Ipazia: Riflessioni Filomatiche
di Alessandro Bertirotti
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Il linguaggio
Di Augusto Grandi Febbraio 2014
"Il rebus dei curriculum selezionati dagli head funder del Tesoro"; "Note glam a tavola"; "Un action movie in piazza". Tre titoli su altrettanti quotidiani, nel medesimo giorno. Ma si trova spesso di peggio. Un indice, evidente, di sciatteria, di approssimazione. A volte anche di crassa ignoranza. Ma soprattutto la migliore dimostrazione di come stia cambiando il linguaggio, di come sia ormai avanzato il processo di distruzione di una lingua.
Un percorso voluto, non casuale. Perché il linguaggio non è neutro e la scelta dei termini risponde a criteri precisi.
Da un lato si prediligono linguaggi tecnici, esclusivi, un gergo per ogni categoria. Non si tratta di una novità. Già in epoca preunitaria - dunque quando si utilizzavano le lingue locali – alcune categorie di lavoratori avevano creato gerghi particolari per poter comunicare senza il controllo di un potere che era anche quello del datore di lavoro. Così come esistevano, in ogni area dell’Italia, linguaggi esclusivi della malavita.
Ma si trattava di esigenze particolari. Perché, per tutto il resto delle popolazioni, il linguaggio serviva per comunicare, non per estraniarsi dalla comunità. Serviva per partecipare, per trasmettere conoscenze, tradizioni, esperienze, sentimenti. Ed anche i linguaggi delle categorie (compresi quelli della malavita) finivano per contaminare la lingua popolare comune.
La lingua, d’altronde, non è mai stata un qualcosa di statico, immutabile. Cresceva, si trasformava. Inglobando, assorbendo. Con un ruolo fondamentale anche nella costruzione di una nazione. "Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor". Sicuramente non mancavano le forzature in Manzoni, ma il senso era chiaro. E la lingua caratterizzava una nazione al pari delle memorie, delle tradizioni. Perché ne era la rappresentazione orale e scritta. Era lo strumento per tramandare il sangue, il cuore, oltre che la cultura sotto ogni aspetto.
Una lingua ricca, perché era ricco il patrimonio da comunicare. Difforme, complesso, articolato.
Poi, però, si è deciso che questa ricchezza del linguaggio, del patrimonio culturale, delle tradizioni non era confacente con i disegni di globalizzazione. Il linguaggio doveva impoverirsi per ridurre al minimo le tradizioni da trasmettere alle nuove generazioni. La tradizione come un fardello, che appesantisce chi deve essere sempre pronto per trasferirsi, per emigrare dove serve ai mercati globali.
Ed allo stesso modo la lingua deve impoverirsi per diventare di più facile apprendimento da parte di chi arriva. Regole più semplici, rinunciamo al congiuntivo ed al condizionale. Basta? No, non basta. Ed allora bisogna ridurre al minino indispensabile anche la quantità di termini utilizzati. Linguaggio elementare, per dare a ciascuno l’opportunità di adoperarlo senza fatica e senza troppo impegno. Gente di passaggio, gli italiani come gli stranieri. Senza più tradizioni, senza più cultura.
Un linguaggio da sudditi, perché i cittadini non servono più. Anzi, diventano pericolosi. E si deve partire dalla scuola per realizzare al meglio il processo di sradicamento e di analfabetizzazione progressiva. Se in passato si parlava di analfabeti di ritorno - riferendosi a chi aveva studiato ma aveva poi perso l’abitudine al confronto con la lettura e la scrittura - ora si può tranquillamente parlare di analfabetismo anche di sola andata. È sufficiente leggere le tesi di laurea anche nelle facoltà umanistiche per rendersi conto che il linguaggio è ormai precipitato a livelli indecenti. Errori di grammatica e di sintassi, povertà nelle espressioni e nell’impiego delle parole, assoluta mancanza di conoscenza di sinonimi.
Una recente indagine tra adolescenti ha rivelato che la maggioranza dei ragazzi non riesce più a comprendere adeguatamente neppure i fumetti di Topolino. Parole che si consideravano usuali sono ormai del tutto sconosciute per quasi tutti i ragazzi in età scolare.
Ma, ovviamente, questa ignoranza diffusa serve ai pochi che continuano ad avere la conoscenza. E che utilizzano linguaggi "tecnici" proprio per ampliare il solco tra loro che sanno ed i sudditi che non capiscono. La scuola - è l’ordine imposto dal politicamente corretto - deve adeguarsi agli ultimi. Così si arriva al diploma di maturità senza avere imparato l’ortografia, la sintassi. E si proseguono gli studi, all’Università, senza la necessità di adeguare la lingua alle nozioni da apprendere. E se pochi decenni or sono la maggior parte degli studenti del liceo classico era in grado di capire la Divina Commedia senza bisogno delle note, ora diventa complicato anche comprendere le note. Non male per il Paese che ospita la maggior concentrazione di opere d’arte, di cultura. E che dovrebbe trasformare questa fortuna in un volano per l’economia.
Ma se le scuole pubbliche appiattiscono la formazione ai livelli più bassi, la classe dirigente del Paese può permettersi di far studiare i propri figli negli istituti migliori, in Italia ed all’estero, in modo da consentire loro di terminare gli anni scolastici con una preparazione superiore a partire proprio dalla capacità di utilizzare il linguaggio.
