Riflessioni sulla Psicosintesi
di Fabio Guidi indice articoli
Il Diavolo, o l'archetipo separativo - 1
Luglio 2012
In questo contributo – la cui lettura è consigliata dopo aver letto i miei due precedenti articoli sull'Eros [N.d.R. Eros, o l'archetipo unitivo parte 1 e parte 2] - mi voglio occupare di un argomento piuttosto delicato, cioè il 'demoniaco'.
Il «Diavolo» si riferisce ad una costellazione di archetipi che incontriamo regolarmente lungo le tortuose vie della ricerca interiore. In ogni presenza ‘diabolica’ che opera nella psiche dell’uomo si annidano i medesimi elementi fondamentali, pur conservando una coloritura strettamente personale. Tali elementi hanno un effetto distruttivo per l’evoluzione interiore e per l’integrazione della personalità, producendo un effetto regressivo o, quanto meno, paralizzante. Per questo motivo, potremmo definire ‘Thanatos’ questo archetipo, anche se il termine ‘Diavolo’, come vedremo tra poco, si rivela molto più calzante. Voglio sottolineare una volta per tutte che con questo termine non si vuole affatto indicare una realtà metafisica, cioè un’entità, ma solo un archetipo, cioè una realtà psichica.
Ovviamente, l’analisi dell’archetipo del Diavolo non può evitare di confrontarsi con la tradizione sapienziale ebraico-cristiana. Nella Bibbia la figura sinistra di Satana appare per la prima volta in Gb 1,6:
«Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche il satan andò in mezzo a loro.»
In questa scena il Signore, come un sovrano, dà udienza in determinati giorni alla sua corte, formata dai cosiddetti “figli di Dio”. Queste entità superiori all’uomo, che costituiscono il Consiglio di Yahweh, nella traduzione “dei Settanta” (1) sono identificate con gli ‘angeli’ e il satan appare uno di essi. É da notare che, nel versetto riportato, il termine ‘satan’ non è ancora un nome proprio. Il termine, nell’AT, appare sempre con l’articolo, «il satan», e solo uno sviluppo tardivo, a partire dal NT, lo indicherà come Satana, l’avversario di Cristo. I Settanta traducono il termine ebraico ‘satan’ con il greco «diàbolos», e nel NT le due parole vengono usate indifferentemente.
Pertanto, si può innanzitutto osservare che il satan non sembra indicare tanto una persona specifica, quanto un ‘atteggiamento’ che si fa strada all’interno del Consiglio divino, tra i “figli di Dio”. Così, nella letteratura successiva al Giobbe, il satan sembra identificabile con lo spirito maligno, che è contrapposto ad uno spirito santo. É interessante notare che un tale dualismo scaturisce dalla realtà divina: Satana è un «figlio di Dio». Questa affermazione, assai scomoda, necessita di alcuni chiarimenti.
Vediamo innanzitutto quali sono le caratteristiche del satan. Il suo significato più frequente è ‘avversario’, anche se propriamente indica l’‘accusatore’ in un processo. Analogamente, nel libro di Giobbe il satan è un funzionario della corte celeste che svolge il ruolo di mettere alla prova l’autenticità della fede dell’uomo, e quindi di istillare il dubbio, è un ‘tentatore’. Al fine di svolgere la sua opera maligna, ha pure il potere d’infliggere sofferenze all’uomo. Riprendiamo la vicenda di Giobbe.
«Il Signore disse al satan: “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male”.
Il satan rispose al Signore e disse: “Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”» (Gb 1,8-11).
Ciò che avviene nel racconto biblico è un’esperienza archetipica vecchia quanto il mondo. Il libro di Giobbe ci parla, in realtà, di due figli, uno dei quali, il figlio obbediente, è il beniamino del padre. Ma l’altro figlio non ci sta… due sono i sentimenti che lo muovono: essere accolto dal padre, ma, nello stesso tempo, avere la possibilità di esprimere la propria natura. Egli sente la necessità di distinguersi dal padre, di essere altro da lui, cioè di essere un individuo autonomo, con le proprie idee e la propria volontà. Tuttavia, anche se spesso lo detesta perché si sente oscurato da lui, nutre un grande rispetto per il padre, lo stima più di ogni altra cosa. Insomma, il figlio ribelle vuole essere amato da suo padre e, nello stesso tempo, differenziarsi da lui ed essere, finalmente, se stesso.
