Scrittura e vita, simbiosi perfetta
di Matilde Perriera
Conversazione in Sicilia, la potenza di un punteruolo.
Recensione del romanzo “Conversazione in Sicilia" (Elio Vittorini)
Febbraio 2018
CONVERSAZIONE IN SICILIA, uno dei più incisivi mausolei della letteratura italiana, a scuola è una presenza imprescindibile, un'eco viva che, in 49 capitoli fortemente sintetici e densi di informazioni, spinge a ritrovare la luce di quei valori, quali la libertà di coscienza e la capacità di autodeterminarsi, per i quali ancora oggi si combatte. Questo grandissimo classico di ieri, di oggi e di domani, pubblicato nel 1941, è un’allegoria con cui l’autore, per non incorrere nella censura del regime mussoliniano, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste, una metafora con tante chiavi di lettura affidate a personaggi e dialoghi che hanno un ruolo di sempiterna attualità. Il centro focale del romanzo è ELIO VITTORINI, figura centrale della cultura italiana, protagonista attivo, fra gli anni Trenta e Sessanta, di tutti i suoi momenti più vivi come scrittore e, soprattutto, come instancabile organizzatore di cultura che contesta l’attentato all'essenza stessa dell'uomo provocato dal clima plumbeo degli ultimi anni del Fascismo. Egli, incarnato in Silvestro, pur essendo in preda ad “astratti furori, astratti, non eroici, non vivi”, immerso nella “quiete” della “non speranza”, sbigottito di fronte al “genere umano perduto che non ha febbre di fare qualcosa in contrario”, denunzia le tante lacerazioni che non avevano saputo contrastare l'apocalisse bellica con “morti più di bambini che di soldati, le macerie di città con venticinque secoli di vita, di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell'uomo”(1). Non si poteva ancora soccombere alla dittatura, alle sterili proteste, alle aristocratiche “turris eburnee” né si poteva più delegare l'azione politica e sociale “a Cesare”, bisognava agire ed essere “organici” alle forze politiche che si adoperavano per questa trasformazione.
Silvestro Ferrauto, quando riceve la lettera con cui il padre gli annunzia di aver lasciato la moglie per andare a Venezia con un'altra donna, si decide a tornare al suo paese in coincidenza dell'onomastico della madre. L’io narrante, così, si trova, su un treno che lo riporta nella natia Sicilia da cui era partito quindici anni prima e, nei tre giorni di permanenza, è accarezzato dai ricordi che affiorano in lui, odori, colori, sapori prendono corpo in montagne brulle, zolfo, fichidindia, aringhe, bracieri di rame. Il passato felice vivo nella sua memoria naufraga, però, nelle discussioni lente e ripetitive dal tono semplice e quasi "distaccato" di Concezione che gli ricorda la miseria in cui erano vissuti. Nell’isola, in cui “nessuno ha più coltelli da affilare”, il giovane accompagna la madre che, da infermiera, non si lascia abbattere dall'abbandono del coniuge e si adopera per curare i malati del paese avvelenati da malaria, tisi ed endemica povertà, nella segreta speranza di superare il suo stato di malessere. Nel suo giro quotidiano, visita delle case che sembrano delle grotte, in cui viene sempre circondato di attenzioni, anche se non può vedere gli infermi a causa del buio in cui essi vivono. Il romanzo, che prende avvio dalla Stazione di Bologna, è ambientato in Sicilia, una terra misera e arcaica, ma “è solo per caso Sicilia, perché il nome Sicilia gli suonava meglio del nome Persia o Venezuela”(2). L’autore non si sofferma su descrizioni naturali e preferisce puntellare l’ambiente con dei simboli che conferiscono al libro un tono oracolare e sapienziale, di rivelazione di verità essenziali e assolute, anche se egli stesso, come ulteriore prova del proprio coinvolgimento emotivo, nell’edizione del 1953, ha lasciato un nostos fotografico dei luoghi stessi del suo romanzo, di cui l'Università di Catania ha curato la ristampa anastatica per Rizzoli. Vi si ritrovano quasi 200 fotografie che, arricchite da mappe geografiche, cartoline postali, illustrazioni di quadri antichi e di pupi siciliani o altri pezzi recuperati, testimoniano il lungo tragitto spirituale di Silvestro. “Scrittura e fotografia mantengono un dialogo così aperto e continuativo da accrescere la potenza espressiva della pagina scritta”(3).
Riconosciuta la grande valenza formativa della storia letteraria che, attraverso i collegamenti sincronici/ diacronici e gli interrogativi nascosti tra le righe, CONVERSAZIONE IN SICILIA è vettore incisivo in una società dominata dalle apparenze e dalla visibilità; ELIO VITTORINI vi annota le aspettative di profonda rigenerazione nate dalla Resistenza e, implicitamente, analizza soluzioni atte a salvare il “mondo bello, ma molto offeso”. La molteplicità di temi e di significati fanno sì che il romanzo si codifichi come documento di alto sapore gnomico, pregno di significati politici su cui soffermarsi, su cui riflettere e far riflettere i giovani studenti, i quali, adeguatamente guidati, potranno introiettare le allusioni criptiche che l’autodidatta dalla raffinata cultura trasmette. Il nucleo fondante di questo specchio rinfrangente del 1939, con parenesi di grande respiro che fanno luce sui nodi problematici dell’epoca di riferimento e sulle incognite a essi correlate, risponde all’esigenza di ridar linfa vitale a un’umanità fiera “pronta per altri doveri”, nella coscienza che l'uomo perda la propria dignità quando è schiacciato e perseguitato.
