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Riflessioni al Femminile di Rita Farneti

Riflessioni al Femminile

di Rita Farneti - Indice articoli

 

Quel dolore che non si placa

Novembre 2020

 

Accolgo nelle parole di prefazione del libro di Liliana Segre l’invito a non dimenticare, anche quando diventa doloroso e difficile.
Non solo per la complessità asciutta che impone l’evocare un dolore di altri, ma (anche) perché le voci ancora in grado di offrire una testimonianza verbale saranno sempre meno fino a quietarsi completamente.
Quel dolore che non si placaA noi l’onere di ricordare il ricordo e fare nostro il racconto offerto da altri, ora parte importante ed integrante la nostra esistenza di soggetti della storia.
Il dolore non si cancella, non va evitato anche quando intollerabile ed incomprensibile, va affrontato nel punto più oscuro, disvelato pur nel tormento.
Bene lo sosteneva Giovanni Falcone quando segnalava che il pericolo si insinuava non nel coraggio di pochi, ancora troppo pochi, ma si sostanziava dell’indifferenza dei più. Ancora troppi.
Soccorrono le parole di Ferruccio de Bortoli, pacate, incisive, profonde.
“La memoria è un vaccino prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio, nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale.
La memoria è un atto di giustizia postumo, ma è soprattutto un’orazione civile senza la quale si perde la direzione della Storia e si smarriscono le stesse ragioni per le quali siamo insieme, come famiglie, come comunità. Senza memoria il destino è segnato da altri.”
Conclude: “non smetteremo mai di ringraziare Liliana per il suo coraggio e la sua giovanile forza”.
Poteva facilmente questo libriccino prestare eventuale appiglio ad una retorica della commemorazione.
La sostanza del racconto, invece, la scelta degli episodi e, soprattutto, l’atmosfera narrativa che lo anima lo consegnano degno di un pregio letterario, che si aggiunge a più che condivisibili contenuti.
Vibra potente la forza di esistenze incompiute, sacrificate, sommuove il silenzio dell’impotenza.
Ci rafforza il messaggio che intende lasciarci Liliana Segre: che non accada più. Mai più.
Anche se “c’è un momento in cui una persona di novanta anni (…) dice basta. Ho bisogno di riposarmi, non voglio più ricordare, non voglio più soffrire… Non voglio più”.
Il 17 novembre del secolo scorso in Italia furono emanate in Italia le leggi razziali, un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari) applicati fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Leggi severe, umilianti nelle quali non si era però mai fatto cenno alla deportazione. Cosa abbiano comportato lo si evince dalle parole della Segre: “se qualcuno ha voglia di leggere a fondo che cosa sono state (…), uno degli aspetti più crudeli fu proprio quello di far sentire i bambini invisibili”.
Esistenze amputate, esseri caduti in disgrazia e perseguitati, ai quali non si dava alcun credito, che non avevano titolo ad essere considerati cittadini. Degni di carcere.
Come può sentirsi una ragazzina di 13 anni relegata nel carcere femminile di Varese come una delinquente comune? E perché?
Era il perché di “quando mi avevano espulso dalla scuola, quel perché a cui nessuno sapeva o poteva dare delle risposte”.
Al carcere segue la partenza per ignota destinazione: Liliana, una sorta di figlia parentificata, che subisce eventi ad oggi ancora incomprensibili, si sente già vecchia, addirittura vecchissima dentro la propria pelle.
Vive lo sconcerto del partire perché se “qualcuno (…) una mattina decide di andare (...) normalmente (…) quando parte sa dove è diretto”.
Di coloro che partirono, 605, solo 22 sono tornati: passarono due anni prima di incontrare, da quel giorno della partenza, “altri uomini” non più “mostri”.
Un racconto che ancora oggi raggela.
“Attraversammo Milano deserta, indifferente, con le finestre chiuse. Un viaggio verso il nulla. (…)Poi arrivò il  silenzio delle ultime cose (…), un silenzio solenne, indimenticabile, che valeva più di mille parole, in cui c’era solo la propria interiorità” che fronteggiava le rappresentazioni inquietanti di quanto stava per accadere.

