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Riflessioni da un Paradigma Sperimentale

Riflessioni da un Paradigma Sperimentale

di Domenico Pimpinellaindice articoli

 

Filosofia, religione, scienza

Novembre 2009

 

Riprendendo la tesi della costruzione in fieri dell’essere auto-poietico di terzo ordine, che si starebbe costituendo a tutti i livelli di animali pluricellulari, tesi trattata anche dal sociologo-filosofo Edgar Morin, abbiamo sostenuto che essa può essere condivisibile o meno, ma che  rimane tuttavia difficile difendere il punto di vista che questo sia anche il trend di una trasformazione in atto nella specie umana. A noi, infatti, appare chiaro che gli uomini non pensano assolutamente ad una tale evenienza. Così, ci sentiamo di potere affermare che la conoscenza emotiva, che starebbe spingendo tutte le altre specie animali a trasformarsi in una nuova opportunità esistenziale, in noi viene condizionata (fino ad essere stravolta), dall’elevato grado di  razionalità che oramai ci caratterizza.
Pur restando allora scritta nella nostra intima natura la necessità di costruire un essere auto-poietico di grado superiore (e dunque di amore),  il nostro operare raziocinante punta, da tempo oramai, su una rotta diversa, a volte addirittura contraria, che finisce per lacerare e spesso rompere quei legami sentimentali più o meno forti che già ci caratterizzano socialmente. Per questo, ci sembra più convincente sostenere che ci stiamo sempre più “egoisticizzando” che il contrario. Una simile affermazione, ne sono certo, apparirà a molte persone poco convincente, se non proprio errata. Infatti, non è facile sostenere che la tanto declamata socialità umana capace in apparenza come nessun’altra di unire migliaia e migliaia di uomini in comunità complesse come i clan, le città, le nazioni, sia un bluff. Anzi noi uomini sembriamo andare fieri di una socialità che crediamo la migliore possibile: la sola, nel mondo vivente, che sembrerebbe capace di portare esseri non consanguinei all’amicizia e all’amore. Come comporre una simile disputa? Chiedendoci, quantomeno, come sia possibile che un’elevata socialità possa risultare compatibile con l’elevato grado di egoismo che nessun uomo intellettualmente onesto, credo, possa disconoscere. In effetti, tanto egoismo e tanta socialità, se fossero entrambi autentici, non potrebbero coesistere nello stesso individuo, a meno che, ovviamente, una delle due non fosse falsa. Non è possibile, infatti, che ci si possa chiudere a riccio per difendere strenuamente una realizzazione esistenziale come l’essere auto poietico di secondo ordine ed essere capaci anche di aprirsi al massimo per permettere quel dialogo e l’accettazione dell’altro che ci permetterebbe di trascenderci in una nuova possibilità esistenziale di livello superiore.
La tesi, allora, che appare più plausibile è che la socialità umana non sia propriamente autentica, ma piuttosto un prodotto artefatto, confezionato ad hoc dalla nostra razionalità, perché possa  consentire una crescita indefinita di soggettività, che si è così trasfigurata in un innaturale egoismo. L’ampia socialità umana sarebbe, quindi, il risultato di un aumento solo quantitativo di rapporti, tendenti paradossalmente, a rendere più robusto il suo aspetto complementare e non di un aumento qualitativo che ci avrebbe effettivamente consentito di irrobustire e migliorare la trama delle relazionali sentimentali. Così, il massimo che la razionalità è riuscita finora a prospettare come percorso futuribile è un’esistenza pacifica di masse di individui in grado di vivere gli uni accanto agli altri. Ma nulla di più.
Confezionando i ragionamenti nel nostro nuovo paradigma (proposto nell’introduzione di questa rubrica) possiamo capire come e perché siamo arrivati a imboccare una direzione sostanzialmente sbagliata. La socialità, secondo il “paradigma ambivalente” può essere tanto prodotta dalla conoscenza emotiva che da quella razionale. Per i meccanismi con cui si esplica, l’emotività è una conoscenza “deterministica” in cui i gravi “errori” vengono eliminati quasi subito. E’ improbabile, quindi, che il “suo” tipo di socialità sia sbagliato e ci indirizzi, per così dire, sullo stesso obiettivo della soggettività, che non è certamente quello di assemblare esseri pluricellulari in una nuova società. La stessa cosa non si può dire invece per la razionalità che, essendo “interpretativa” e collaudabile su tempi molto lunghi, potrebbe anche risultare non appropriata. Partendo da questi presupposti, allora, la socialità emotiva e razionale avrebbero potuto accordarsi solo se quest’ultima avesse colto l’abbozzo di società già costruito dall’emotività e ne avesse raccolto l’intrinseca necessità. Ma allora dovremmo avere in ben altro conto le varie società che possiamo costruire, ad iniziare da quella piccola società che è la coppia. Ci pare quindi poco credibile che la razionalità abbia saputo cogliere il corretto concetto di socialità e l’abbia piuttosto interpretata e utilizzata come “opportunità” per incrementare le probabilità di sopravvivenza del singolo. Altrimenti, oggi dovremmo avere una fitta rete di relazioni, emergente sui singoli e non l’esatto contrario: con i singoli che si stagliano sempre più nitidi e chiari sul contesto. Se la razionalità avesse seguito un’interpretazione corretta dell’individualità si sarebbe accordato con la cogenza emotiva di massimizzare la socialità e minimizzare la soggettività e l’egoismo non costituirebbe il grave problema di oggi. E’ per questo motivo che ci ritroviamo sostanzialmente a seguire un insoddisfacente “progetto” finito, monco, di noi stessi, con l’emotività costretta all’angolo, il più delle volte impotente. Solo l’idea di doverci trascendere collettivamente in una nuova forma esistenziale superiore potrebbe salvarci! E’ l’unica idea in grado di scrollarci di dosso la finitezza, permettendoci di comprendere perché dovremmo possedere nei riguardi di ciò che già siamo un “pensiero debole”, come sostiene Vattimo, unitamente ad “uno  forte” condiviso,  per quanto riguarda il “sistema” che dovremmo sviluppare e realizzare nel nostro futuro. Continuare a non capire significa continuare a rifiutare di fatto l’”amore” per un ”egoismo” che utilizza la nuova intelligenza per mummificare assurdamente la nostra storia passata. Per far si che i più furbi possano continuare a tendere trappole ai più ingenui, per procurarsi quelle enormi energie che necessitano a chi aspira a diventare di fatto sempre più “chiuso” e solo in apparenza “aperto”.  
Questo è quello che riesce a dirci oggi la riflessione filosofica.