CONVERSAZIONE IN SICILIA, raccontando la condizione spirituale di un trentenne trapiantato a Milano, “rimanda a quella di tutti gli intellettuali che, come lo scrittore, credendo nella possibilità di una rivolta a sfondo popolare contro il conformismo borghese, maturavano la consapevolezza della difficoltà dell’azione negli anni della Guerra Civile spagnola mentre il regime cambiava volto”(4). La crisi determinata dal conflitto scatena nell’autore una maturazione ideologica e lo spinge a generose proteste in attività clandestine di dissenso alla dittatura. Tali reazioni filtrano continuamente dalle parole che aiutano a ritrovare in esse l’uomo-Vittorini, perché l’autore auto-omodiegetico fa continuamente capolino tra le righe e, servendosi delle voci dei personaggi, introduce situazioni e idee proprie. In qualsiasi opera d’arte, appunto, chi scrive, intaglia, dipinge, lascia una qualche inconfondibile traccia del suo privato, immettendovi il suo stato d'animo, le sue aspirazioni, le sue angosce, le sue ansie, i suoi problemi, provenienti non solo dalla sua sfera cosciente, ma, soprattutto, dal suo inconscio, con quelle note affettive che giacciono dentro di sé, ma di cui non ha un'immediata percezione. L’opera, in sostanza, dimostra che il messaggio letterario è reale strumento di crescita, a patto che insegni agli studenti “a rifiutare una cultura pronta a consolare nelle sofferenze e, piuttosto, li faccia propendere per una formazione che le combatta e le elimini, che li spinga a potenziare i princìpi operativi dell’azione politica”, a contestare chi pretende di coartare le coscienze o si riduca a “suonare il piffero per la rivoluzione”(5), li educhi a esprimersi liberamente in forma critica verso una pubblicazione e li convinca a tener stretto “il punteruolo” per trovare strade sempre nuove verso la vita. Stigmatizzare i vari “Coi Baffi e Senza Baffi”, che offendono la dignità di tutti i prevaricati di ogni tempo e ogni luogo, è dovere morale di ogni cittadino per uscire dalla “selva oscura”, per non demordere, per non rimanere inermi nei confronti della storia e impotenti di fronte ai suoi massacri.
L’incipit dell’opera miliare ricalca movenze montaliane, con l’espresso riferimento all’inutilità di “chiedere la parola”(6)rivelatrice; il “capo chino”, l’impotente e silenziosa protesta di fronte a “giornali squillanti”, l’inerzia di fronte ai “massacri sui manifesti”, il silenzio assoluto persino con gli “amici” o, addirittura, con “una ragazza o moglie” e, ancora, “le scarpe rotte” ribadiscono con forza il “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”(7)da opporre a un regime che, servendosi dei tanti “servi volontari”(8), ha tentato di annientare l’uomo, spegnendone le scintille vitali. Dallo scorrere delle pagine, poi, si colgono principi che, se ribaditi in tutto il romanzo, trovano la loro più incisiva rappresentazione nelle riflessioni di estrema concentrazione lirica del trentacinquesimo capitolo. In queste pagine si assiste all'incontro particolarmente costruttivo tra Silvestro, da un lato, e i personaggi cardine dell'ultima parte, soffocati “dallo stesso dolore per l'umanità” e portatori di un messaggio di ribellione; la connotazione paradigmatica di questi ultimi è molto chiara. L'arrotino Calogero, che vorrebbe agitare il popolo con “lame e coltelli”, resta deluso perché tutti “fanno finta di niente di fronte alle violenze”, divenendo tropo dell'ideologia marxista e, con la sua istanza rivoluzionaria, prefigura la condizione di quanti, pur in situazioni difficili e insopportabili, scelgono di opporsi a ogni forma di prepotenza; il mercante di panni Porfirio, che disegna la cultura sempre pronta a schiacciare l’uomo con la promessa di un aldilà consolatore; l’uomo Ezechiele, “i cui occhi madidi sembrano implorare pietà per il mondo offeso”, veicola la filosofia consolatoria e, pur con la demistificante “quiete nella non speranza”, dà lezioni di vita perché “soffre, ma ha il coraggio di denunziare tutte le offese e tutte le facce provocatorie che ridono per gli oltraggi compiuti e da compiere”.
340 pagine(10) coinvolgenti e appassionanti, fino alla conclusione che lascia il lettore pensoso di fronte ai tanti interrogativi … Silvestro annunzia alla madre che ripartirà in giornata, deve tornare a Milano, avvolto da e nel silenzio, la sua mente ha bisogno di riposare e di cercare il filo che accomuni le varie esperienze in questo percorso senza coordinate temporali ben precise, in un tempo della storia che è spesso minore del tempo del discorso … Solo tre giorni dall’arrivo alla partenza? … Nel sottofondo rimangono le parole dell’uomo Ezechiele che, “come un eremita antico, trascorre i suoi giorni nel cuore della terra per scrivere di tutte le facce canzonatorie che ridono per le offese compiute e da compiere” nel tentativo di far sentire l’esigenza di un confronto costruttivo.
Matilde Perriera
NOTE
1) Polemica Vittorini- Togliatti, 1945
2) Vittorini, Intervista, 1953
3) Pierfrancesco Frillici, La “Conversazione” fotografica di Elio Vittorini, www.artribune.com
4) Psicolab.net, 4/7/2012
5) Vittorini, Polemica Vittorini-Togliatti, 1945
6) Montale, Non chiederci la parola, 1923
7) Montale, Non chiederci la parola,1923
8) Sciascia, Porte aperte, 1987
9) Edizione Bur, 1986
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