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Riflessioni Sociologiche

Riflessioni Sociologiche

di Ercole Giap Parini

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La fuga dei rifugiati fra autonomia e politiche di sfruttamento.

Alcune riflessioni a partire dai fatti di Rosarno.
Di Mariafrancesca D'Agostino.   Luglio 2010
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Nel gennaio del 2010 Rosarno, un paesotto calabrese come tanti nel Sud Italia, ha visto i migranti impiegati nell’agricoltura, prevalentemente di origine africana, ribellarsi ad una situazione di quotidiano sfruttamento e di altrettanto quotidiana violenza.
Ciò ha innescato una odiosa reazione degli autoctoni che non ha mancato di sfumare nei toni del razzismo. Ma ha anche indotto tante persone, in Italia e in Europa, a soffermare lo sguardo sulla condizione di chi è stato ‘invisibilizzato’ dentro ai processi di una crescita economica, quella del Sud Italia in modo particolare, edificata sul fallimento delle politiche di innovazione, così come sulle contraddizioni della gestione politico-clientelare delle risorse pubbliche.
Per chi riflette sociologicamente, quei fatti hanno rappresentato un’ulteriore occasione per interrogarsi sulla bontà dei propri strumenti di indagine di fronte agli spostamenti di persone che pongono la necessità di ridisegnare mappe e riscrivere i confini di una nuova relazionalità sociale, ma anche di considerare nuove contraddizioni fino a ridefinire l’orientamento e le stesse tecniche dei processi di accumulazione capitalistica.

 

Ercole Giap Parini

 

Mariafrancesca D’Agostino è Dottore di Ricerca in “Scienza, Tecnologia e Società”, titolo conseguito nel  Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell’Università della Calabria svolgendo uno studio comparato sull’esperienza dei rifugiati sudanesi in Italia, e dei rifugiati tibetani in India. Tra le sue pubblicazioni, I nuovi rifugiati (Rubbettino 2009) e, con Alessandra Corrado e Carmelo Buscema, Frontiere migratorie. Governance della mobilità e trasformazioni della cittadina (Aracne 2009).

 

 

La fuga dei rifugiati fra autonomia e politiche di sfruttamento.
Alcune riflessioni a partire dai fatti di Rosarno

 

La rivolta degli africani di Rosarno ha tra l’altro mostrato come un’importante componente degli immigrati impiegati in agricoltura in quell’area del sud Italia sia costituita da rifugiati e richiedenti asilo muniti di un regolare permesso di soggiorno. A partire da questa evidenza, il presente articolo si propone di commentare l’esistenza di spostamenti che da una parte logorano la tesi di chi oggi descrive i rifugiati come mera “eccedenza” territorializzata in insediamenti distanti dai luoghi presso i quali agiscono i processi della valorizzazione capitalistica, ma che dall’altra esprimono l’urgenza di indagare le molteplici strategie di inferiorizzazione e sfruttamento che investono questi nuovi e più autonomi flussi migratori forzati.

 

Premessa

 