 

La religione, invece, ci dice altre cose. Ad esempio, che è un tentativo di correggere l’interpretazione d’acchito della razionalità, che si è ritrovata davanti un mondo frazionato che ci ha privato delle certezze dell’emotività e, dunque, di quell’Eden, in cui vivevamo “prima” che questo accadesse. Con la religione, la razionalità ancora ingenua delle origini ha cercato di togliere quella drammaticità con cui la consapevolezza della morte aveva tinteggiato in un primo momento le nostre esistenze. Lo stratagemma è consistito nell’introdurre, a fianco della sostanza materiale e corruttibile di cui è fatto il corpo, un’immaginaria sostanza immateriale,  incorruttibile ed eterna, con cui abbiamo forgiato l’anima quale elemento complementare, capace di ridarci quella pienezza di  senso che la primitiva rozza interpretazione razionale ci aveva tolto. E’ a questo stratagemma che per secoli abbiamo affidato la speranza di vedere realizzato quel genuino desiderio di eternità suggeritoci dalla conoscenza emotiva. Una speranza che non è per niente peregrina se considerassimo anche razionalmente la filogenesi quale nostra vera e autentica vita al posto dell’ontogenesi, come abbiamo sempre fatto. Certo, se non fosse stata per la religione probabilmente non avremmo retto alla devastante paura della morte. Saremmo stati atterriti e  paralizzati dall’idea di una fine sempre imminente. La religione, nelle varie forme culturali in cui è stata realizzata, ci ha messo indubbiamente a disposizione un salvagente che ancora oggi consente a tanti di non annegare nel mare del non-senso. Senza, però, l’errore di valutazione iniziale di un individuo circoscritto ed isolato nello spazio e nel tempo, l’anima con i suoi derivati non avrebbe avuto nessuna ragione di entrare in scena. Sarebbero stati sufficienti a dare un senso appagante alle nostre esistenze i legami spaziali costituti dai sentimenti verso gli altri e i legami temporali con la propria discendenza, se interpretati correttamente secondo la logica di una vera socialità. Una socialità comunque rivisitata dalle religioni che si sono dovute porre, non senza pregiudizio, all’ascolto delle proprie profondità, per poter costruire un sistema di valori in grado di rendere l’anima meritevole di essere premiata nella sua presunta esistenza ultraterrena. La socialità della religione, resta però una socialità che non chiede all’individuo di costruire con il suo corpo una nuova opportunità esistenziale sulla terra. Rimane, malgrado tutto, nell’errore di quel “peccato originale” di una conoscenza che ha preso fin dall’inizio una direzione sbagliata. Un tentativo di correzione che ha finito poi per adulterarsi ulteriormente allorché è subentrato un clericalismo che ha strumentalizzato il sentimento religioso per farne una facile fonte di potere: perfettamente in sintonia con l’idea che il singolo è destinato a restare tale anche nell’aldilà. E’ per questo che le religioni possono solo peggiorare l’uomo e non migliorarlo. Il punto nodale rimane l’idea errata che la socialità significhi prendersi cura dell’altro, invece che di se stessi; mentre, dovrebbe consistere correttamente nella cura di un sé (individualità ambivalente) in grado di muovere, insieme agli altri: verso una nuova forma esistenziale unitaria. L’unico obiettivo che potrebbe permettere di “salvarci” in una stabilizzazione collettiva, dove sarebbe davvero possibile realizzare con pienezza l’amore, l’armonia, la giustizia.