Perché il linguaggio, da parte di quella che si considera l’élite, può essere usato non per comunicare, ma per nascondere, per rendere impossibile la comprensione degli avvenimenti. Non è una novità, ovviamente. Il famigerato "politichese" dei decenni passati altro non era se non un modo di nascondere la realtà attraverso un linguaggio riservato ai pochi eletti. Fumoso, vuoto ma, perlomeno, immaginifico. Le "convergenze parallele", violando anche gli insegnamenti di base della geometria, presuppongono comunque delle conoscenze che oggi non si riscontrano nella povertà di un linguaggio politico che resta privo di significato ma che non offre neppure un briciolo di creatività. L’arco costituzionale, le maggioranze a geometria variabile, il compromesso storico: si spaziava dalla geometria alla storia.
Oggi prevale il gergo sportivo applicato ad ogni settore. Dalla "pugnalata alle spalle" si scende alla banale "staffetta". Gergo per coinvolgere, purché solo superficialmente, anche quei giovani che sono i più vezzeggiati proprio mentre vengono maggiormente penalizzati. Giovanilismo di facciata, con un linguaggio che riprende la fretta dei messaggini telefonici o il gergo degli internauti. E che confonde velocità con frenesia, fretta. Fare tutto in fretta, in modo approssimativo, perché così si evita di pensare. "Xké nn" invece di "perché non" fa risparmiare pochi secondi ma contribuisce notevolmente ad impoverire il linguaggio.
E le trasmissioni sportive sono uno dei veicoli ideali per l’impoverimento della lingua. Se un tempo si poteva ironizzare sul "ciao mamma, sono arrivato uno" di qualche (improbabile) ciclista, ora si adoperano parole di durata stagionale o, al massimo, pluristagionale. Parole che cambiano significato e poi, giustamente, spariscono. Prima tutto "arrivava a rimorchio", ora tutto è "importante". Una "giocata importante", un "arbitro importante", una "azione importante", una "squadra importante", una "discesa importante". Totalmente sconosciuti i sinonimi e persino i termini più adatti ed appropriati.
Il giornalismo, in questi casi, è il principale responsabile del cattivo uso del linguaggio. Si rinuncia a normali e corretti termini italiani per passare all’inglese quando non c’è alcun bisogno. Le località di gara, i siti olimpici, vengono definiti con parole inglesi. Ignoranza? Pressapochismo? E gli ascoltatori si trasformano in perfetti divulgatori dell’ignoranza dei media.
Il voto scolastico diventa "importante", come l’ammontare delle tasse, l’impegno è "importante" come la spesa per un regalo.
Ma di fronte all’impoverimento del linguaggio comune, diventa sempre più ricco di assurdità il linguaggio dei vari gruppi di potere. A partire, inevitabilmente, dalla burocrazia. Una casta che si autotutela anche attraverso un gergo che è ormai totalmente incomprensibile per la maggioranza della popolazione. I termini assumono, nei moduli da compilare, significati del tutto diversi, assurdi. In questo modo, però, la casta si difende, diventa irraggiungibile, intoccabile. Unica proprietaria di una chiave di lettura e di decifrazione che non viene consegnata ai cittadini, trasformati in sudditi che si sentono, inevitabilmente, in condizioni di inferiorità, di debolezza. Sentirsi in difetto per non disturbare la casta. Vale per la burocrazia e per la giustizia che è strettamente legata e che utilizza lo stesso criterio per farsi percepire come "superiore", come un’entità con poteri ottenuti direttamente dalla Divinità.
Due mondi che non devono incontrarsi, che non devono confondersi. Ed il linguaggio è pericoloso, perché la conoscenza permetterebbe di svelare i meccanismi intollerabili, le inadeguatezze, le ingiustizie. Dunque bisogna insistere per aumentare l’ignoranza, per impoverire il linguaggio e rendere impossibile la partecipazione dei sudditi alla gestione del Paese da parte dell’autoproclamata classe dirigente. Che, necessariamente, deve essere caratterizzata da un proprio linguaggio, un gergo che permetta di riconoscersi, di comprendersi. Di capire che si fa parte del medesimo mondo.
E per questo non basta soltanto la lingua, la conoscenza delle parole. Servono anche altri linguaggi. Il linguaggio del corpo, innanzi tutto. Perché ci si deve riconoscere dagli atteggiamenti, dai movimenti. Un linguaggio sicuramente più complesso rispetto a quello esclusivamente verbale. Perché il linguaggio del corpo cambia da città a città, anche all’interno della stessa classe dirigente. Occorre una approfondita conoscenza delle abitudini locali: perché se è tollerato (solo tollerato) un accento diverso, non è tollerata una gestualità differente. Accavallare le gambe o tenerle parallele e divaricate quando si è seduti non è la stessa cosa.
La classe che si considera élite si confronta e si studia soprattutto a tavola, dove il linguaggio del corpo diventa decisivo e consente di individuare chi fa parte del branco e chi, al contrario, cerca solo di intrufolarsi. E se il linguaggio verbale e pubblico non farà distinzioni, le conseguenze di questa diversità saranno inevitabili.
Augusto Grandi – Giornalista, Il Sole 24ore
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