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Riflessioni sulla Psicosintesi

Riflessioni sulla Psicosintesi

di Fabio Guidi     indice articoli

 

Modelli di negatività

Dicembre 2012

 

Il Diavolo, in definitiva, nasce sempre da un senso d’indegnità.  Se non si è letto i miei articoli precedenti sul Diavolo, in questa stessa Rubrica, si rischia di fraintendere l’espressione. Definisco “il Diavolo” semplicemente l’archetipo delle forze regressive, distruttive (e auto-distruttive!), quasi sempre inconsce, dell’animo umano. Ma andiamo avanti.

Ciascuno di noi, anche le persone apparentemente più sicure di sé, nutrono intimamente la convinzione di non essere degne, cioè un profondo senso di colpa, ad un qualche livello. Ovviamente, il contenuto specifico per cui non ci sentiamo degni varia da individuo a individuo.

C’è addirittura chi sente di non essere degno di vivere. Non dico che questo convincimento sia cosciente, ma, scavando in profondità, non è raro scoprire sentimenti di questo tipo. Forse non siamo stati desiderati? Siamo nati contro la volontà di chi ci ha concepito? La nostra nascita ha suscitato dei gravi problemi? Non è difficile che «esperienze» di questo tipo – perché di esperienze si tratta, dal momento che i sentimenti dei genitori, direttamente espressi o meno, si trasmettono inevitabilmente ai figli – si trasformino in atteggiamenti profondi del tipo “non voglio vivere”! Ovviamente, l’individuo riesce solo con grande difficoltà e coraggio a riconoscere un tale pensiero; è più facile che emergano atteggiamenti lamentosi: “non riesco a trovare motivazioni in me”, “non riesco a far fronte alla vita”, “non riesco a trovare la forza necessaria ad andare avanti”... Ciò è facilmente riconoscibile, in base alla legge secondo la quale “io non posso” va interpretato a livello profondo come “io non voglio!”. In realtà, il senso d’impotenza in questo caso nasconde la paura di vivere e il conseguente desiderio di invisibilità, ma ciò che vuole l’individuo più di ogni altra cosa, il suo bisogno fondamentale, è sentire che ha diritto alla vita.

Ad un livello solo un po’ più confortante, c’è chi sente di non essere degno di fare richieste. L’esperienza di fondo è che “sì, posso vivere, ma senza dare fastidio, sbrigandomela da solo, senza essere di peso”. Anche questa esperienza è fondamentalmente legata al genitore. Troppo indaffarato per prendersi cura di noi? Troppo stanco, debole o malato per poterci sostenere? Ci ha chiesto, più o meno apertamente, di crescere in fretta per aiutarlo? Così, abbiamo sviluppato un senso di colpa del tutto particolare: quello relativo all’essere un individuo dipendente, scarsamente autonomo. Da questo momento in poi, la paura della dipendenza ha accompagnato la nostra vita e abbiamo trasferito sugli altri questo bisogno umano, troppo umano, prendendoci coattivamente cura di chiunque attraversi la nostra strada. Tale atteggiamento viene definito nella letteratura psicologica «responsabilità onnipotente». Un tale individuo, quando si lamenta dei suoi disagi, esprime considerazioni del tipo “non riesco a prendermi cura realmente degli altri”, “non riesco a tirarmi indietro”, “non riesco a chiedere aiuto”... come già sappiamo, tutto questo si rovescia facilmente, a livello inconscio, in “voglio che gli altri si prendano cura di me”, “voglio smettere di occuparmi di tutti”, “voglio sostegno!”.

Quando si parla di non sentirsi degni di essere amati, si vuole intendere un aspetto del tutto particolare. Quand’é che non siamo degni di amore? Quando siamo cattivi, malvagi. E qual è la cosa ritenuta più malvagia? Essere ostili con chi ci ama. Come si può odiare chi dimostra premura e attenzioni nei nostri confronti? Quale esperienza può giustificare un delitto di questo tipo? Forse chi ci ha amato ci ha, nello stesso tempo, fatto del male? Forse chi si é occupato di noi con così tanta sollecitudine ci ha per ciò stesso soffocato? Forse il suo amore era in realtà inteso a minare la nostra libertà di individui autonomi? Ma quanto mai grave deve essere il senso di colpa di un individuo imprigionato e umiliato dall’amore! Quale senso d’indegnità per la propria mancata riconoscenza, per la propria gratuita cattiveria! No, non è possibile riconoscere in se stessi la presenza di questi sentimenti ostili, i quali rimangono sepolti in profondità, lasciando spazio solo ad una vaga ma radicata sensazione di non essere degni di essere amati. Il desiderio di amore e la paura di essere schiacciati attraverso l’amore racchiudono molti individui nella più terribile incertezza e ambivalenza. Gli esiti sono paralizzanti. Infatti, ciò che un individuo del genere lamenta a livello cosciente è “non riesco a decidere”, “non riesco a portare a termine nulla”, “non riesco a provare un vero piacere”, “non riesco a trovare pace”... In altre parole, rimane invischiato nel più paludoso conflitto interiore, all’interno del quale la volontà è visibilmente fiaccata.

