Riflessioni sulla Psicosintesi
di Fabio Guidi indice articoli
Jung e l'individuazione
Maggio 2011
Dopo il lavoro sul «Super-io familiare», un’analisi intesa in senso psicosintetico non può non prendere in considerazione l’atteggiamento nei confronti del sistema della collettività o, in altre parole, la pressione del suo «Super-io sociale». Ad una certa fase del lavoro su di sé, subentra un particolare tipo di conflitto, che può arrivare a paralizzare l’intera esistenza: è la lotta tra il bisogno dell’individuo di esprimere se stesso e le esigenze del sistema che spingono verso l’uniformità. Realizzare il proprio compito individuale non può non evitare il confronto con le richieste e le aspettative collettive: sono gli altri, in fin dei conti, a darci un ruolo, una funzione, una identità... In che modo l’individuo può rivestire i panni stretti della cultura del suo tempo e, nello stesso tempo, avviarsi a ‘diventare se stesso’?
Tuttavia, la ‘liberazione’ dai genitori e dalla collettività non costituisce che le premesse del vero lavoro psicosintetico, o di «individuazione», secondo l’espressione di Jung, il cui obiettivo consiste essenzialmente nella realizzazione della propria specifica presenza nel mondo, del compimento della nostra individualità.
«Quando la cura comincia a diventare monotona e subentrano le ripetizioni, così che secondo un giudizio imparziale si è arrivati ad una stasi, o quando appaiono contenuti mitologici, archetipici, allora è tempo di abbandonare il trattamento analitico-riduttivo e di trattare i simboli anagogicamente o sinteticamente, ciò che equivale al procedimento dialettico e all’individuazione. [...] Con l’inizio del trattamento sintetico è opportuno distanziare le sedute [...], perché il paziente deve imparare a trovare da sé la sua strada.»
C’è da mettere in rilievo il fatto che, al momento in cui Jung afferma queste cose, oltre i due terzi dei suoi pazienti avevano “un’età che si colloca nella seconda metà della vita”, ed è proprio con le persone “al di sopra dei quarant’anni” che egli trovò le maggiori difficoltà ad applicare il metodo psicoanalitico classico. Spesso queste persone si mostravano ben adattate, dal punto di vista relazionale e sociale, e talmente produttive che, ai loro occhi “la parola normalizzazione non significa nulla”. Eppure,
«Stasi e disorientamento si producono spesso quando il nostro modo di vivere è divenuto unilaterale. Allora può manifestarsi un’improvvisa perdita della cosiddetta ‘libido’: ogni attività svolta fino a quel momento perde d’interesse, di significato; di colpo i suoi scopi non sono più desiderabili.»
Ecco, allora, la necessità di un approccio tale da prevedere l’ingresso in un mondo trascendente, numinoso e mistico. Ciò costituisce la peculiarità della terapia junghiana:
«Quel che ho da dire comincia là dove ha inizio questo sviluppo e fine la cura. Il mio contributo al problema della terapia si limita, come si vede, ai casi nei quali il trattamento razionale [nel senso del rendere ‘normale’ e ‘ragionevole’ il paziente, N.d.A.] non consegue un risultato soddisfacente. [...] Circa un terzo dei miei casi non soffre di una nevrosi clinicamente determinabile, bensì del fatto di non trovare senso e scopo alla vita.»
L’alto obiettivo dell’itinerario junghiano crea uno stretto legame tra la ricerca analitica e ogni altra autentica terapeutica dello spirito. L’individuazione, non ammette facili scorciatoie:
«Cambiare se stessi e realizzare una vera trasformazione del carattere è un compito difficile, anzi straordinariamente difficile, nel quale si sono impegnate tutte le religioni; è stato anche il fine della filosofia, a cominciare da quella greca. [...] Tutti hanno cercato di dare delle indicazioni su come l’essere umano possa cambiare in meglio, vivere meglio, in modo più elevato, più sano, più gioioso, più intenso.» (1)
In questa prospettiva, l’opera di individuazione consisterà nel processo, praticamente infinito, attraverso cui saranno integrate progressivamente nell’Io porzioni sempre più ampie e profonde dell’inconscio, in direzione del senso e della totalità.
Il trattamento riguarda adesso la totalità dell’uomo, il significato della sua presenza nel mondo, e quindi la sua concezione della vita. La sua funzione non è semplicemente analitica, nel senso della psicoanalisi freudiana, ma anche sintetica e anagogica. Non è orientata solo al passato, ma anche al futuro, ad individuare un telos, uno scopo; in definitiva, a scoprire il proprio significato esistenziale o, in altri termini, il proprio Sé.
Appare evidente che un’analisi non sarà mai completa (nel senso che non è possibile rendere cosciente l’intero mondo del soggetto), tuttavia, ormai sappiamo che il lavoro su di sé non è interessato allo svelamento totale del mistero dell’uomo, un compito tanto impossibile quanto presuntuoso, ma al recupero del senso, che non è altro che l’accettazione del proprio essere-nel-mondo.
È qui che l’analisi va assumendo sempre più decisamente la sua identità psicosintetica, assumendo la caratteristica più ampia di un Lavoro tale da favorire il ricongiungimento intimo dell’uomo con la sorgente del suo essere, con il Senso originario, di per sé sconosciuto e inconoscibile. È il Lavoro transpersonale, o spirituale.
Fabio Guidi
NOTE
1) Fromm, cit., p. 60.
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