6 febbraio 1944.
Una spianata di neve, una ragazzina terrorizzata che si chiedeva cosa fosse quel posto, che giungeva a pensare di “essere impazzita”.
Un numero, 75190, tatuato, marchiati come bestie, con l’onere di comprendere quando pronunciato in tedesco per rispondere immediatamente al comando ed avere salva la vita.
“Ci tolsero tutto”, continua la Segre, amputarono il suo passato per imprigionarla in un presente atemporale, lei, come tanti, prigioniera-schiava di loro.
Ricordare Primo Levi e le sue parole sembra quasi scontato.

“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”

Nell’animo di Liliana e delle sue compagne, come narra nel testo, non c’era solo la paura di morire, c’era anche “la paura di perdere ancora altro dopo che avevo perso tutto.”
Il processo di disumanizzazione attuato dal regime nazista, con capillare inesausta ferocia, mirava alla distruzione della capacità di identificare sé stessi come ancora se stessi.
“Lavoravamo tutto il giorno (…) nessuno di noi poteva chiedere niente. Poi tornavamo indietro alla sera e dalla fiamma o dal fumo capivamo” se i tedeschi avevano già fatto fare il lavoro ai forni crematori o se invece quei forni erano ancora in azione.
Eppure “noi non volevamo sentire, non volevamo sapere (…). Avevo trovato dentro di me qualcosa che mi estraniava (…) Bisognava astrarsi, togliersi col pensiero se si voleva vivere”.
In questo estraniarsi si diventava egoisti e se qualcuno oggi ancora le chiede: “ha perdonato? No, non ho questa forza. E non ho dimenticato. Certe cose io non riesco e non sono riuscita mai a perdonarle”.
Soprattutto quella marcia nella quale denutrite e scheletrite furono costrette a fare centinaia e centinaia di chilometri per diversi mesi, patendo la fame tanto da brucare in un letamaio, mangiando la carne cruda di un cavallo morto stramazzato sulla strada.
Questa è l’ulteriore testimonianza che, per quanto morte dentro, quelle ragazze e quelle donne volevano ancora vivere.
Giunsero nel piccolo lager di Malchow, dove al di là del filo spinato si vedevano “il prato, gli alberi, la primavera. Quella primavera che nasceva anche lì, e che ci faceva gioire di avere ancora la vista, che ci permetteva di godere di quel verde tenero e di pensare che la natura aveva fatto comunque il suo corso, indipendentemente dalla guerra, dalle città distrutte, dalla cattiveria degli uomini. C’era l’erba, fiorivano i germogli sui rami”.
In tutto quel tempo Liliana come le sue compagne, si era abituata “all’orrore, ai lutti, alle perdite, alle malattie non curate, alla tristezza che non interessava a nessuno”.
Erano mesi che non mangiavano niente: “eravamo annullate, soggetti senza volontà, senza più senso, ma ci rimettemmo “in cammino”, (…) toccavamo le foglie, (…) ne strappai una da un ramo e me la misi in bocca. Non era facile trovare ancora la forza di camminare per non morire (...) Era il primo maggio, mi camminava vicino il comandante dell’ultimo campo (…) era un uomo alto, elegante. Buttò via la divisa. Si mise in mutande (…) buttò a terra anche la pistola. Ed io pensai (…) adesso raccolgo la pistola e gli sparo. Perché mi sembrava un giusto finale di quel periodo incredibile di cui ero stata testimone, io, viva ancora quel giorno. Fu un attimo, un attimo importantissimo decisivo nella mia vita (…) per nessun motivo al mondo avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino.Non ho raccolto quella pistola (…) e sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso”.


Liliana Segre, Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah, allegato del Corriere della Sera, Milano, RCS media group, 2020.


Rita Farneti


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