poesia, ma è divenuto un formidabile strumento conoscitivo capace di dargli il LA per una rappresentazione del rapporto uomo-natura che esclude ogni scorciatoia religiosa e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente trasfigurata, non perde nulla della sua scientificità”(46). Nell’avere, anzi, declinato il ricorso a Dio, con il rifugio nel mistero e nella trascendenza, sta “tutta la grandezza umana e intellettuale di Giacomo, che si innalza sui tanti spiriti inquieti per i quali il pessimismo è stato l’anticamera della conversione religiosa”(47).
Affiora chiaramente dalle varie scene l’inesausta passione di questo personaggio per la collettività e le reazioni violente registrate in certe circostanze sono, piuttosto, “una contestazione attiva contro tutto ciò che depaupera e avvilisce le forze del prossimo; i suoi veri avversari non sono gli uomini, ma le loro immagini degradate dalla viltà, dalle menzogne, dalle ideologie reazionarie”(48). Feconda conseguenza di tale bisogno di societas è lo sviluppo di un profondo senso democratico da cui nasce il suo rispetto per gli umili, gli uomini di tutti i giorni, modesti, antiretorici, che diventano i protagonisti del suo mondo interiore, non più vivificati, come nelle liriche, da endecasillabi e settenari alternati liberamente in strofe di lunghezza variabile dettate dal fluire del sentimento e dell’ispirazione poetica, ma filtrati dall’occhio magico di Renato Berta. Il direttore della fotografia, con il suo gusto per la luce naturale, ha lasciato, “come con carta e penna”(49), una profonda impronta “nel rendere i chiaroscuri di un’anima o l’emozione di un paesaggio»(50) ... Stupendi sono, infatti, gli scorci paesaggistici e le scene con cui riesce a codificare in maniera esemplare “l’azzurro del cielo, il biancheggiar della recente luna”(51), il “maggio odoroso, il cielo sereno, le vie dorate”(52), gli “odorati colli”(53), il sussurrare del vento tra i viali profumati, “la primavera d’intorno che brilla nell’aria e per li campi esulta”(54), i cinguettii di uccelli, i “tintinnii di sonagli”(55), il fervore degli artigiani e dei fruttivendoli impegnati nelle proprie attività, le siepi “oltre le quali Giacomo cerca di allungare lo vista, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia, quadri ambientali che consolidano, in ogni creatura, il bisogno di aderire al fervore che dinamismo e letizia ispirano”(56)… Un posto a parte merita la colonna sonora del tedesco Sasha Ring, Premio Piero Picconi per le strutture potenti che, accostando frammenti di pop elettronico alle arie di Giacomo Rossini, alle composizioni del canadese Doug Van Nort, alle citazioni mozartiane, creano “il tessuto emotivo di una percezione del mondo e della bellezza assolutamente originale”(57) e consentono “al conflitto del poeta con il mondo di trovare un sorprendente correlato oggettivo”(58), un accordo magari eretico, ma, nel complesso, accattivante.
Tutto il lungometraggio è imperniato sull’intrecciarsi continuo di vittimismo-egotismo-titanismo, in un chiasmo tra riflessione amara e vitale esaltazione della realtà in tutte le sue sfaccettature. Gli assiomi di forte sapore gnomico trovano spazio nell’evolversi dell’organismo narrativo diluiti non solo nei discorsi più dotti con altri letterati spesso sarcasticamente giudicati insulsi al punto che, talvolta, "bisognerebbe farsi pagare per ascoltare", ma anche in situazioni casuali, come quella, per esempio, del colloquio con “Il venditore di almanacchi”(59) incontrato a un crocevia; nello scambio di battute con il “passeggere”, il pensatore ribadisce argomenti cardine sul delicato tema della felicità, una generosa utopia che l'uomo accarezza perché è impossibile reprimere la speranza di un domani migliore dell'oggi. L’effetto “a specchio”, grazie agli aspetti più prettamente profilmici, consente di favorire ulteriormente l'approccio circolare degli incantevoli paradigmi sul valore dell'esistenza umana che neutralizzano le chiavi più cupe e diventano implicito invito a ricordare come “niente venga edificato sopra la pietra, tutto sopra la sabbia, ma il proprio dovere sia quello di edificare come se pietra fosse la sabbia”(60), con la rassicurante convinzione che, prima o poi, “quella vita ch'è una cosa bella”(61) aiuterà a costruire le ali per superare il labirinto dei propri cuori in tempesta. Non vi sono, pertanto, due Leopardi, “l’oscuro amante della morte”(62) e il vate eroico, ma la persona riservata che, dibattendosi tra il generoso slancio verso l’illusione e l’esplorazione coraggiosa del vero, in una lotta continua tra “pessimismo e progressismo”(63), nonostante tocchi i margini dei nichilismo più disperato, segue sempre “una linea attiva che culmina nella prospettiva di solidarietà combattiva della Ginestra”(64). La proiezione si interrompe sulla sequenza dell’eruzione dello “sterminator Vesèvo”(65) che, con il fulgore della lava prorompente, squarcia l’oscurità della notte; nello scenario dallo spettacolare magnetismo, che “s’innerva nella straordinaria mimesis facciale di Germano”(66), si erge la “ginestra odorata”(67) pronta a sfidare il “torrente” dell’ “ignea bocca”(68) e a vivificare le campagne con il suo “dolcissimo odor”. L’autodiegetica interlocutrice, seppur con i disillusi filtri lucreziani “sull’infinita piccolezza dell’uomo”(69) e la conseguente smentita delle “magnifiche sorti e progressive”, diventa, in analogia alla funzionalità della poesia, strumento optometrista messo a disposizione degli studenti per dimostrare loro che chi ama la vita non può rassegnarsi a dimenticarne la dolce seduzione”(70). Parafrasando il testamento spirituale del “saccentuzzo”, allora, anche se "Καi nγάπησαν οi aνθρωποι μaλλον τò σκότος n τòφως"(71), anche se gli uomini hanno anteposto le tenebre alla luce, il progresso civile sarà possibile a patto che, pur consapevoli del rischio di essere annientati dalla forza invincibile di Arimane, si favorisca la “social catena” per far cessare le sopraffazioni e dare origine a un più “onesto e retto conversare cittadino”(72).