É un compito arduo: il padre è una pianta maestosa e rigogliosa: o si cresce alla sua ombra, o si rischia di apparire, in primo luogo di fronte a se stessi, una cosa di nessun valore, sbagliata. Il figlio ribelle è avviluppato in questo conflitto apparentemente insolubile: è sempre più irrequieto e non trova niente di meglio che cercare di screditare, agli occhi del padre, il fratello obbediente e fedele. Invidioso, il figlio ribelle, accusa segretamente il padre di non sostenerlo così come fa con il figlio prediletto e, nello stesso tempo, insinua senza mezzi termini che il fratello si mostra obbediente e fedele solo per opportunismo.
Ecco Satana, come avversario e accusatore, che attraverso il dubbio e l’insinuazione, come un tarlo, continua a ripetere: “E se non fosse proprio così come sembra?” L’invidia e il risentimento che lo rodono, portano ad azioni maliziose, sleali, tese a smascherare la malafede del fratello fino a nuocergli anche in modo grave. Conosciamo la triste sorte che, nel racconto biblico, deve inizialmente subire il povero Giobbe.
La frustrazione e l’invidia dell’uomo hanno esiti distruttivi, verso sé e verso il mondo intero, fin dai tempi di Caino e Abele. (2) Anche nel libro della Sapienza, si dice che “la morte è entrata nel mondo per invidia del satan, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,24). Il passo interpreta il capitolo 3 della Genesi, dove si parla della celebre tentazione del serpente ad opera dei due nostri malcapitati progenitori. Vedremo meglio altrove di che cosa si tratta. Per ora, basta accennare al fatto che anche qui si fa accenno all’invidia, come molla propulsiva di ogni azione diabolica, distruttiva verso gli altri e se stessi. L’invidia non è unmale, è il male.
Non nascondiamocelo: l’animo di ognuno di noi conosce l’invidia, cioè ognuno di noi deve fare i conti con l’impulso demoniaco. Naturalmente c’è invidia e invidia. C’è l’invidia che ti rode, ti distrugge interiormente e c’è l’invidia che si manifesta in maniera bonaria, magari attraverso una battuta scherzosa, o apparentemente ingenua. L’importante è che si guardi dentro alla nostra invidia e alla rabbia che vi è connessa… che si osservi il perché di questa invidia e si continui a mantenere il contatto quotidiano con essa… Ad un certo punto, se si ha il coraggio di guardare in profondità, la nostra invidia comincerà a rivelare il suo intimo significato.
Se non vogliamo riconoscerla (se è stata rimossa questa percezione) è perché altrimenti ci sentiremmo ‘sminuiti’, ‘cattivi’, non abbastanza immuni da debolezze ‘umane, troppo umane’… Eppure, mille sono i campi in cui l’invidia, più o meno larvatamente, si fa strada. Potremmo dire che l’invidia - e la maldicenza ad essa strettamente connessa - costituisce il problema psico-spirituale, dal momento che nasce da un senso di frustrazione e inadeguatezza del nostro Ego e, quindi, costituisce un buon espediente per proteggerlo. Approfondiremo nel prossimo contributo.
Fabio Guidi
NOTE
1) È la prima grande traduzione greca, che risale al III-II sec. A.C. Si narra che fu eseguita ad Alessandria, in Egitto, da settanta studiosi.
2) Il tema dei fratelli rivali appare in tutta la sua luce nell’episodio di Caino e Abele, raccontato in Gn 4,1-16. Caino appare il fratello maggiore (sempre invidioso del fratellino) dedito all’agricoltura, mentre Abele era “pastore di greggi”. Tuttavia, pare che il Signore non gradisse i sacrifici del fratello maggiore, a differenza di quelli di Abele, vale a dire che non sembrava apprezzare particolarmente lo sforzo, l’impegno di Caino, il quale, come si sa, spinto dall’invidia, uccide il fratello. “Caino offrì dei frutti del suolo in sacrificio al Signore; e anche Abele offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e l’offerta di lui. Perciò Caino ne fu molto irritato e il suo viso fu abbattuto” (Gn 4, 3-5). Il racconto genesiaco, su un piano di antropologia culturale, fa probabilmente riferimento a lotte tra clan rivali e alla supremazia dell’economia agricola sulla pastorizia nomade, dal momento che Caino è il fratello maggiore “coltivatore del suolo”, mentre Abele è “pastore di greggi”.
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