Il senso di colpa legato al non essere degni di apprezzamento, è quello più universalmente riconosciuto e diffuso. É forse l’esperienza più diffusa a livello educativo quella di esserci sentiti ‘sbagliati’ per un qualche motivo: perché troppo pigri o troppo vivaci, troppo ribelli o troppo docili, o indisciplinati, ostinati, buoni a nulla, e così via... c’è sempre un modo per deludere le aspettative familiari, questo è risaputo. Questa esperienza si traduce in un senso d’inadeguatezza o di fallimento. Pertanto, in tutta la nostra vita ci sforzeremo, se troveremo in noi le risorse, di conquistarci l’apprezzamento, la stima degli altri, con l’intento di esorcizzare l’intima convinzione di essere sbagliati. In altre parole, la reale finalità in qualsiasi situazione esistenziale diventa il conseguimento del «merito», il raggiungimento di uno stato di «perfezione», indenne da qualsiasi possibile critica tanto dall’esterno quanto dalla propria esigente coscienza. Quando un tale individuo si lamenta, cosa in sé piuttosto rara, esprime sentimenti del tipo “non riesco a combinare nulla”, “non riesco a migliorare”, “non riesco ad essere riconosciuto in quello che faccio”, ma anche “non riesco a fermarmi, devo continuare a tener duro”, “non riesco a fidarmi di nessuno, devo fare da solo”, “non riesco ad essere tollerante, perché devo essere impeccabile”... Si è sempre al limite tra la percezione che stiamo facendo il nostro dovere e il sentire che non si riesce a fare mai abbastanza. Possiamo immaginarci come siamo disposti a valutare i nostri simili! É inutile dire che tutto quanto è stato detto finora, su un piano ancora più profondo si traduce – come di solito – in atteggiamenti del tutto opposti: “voglio essere me stesso, senza dover rendere conto ad alcuno”, “voglio riposarmi, lasciar andare”, “voglio permettermi di chiedere aiuto, perché non sono l’unico in grado di risolvere la faccenda”...

Ma non è tutto. In molti individui si fa strada un ulteriore senso di colpa, che consiste nel non sentirsi degno di fiducia. Quando non si è degni di fiducia? Quando si è ingannevoli, sleali, disonesti o ipocriti: insomma, non si è persone pulite, trasparenti. C’è da chiedersi come un bambino possa mai vivere una simile esperienza. Ebbene, la risposta sta in un’unica espressione: «seduzione». Il bambino sedotto è stato oggetto di una promessa che non è stata mantenuta, è stato ingannato per portarlo dalla propria parte e, in definitiva, è stato tradito. Ma il bambino sedotto è anche un individuo che è stato imprigionato all’interno di un rapporto di complicità, un individuo a cui è stato fatto credere di essere partner di una relazione esclusiva e del tutto gratificante, di essere una persona speciale, superiore a tutti coloro che vivono all’interno del contesto affettivo, cioè i familiari. In altre parole, si è sedotti dall’idea che la madre, o il padre, o un fratello o una sorella, più o meno a loro insaputa, siano per qualche motivo meno meritevoli di amore rispetto a noi. Adesso c’è un segreto tra noi e il seduttore e ci siamo macchiati di tradimento, d’inganno, di slealtà nei confronti di coloro che, ingenuamente, si fidano di noi e ci vogliono così bene. Siamo sporchi. E come sempre, questo intimo sentimento viene proiettato, a livello più o meno cosciente, all’esterno: “non riesco a credere in nessuno”, “non riesco a trovare chi non mi tradisca, in qualche modo”, “non riesco a vedere lealtà intorno a me”, “non riesco ad essere trattato con giustizia”, sono le lamentele tipiche. In realtà, nutriamo una disperata volontà di abbandonarci intimamente a qualcuno, all’interno di una relazione autentica.

Non possiamo abbandonare questi atteggiamenti così negativi e improduttivi, se non comprendiamo in profondità la natura dei nostri sensi di colpa. È importante capire che lo specifico senso di colpa perlopiù si manifesta solo in uno stadio avanzato del cammino di ricerca interiore. Con questo non voglio dire che i sensi di colpa non siano presenti in molti individui ordinari; solamente, hanno un carattere del tutto superficiale e fuorviante. Gli individui ordinari possono esprimere dei motivi «oggettivi» per cui si sentono in colpa, accusandosi di pensieri o sentimenti ostili o anche di fatti che hanno arrecato danno, ad un qualche livello… possono lamentare di tenere comportamenti che offendono o fanno del male ad una persona cara o al prossimo, in generale. Non è di questo che si tratta. Ogni conoscitore dell’animo umano sa che dietro questi sensi di colpa si nasconde una rabbia mai adeguatamente espressa. Affrontare il Diavolo significa comprendere a fondo tali sentimenti ostili… non possiamo farne a meno, se vogliamo raggiungere la nostra Essenza.


     Fabio Guidi

 

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