Sconfessando il discorso pronunciato dal Ministro dell’Interno Maroni all’indomani della rivolta scoppiata a Rosarno nel gennaio del 2010, secondo il quale essa sarebbe il frutto di decenni di tolleranza nei confronti dell’immigrazione clandestina, diversi articoli giornalistici hanno messo in evidenza come un’importante componente dei braccianti stagionali impiegati in quest’area della Calabria, sia costituita da rifugiati e richiedenti asilo in possesso di un regolare permesso di soggiorno (da Sud e al. 2010). fuga dei rifugiatiL’esistenza di tale realtà migratoria è inoltre confermata da alcune indagini empiriche, che hanno avuto il merito di descrivere le drammatiche condizioni di vita e lavorative che, salvo rare eccezioni, caratterizzano l’inserimento socio-economico dei profughi presenti nelle regioni del sud Italia (Cavazzani e al 2005; MSF 2005 e 2007). D’altronde, anche l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (ACNUR) è stato più volte costretto ad intervenire per denunciare questa stessa realtà, e ad ammettere in parte i propri fallimenti.
Il primo intervento dell’ACNUR risale al mese di dicembre del 2008, e cioè a quando, dopo l’ennesimo attacco di matrice razzista subito da due lavoratori provenienti dal Ghana, i migranti di Rosarno decisero di ribellarsi al clima di intimidazioni, violenze e soprusi che qui, da tempo ormai, si è generato nei loro confronti, portando alla ribalta internazionale il sistema di sfruttamento mafioso su cui si regge il settore agrumicolo di questo territorio (Mangano e al. 2009). E’ a partire da quel momento, infatti, che nessuno ha potuto più fingere di non sapere che a Rosarno ogni anno affluiscono migliaia di migranti e rifugiati per essere impiegati in condizioni di semi-schiavitù durante il periodo della raccolta delle olive e degli agrumi (De Bonis 2005). Che Rosarno e l’intera Piana di Gioia Tauro costituiscono fra le realtà più drammatiche e contraddittorie della Calabria, dove i processi globali di riconversione e distruzione delle vecchie produzioni agricole locali si accompagnano all’arrivo di massicci flussi migratori, soprattutto dall’Africa e dall’est Europa, e a fenomeni criminosi sempre più avanzati.
L’ACNUR è poi intervenuto all’indomani della rivolta del 2010, per confermare di nuovo la presenza di un numero ragguardevole di rifugiati sia fra le centinaia di africani riversatisi nelle strade di Rosarno, che fra coloro i quali sono stati attaccati e feriti dalle gente del paese nelle ore successive alla protesta. Del resto, anche quest’ultima rivolta è nata dalla rabbia esplosa fra i braccianti africani dopo essere venuti a sapere che uno di loro era stato gravemente ferito (Mangano e al. 2010). Si trattava di un ragazzo del Togo, munito di un regolare status di rifugiato politico. Di un ragazzo che dopo la fuga dalla sua terra, e dopo aver atteso mesi l’audizione per il riconoscimento dello status di rifugiato, viveva nei dintorni di Rosarno in un vecchio casolare diroccato, senza riscaldamenti, bagni, acqua ed elettricità, lavorando in nero alla raccolta degli agrumi per circa 25 euro al giorno. Ciò finché alcuni giovani del posto l’hanno colpito alle gambe con una carabina ad aria compressa, mettendo una volta ancora in mostra quella piramide di ostilità ed arroganza che da anni connota la relazione esistente tra i migranti di Rosarno e gli abitanti di questa città (Parini e Loprieno 2010).
Come il giovane togolese aggredito lo scorso 7 gennaio, i tanti altri richiedenti asilo e rifugiati sfruttati e continuamente attaccati a Rosarno, spesso sono ex attivisti politici che oggi mantengono in vita il comparto agricolo calabrese, rispondendo alla sua richiesta stagionale di manodopera dequalificata e per nulla garantita. Ciò nondimeno, l’obiettivo di questo articolo è evidenziare come tanto le persecuzioni che hanno causato la fuga di queste persone, che il loro importante contributo allo sviluppo dell’economia del territorio, sono fenomeni del tutto occultati da politiche nazionali e internazionali d’asilo sempre più restrittive, che insieme provengono e rafforzano un contesto d’insieme entro cui ogni discorso sul diritto d’asilo diventa pura e semplice ipocrisia. Nel corso dello scritto vedremo anzi come proprio i rifugiati, in quanto protagonisti di spostamenti incompatibili con la razionalità espressa dall’attuale governance della mobilità globale, si trovano esposti a dinamiche di inferiorizzazione e sfruttamento finanche più gravose rispetto a quelle riscontrabili presso tante altre categorie di migranti.

 

Il regime internazionale d’asilo nella transizione dal fordismo al postfordismo

 

