Riflessioni Pedagogiche
di Giovanna Simonetti - indice articoli
Il Disabile è la Persona
Ottobre 2009
Tutti gli interventi che mirano all’istruzione o all’addestramento poggiano su due assi: la trasmissione di conoscenze (sapere) e l’acquisizione di abilità (saper fare).
Partendo da questa affermazione, perno degli interventi diventa il contenuto da trasmettere (informazioni o abilità) senza dare molto peso al soggetto in formazione.
Un intervento educativo che voglia definirsi tale invece, a mio parere, fa riferimento a quelle teorie che esaltano la centralità della Persona all’interno di un contesto sociale. Pertanto scopo dell’intervento educativo diventa non solo la mera trasmissione di conoscenze ma lo sviluppo e la piena integrazione dell’individuo all’interno del suo ambiente.
La diade sapere e saper fare si allarga diventano una triade: Sapere, Saper Fare e Saper Essere, dove quest’ultima accezione sta ad indicare l’acquisizione di norme comportamentali utili alla convivenza, alla socializzazione e alla piena integrazione dell’educando.
Da piccolo al bambino vengono detti quei “no” che lo aiutano a crescere e gli vengono date quelle prime regole da rispettare che gli permettono di vivere liberamente ed in comunione con le persone che lo circondano.
I capricci che inevitabilmente fa rispetto ai divieti, gli servono ad affermare la propria identità ma assecondarli lo porterebbe alla concezione che tutto gli è permesso.
Quindi le agenzie educative ma soprattutto le famiglie devono da subito riconoscere nel Bambino il suo ESSERE PERSONA, pertanto il suo essere titolare non solo di diritti ma anche di Doveri.
Spesso però, soprattutto negli ultimi anni, si sta assistendo ad un fenomeno dilagante: il Bambino diventa Padrone indiscusso della Famiglia e ogni suo desiderio diventa un ordine. Questo atteggiamento che spesso viene giustificato dalle madri (o padri) con la motivazione di voler garantire ai figli quel benessere che magari può essere mancato loro, ha portato ad una generazione in cui integrarsi e socializzare assume il significato di omologazione invece che quello più autentico dell’essere una persona che con una vita sociale attiva, ricca di interessi, affetti, insomma in grado di vivere bene il proprio mondo ovunque si trovi.
Perché è così difficile, puntare sull’autenticità e unicità della Persona?
Mi spiego.
In una classe di venti bambini, se diciannove hanno il cellulare ad otto anni e il ventesimo bambino non ce l’ha verrà visto come un bambino fuori dal tempo… Magari da compatire perché i genitori non glielo comprano… ed i genitori di quest’ultimo pur di non farlo soffrire, dopo la prima o la seconda richiesta, glielo compreranno pur ritenendo ingiusto l’uso del telefono mobile a quest’età.
Questo bambino crescendo penserà che tutto gli è dovuto perché tutti lo fanno… …e tutto ciò che fa la massa è legge.
Senza tener conto che evitare qualsiasi tipo di frustrazione al Bambino farà di lui un debole, perché si troverà impreparato alle avversità della Vita che inevitabilmente ci sono.
La questione si complica ulteriormente se l’educando è un soggetto disabile ad esempio una persona con problemi mentali (ritardo, disturbi psichiatrici, etc). In questi casi il permissivismo si basa su una sorta di protezionismo esasperato che identifica la PERSONA disabile con la sua patologia.
A volte si pensa che una persona con disturbi mentali non sia in grado di svolgere dei compiti senza nemmeno chiederle di eseguirli. Ci si fossilizza sulle sue lacune e non si punta sul rinforzo o sullo sviluppo delle attività latenti.
Il disabile è persona.
Come tale ha una sua identità, autenticità, un suo modo di rapportarsi al mondo. La patologia che lo connota lo rende spesso soggetto di assistenzialismo ma chi se ne prende cura deve sempre mirare ad una forma di autonomia che gli restituisca dignità.
Il rapporto educatore-educando deve necessariamente passare, anche nel caso di persone con deficit di varia natura, attraverso una continua interazione, bisogna stabilire dei patti, fare dei contratti educativi, rinforzare gli atteggiamenti positivi e biasimare quelli sbagliati sempre nel rispetto delle varie patologie. Bisogna dare fiducia alla persona disabile. Spesso l’assistenzialismo passivo è un modo per non mettersi in gioco come educatori, si ha paura di fallire in un’impresa nuova e allora si parte dal presupposto che la persona di cui ci prendiamo cura “non è in grado di…”.
Certo non mancheranno le sconfitte, certo arriveremo al punto in cui diremo “per la sua patologia ciò non può farlo” ma almeno ci abbiamo provato, ma soprattutto avremo testato concretamente non tanto ciò che la Persona disabile non sa fare ma ciò che è in grado di realizzare, con una grande valenza positiva sull’autostima del disabile stesso. E non mi sembra poco.
Giovanna Simonetti
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