"Nel 900 non ne resterà neanche la gobba", aveva anticipato il linguista e scrittore ottocentesco Niccolò Tommaseo, immaginandolo definitivamente schiacciato dal catastrofismo più invasivo; Giacomo, in effetti, sembra dire all’uomo di ogni tempo, spietatamente analizzato nelle sue stolte ideologie, nei suoi cedimenti e nelle sue rinunzie, che “è funesto a chi nasce il di’ natale”(73) e che, di fronte alle vane speranze eternamente deluse, si può solo ribadire il dissacrante “non so se il riso o la pietà prevale”(74). Ancora oggi e per sempre, invece, l’animo vibrante e appassionato compie la magia di infondere l’energia necessaria per costruire, “a colpi di scalpello, una scala di marmo che conduce al tempio della gioia"(75). Mario Martone, addirittura, lo fa uscire fuori dalle maglie dell’inesorabile pessimismo da cui IL GIOVANE FAVOLOSO era stato fasciato al cospetto dell’immenso busto nel doloroso monologo del “Dialogo della Natura e di un Islandese”(76) e, collaborato egregiamente dalla moglie, riesce a far sentire agli spettatori che, sollecitato da “una costante brama di gioventù”(77) e guidato dal grandioso effetto perentorio del “s’avessi io l’ale”(78), il poeta lirico vince il misantropo perché “il suo pessimismo si manifesta come rivendicazione vigorosa del diritto alla felicità contro tutte le forze ostili che soffocano quel bisogno costitutivo di ciascuno”(79).
E gli adolescenti? La risposta è scolpita nel religioso silenzio con cui essi hanno valorizzato ogni sfumatura psicologica stenografata da “una trama che impegna ma non annoia(80) e, ascoltandone i commenti a posteriori, nasce in loro la perplessità per giudizi probabilmente un po’ affrettati … Qualche debolezza di Martone? Forse ... Film statico? Forse ... Nei tre sostanziali segmenti, Recanati-Firenze-Napoli, il tempo della storia è di gran lunga maggiore del tempo del discorso e, pertanto, sarebbe stato più efficace isolare, per renderli più incisivi, molti nuclei interessanti che, invece, vengono talvolta inficiati dai tanti satelliti con scene un po’ ridondanti, con dettagli superflui? Forse … Eccessive le divagazioni sui salotti letterari, sul colera, sui cadaveri, sulle case di prostituzione? Forse ... Troppo estesi i richiami integrali di qualche lirica? Forse ... I racconti biografici, però, hanno dei limiti sostanziali perché, nell’assemblare i materiali a disposizione, è quasi impossibile riportare senza stravolgere, rischiando di alterarne la fisionomia caratterizzante … E ancora … Film “Bellissimo”(81), OK, “educativo”(82), OK, “ma non scolastico”(83), PERCHE’? Gli studenti presenti in sala, già precedentemente accostatisi al “presago interprete di una renovatio materiale e morale”(84), non si sono soffermati “sulla pars destruens di un pessimismo cosmico che sembra restare in una fase interlocutoria di transizione e che, in apparenza, non propone un’alternativa”(85), ma sono riusciti a cogliere la vis del regista che, tra le righe, riserva più spazio alla pars construens e “spinge a reagire contro qualsiasi forma parziale e convenzionale di prevenzione”(86). La reazione delle giovani menti, ovviamente, è direttamente proporzionale all’animus del Docente che, rivedendo i gangli fondamentali della poliedrica tessitura, può dimostrare come, nella corsa conclusiva, lo sguardo penetrante dello scrittore-sceneggiatore giochi con gli stereotipi smontandoli uno a uno con valido supporto critico, scardini le basi su cui essi poggiano e dimostrino l’impellenza di non offuscare la voce interiore dell’eccelso poeta con il rumore delle opinioni altrui. Osservando attentamente si nota, insomma, come i ragazzi siano stati catturati dall’indefinita forza di attrazione zampillata da tanta propulsiva contraddizione e dalla fortissima carica vitalistica che promana dalla resa filmografica di Martone-Germano; sono stati attratti, in particolare, dall’imperativo morale contro l’inerzia e la noia, dalla generosa utopia volta a cancellare l’infelicità addizionale, dal fermo proclamare, pur nella sconfitta, la propria dignità di uomo, dalla luce di speranza in una vita più alta che, brillando tra le immagini portentose, riscatta dalla violenza brutale della storia. … Sì, possono anch’essi “naufragar in questo mare”(87) di uno dei più grandi poeti dell’intero panorama mondiale per ritrovarvi quello SCATTO DI MOLLA dinamicissimo che rischiara con un raro bagliore la loro vita.
Matilde Perriera
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RIFLESSIONI SUL SENSO DELLA VITA 365 MOTIVI PER VIVERE |
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