 

Man mano che l’uomo si è evoluto verso una migliore consapevolezza dei fenomeni, si è cominciata a fare strada un’intolleranza sempre più marcata verso quegli elementi posticci e irreali come le credenze immotivate, l’anima, la divinità e quant’altro che sfuggivano alla possibilità di essere analizzati. Grazie alla scienza, l’uomo ha iniziato ad allargare sempre più i propri orizzonti, sia esterni che interni. Il sistema neurale responsabile tanto della costruzione di strutture mentali fantastiche che di quelle reali (dunque, razionali per antonomasia) ha cominciato a fare dei distinguo tra le proprie creazioni, rendendo sempre più difficile al pensiero di nutrirsi di illusioni. Si è iniziato così un’opera di potatura di quegli elementi irreali che non potevano essere più aggregati con quelli reali e si è ritornati all’uomo nudo e crudo delle origini. Sostanzialmente dopo millenni e millenni di caritatevoli illusioni l’uomo è ritornato ad essere quell’essere circoscritto ed effimero delle origini razionali. Non è stato più però lo stesso essere fragile e indifeso di un tempo. Grazie ad un metodo efficace di ricerca poteva ora disporre di un potere immenso, che gli ha consentito di intervenire efficacemente  sull’ambiente per piegarlo ai propri bisogni veri o presunti che fossero. Grazie a questo potere, la tendenza naturale a modificare la propria omeostasi per adeguarsi all’ambiente è mutata. L’”esterno”, l’ambiente  (comprendente i viventi, compresi i nostri simili) poteva ora essere obbligato ad adeguarsi, anche violentemente, a noi. In questa esaltazione collettiva di potenza, si è così avviato un secondo adeguamento: una nuova consolazione. In alternativa a quello operato dalla religione, ma anche sommabile ad esso. L’idea della propria realtà finita e mortale è stata resa accettabile, dalla possibilità di trascorrerla in relativa sicurezza (anche se per un periodo limitato di tempo) e nell’abbondanza di agi e piaceri. Senza più la fastidiosa e costante compagnia della morte (allontanata verso la vecchiaia), abbiamo potuto rivolgerci all’idea di un progressivo e continuo miglioramento, anche restando sostanzialmente fermi. Forse non abbiamo trovato un senso soddisfacente ma certamente una consolazione che ci ha permesso di iniziare a disfarci di quelle sovrastrutture che, come gli epicicli tolemaici, avevano  finito per rendere l’esistenza una somma insopportabile di bugie. Come sempre accade, purtroppo, l’inerzia ci ha poi portato oltre il confine del dovuto. Ci siamo proclamati con enfasi demiurgica figli del caso. Senza sapere, forse, cosa questo significhi esattamente. Il progetto, anche se non divino, potrebbe esserci: confezionato dalla conoscenza emotiva che avrebbe visto la nostra migliore stabilizzazione in una forma auto poietica di ordine superiore. Cosi come si pensa sia già successo in  passato per alcune forme di vita sub-cellulare o per quelle cellule che hanno dato vita alle creature pluricellulari, quali noi uomini siamo.
Continuare a rispondere “caso”, come in passato si è risposto “anima”, potrebbe voler dire insistere su una visione dogmatica, su un individualismo che non può che traslarci in situazioni sconvenienti e pericolose. La Filosofia dovrebbe rispondere agli aggiustamenti operati in passato da una  razionalità immatura o frettolosa, con l’idea di appropriarci in maniera sempre più lucida del “progetto” elaborato dalla conoscenza emotiva, per migliorare quella socialità autentica che ci spingerebbe sulla strada del vivere sensato e felice.


Domenico Pimpinella

 

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