Nella Convenzione delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati del 1951, un rifugiato è definito come una persona che «per fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può, oppure, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale paese.» (art. 1A).
Dalla sua entrata in vigore la Convenzione di Ginevra ha ottenuto la ratifica di 145 paesi, ma per molti commentatori si tratta di un documento irriducibilmente viziato dallo specifico clima politico durante cui fu concepito. Occorre ricordare, infatti, che la definizione di rifugiato fornita dalla Convenzione venne introdotta dall’Occidente in piena guerra fredda per favorire l’accoglienza dei tanti rifugiati che allora fuggivano dall’Europa dell’est, con l’inevitabile conseguenza di delineare una figura di esule coincidente con l’esperienza di chi fosse «bianco, maschio e anticomunista» (Zolberg 1989; Chimni 1998) (1).
Nel sottolineare i tanti limiti della Convenzione, soprattutto il fatto che essa non considera le diverse forme di persecuzione che le persone in genere dichiarano di aver subito nei loro paesi, le indagini sociologiche soffermatesi su tale argomento hanno chiarito tuttavia come, durante il bipolarismo, per ragioni di ordine politico ma anche grazie all’enorme esigenza di massicce dosi di forza lavoro che caratterizzò quegli anni dello sviluppo fordista, i richiedenti asilo vennero dappertutto accolti in maniera favorevole. Per Daniele Joly basti pensare che, in quella fase, i paesi occidentali attribuirono al divieto di non respingimento sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra carattere sempre vincolante, e che anche quando i richiedenti asilo non furono riconosciuti come rifugiati per la mancanza del requisito relativo al carattere individuale della persecuzione subita, essi vennero affidati all’Unhcr come rifugiati de facto in modo da poter essere comunque integrati nello loro nuove società (Joly 1999).
Questa situazione cominciò a mutare soltanto nel corso degli anni Ottanta, proprio quando nuovi e più cruenti conflitti si affacciarono sulla scena geopolitica internazionale, causando un netto e imprevisto aumento delle domande di protezione internazionale. Grazie allo sviluppo dei trasporti e dei mezzi di comunicazione di massa, i rifugiati si trovarono infatti nelle condizioni di poter programmare la propria rotta in modo più autonomo che nel passato e di potersi scegliere i paesi d’insediamento in funzione dei sistemi di welfare di cui avrebbero beneficiato. Ma quando molti di loro si incamminarono verso gli stati occidentali maggiormente avanzati, essi finirono per trovarsi catapultati in una fase in cui i processi di riorganizzazione della produzione innescati dalle lotte operaie e dallo shock petrolifero dei primi anni ’70, stavano determinando la chiusura dei canali d’entrata. Questo processo ha poi subito un’ulteriore impennata in seguito al crollo del Muro di Berlino. E’ dalla fine dell’era bipolare, infatti, che quasi tutti i governi del mondo hanno stravolto i propri ordinamenti per cooperare più sistematicamente fra loro e dare avvio ad un “sistema extraterritoriale d’asilo”, che si caratterizza in quanto volto a confinare i rifugiati in zone desolate e depresse, prossime ai loro paesi di provenienza (Crisp 2003).
L’elenco di queste nuove misure di controllo delle migrazioni forzate, data la portata globale del fenomeno, è esemplificativo e riguarda: l’elaborazione di categorie di protezione internazionale connesse ad un quantum di diritti più ristretto rispetto a quello che deriva dall’attribuzione dello status pleno iure di Ginevra; l’istituzione di campi umanitari presso i quali i rifugiati vengono confinati in maniera forzosa durante tutta la fase dell’emergenza, oppure di centri deputati alla detenzione amministrativa dei richiedenti asilo politico fino all’accertamento del loro status giuridico; l’impiego del concetto di “paese d’origine sicuro”, sebbene l’art. 3 della Convenzione stabilisca che la sua applicazione prescinde dalla nazionalità dei rifugiati; il ricorso a procedure di espulsione legittimate mediante l’istituzionalizzazione del concetto di safe third country, ma anche effettuate in massa agli ingressi di frontiera, in contraddizione con il più importante dei principi posti a tutela dei rifugiati: quello del non refoulement.
Questi cambiamenti si accompagnano peraltro al fatto che, sia nel dibattito politico che nel linguaggio performativodei media, i rifugiati sono generalmente rappresentati come“usurpatori” capaci di sfruttare con astuzia i sistemi nazionali d’asilo per regolarizzare la loro presenza, ovvero di essi finanche si parla come di potenziali criminali (2). Nei media, anzi, la stessa parola rifugiato è diventata obsoleta. Oggetto d’attenzione sono quasi sempre “profughi senza qualità”. E cioè, uomini e donne costretti alla fuga dal loro paese, ma esclusi da ogni possibile riconoscimento attraverso un gioco semantico che mentre mette in discussione il loro diritto ad ottenere un preciso status di protezione internazionale, rinsalda nel senso comune il frame dominante dei rifugiati come problema dal quale difendersi. Il termine profugo, infatti, si riferisce a chi fugge per motivi di carestia, persecuzione, violenza generalizzata, ma esso insinua la sola necessità di un intervento da parte della comunità internazionale (Delle Donne 2004, p. 39). In altre parole, la situazione in cui versano i profughi una volta sorpassati i confini dello stato di cui sono cittadini, indica la condizione di incertezza in cui viene a trovarsi colui che ancora non sa se gli verrà accordata la possibilità di presentare domanda d’asilo. E’ una situazione che diventa per questo paradigmatica di quello “stato d’eccezione” di cui parla Giorgio Agamben quando descrive il potere che la sovranità ha di sospendere l’ordinamento normale visto che, in queste circostanze, che si commettano o meno delle atrocità, non dipende dal diritto, ma solo dalla civiltà della polizia, che agisce come sovrana (Agamben 1995, p. 195).

 

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NOTE
1) A sostegno di questa tesi, questi studi ricordano in particolare che: a) fino al Protocollo aggiuntivo di New York del 1967, l’Onu vincolò l’applicazione della Convenzione ai soli rifugiati europei che avessero subito persecuzioni per fatti antecedenti al primo gennaio 1951; b) la Convenzione di Ginevra considerò degne di apprezzamento forme persecutorie di tipo solo individuale, riguardanti i diritti civili o politici dell’esule; c) visto che era lo stato l’agente persecutore nel regime totalitario sovietico, durante tutto il bipolarismo vennero considerati rifugiati solo coloro i quali fossero stati perseguitati dai loro governi di provenienza, anche se nulla del genere era stato previsto al riguardo (Delle Donne 2004, p. 37).
2) Si veda, a questo proposito, l’articolo apparso sul Corriere.it del 12 maggio 2009 “Immigrati, non si placa la tensione fra l’Italia e l’Onu”.


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