Riflessioni sulla Mente
di Luciano Peccarisi - indice articoli
La mente e la demenza
Ottobre 2018
Quando la coscienza si dissolve, comincia la demenza. Il cervello esprime la sua funzione, cioè la “mente”, attraverso due modalità, la coscienza percepita e l’altra invisibile di cui intuiamo l’esistenza solo indirettamente, l’inconscio. Viviamo nella cognizione cosciente, non abbiamo una sensazione del cielo, del mare o della terra, quella sensazione siamo noi. C'è un puro vedere, udire, annusare, toccare, sentire. La coscienza e la sua manifestazione non sono due cose distinte. Il mondo non è dato due volte, una là fuori, una qui dentro. Nonostante un’unica percezione è difficile, tuttavia, dominare la propria coscienza. Molto spesso ci accorgiamo che è solo la parte emersa, in un dato momento, di un mare profondo e insondabile. La parte che emerge acquista, dalla nascita alla morte, una sua fisionomia, ma è una maschera su di un corpo. Non siamo coscienze osservanti, libere e autonome. L’unica libertà è nell’immaginazione. Sia artistica, sia scientifica. Nella creatività, nella fantasia, nella scoperta e nell’invenzione.
Al cervello piace ripetere pensieri e azioni che già conosce. La maggior delle persone resta legato alle sue abitudini, credenze e convinzioni: la squadra del cuore, il partito, e perfino cambiare il posto a tavola o a letto crea disagio. Ognuno di noi però è convinto di essere l’artefice della propria vita. Non si accorge che è forse il risultato delle abitudini, riti, cerimonie, circoli imperfetti, modi di essere e di fare, cristallizzati. Tutto ciò porta alla formazione di reti neuronali consolidate. Il rinforzo dei circuiti cerebrali che danno origine agli automatismi sono necessari. Altrimenti come farebbero i grandi musicisti, ad esempio, a suonare per ore muovendo le dita su di una tastiera o pizzicando corde, se non ci fossero, dopo anni di allenamento vie, strade, percorsi neurali già pronti all’uso. Questo vale per qualsiasi attività del pensiero e dell’azione. Però ci sono gli effetti collaterali. Mangiare e bere un po’ troppo, fumare, vedersi la partita, andare in palestra, il cinema la domenica, il settimanale, il circolo, il solito lavoro, ecc. Molti desidererebbero cambiare, ma non lo fanno. Non serve il ragionamento; l’obesità, il fumare o il ripetere gli stessi comportamenti, non fa bene. Ma non “ci possono fare niente” dicono. La dittatura del cervello prevale rispetto alla libertà della propria mente. E’ un braccio di ferro, cambiare il modo di pensare e di essere, è una sfida difficile.
Il cervello e la mente nell’uomo non coincidono, anche se l’uno non può esistere senza l’altro e l’uno segua sempre l’altro. E’ l’unico trapianto d’organo in cui desidereremmo essere i donatori e non i riceventi. In ogni altro animale invece sono esattamente la stessa cosa, come le funzioni del fegato o del rene coincidono con il fegato e il rene. Mentre degli altri organi abbiamo almeno qualche sommesso borbottio, un ritmico movimento o un improvviso dolore, del cervello siamo inconsapevoli, non abbiamo notizie pur essendo il luogo in cui tutte le notizie si fabbricano. La mente umana, grazie all’interconnessione e l’intersoggettività creata dal linguaggio, collegandosi in rete, è diventata debordante dagli angusti confini delle meningi, dell’encefalo, del cranio e del corpo che la contiene. Una vera rivoluzione, come un computer isolato improvvisamente connesso a Internet cambia totalmente capacità e potenza. Questa nuova mente così estesa può sottrarsi dalle dipendenza del cervello biologico, anzi potrebbe perfino decidere di sopprimerlo, uccidendo però anche se stessa. Nessun cervello animale ha la possibilità di suicidarsi. Con la mente possiamo, senza proprio ammazzarlo, cambiare il cervello. La novità più grande conseguenza dei cervelli comunicanti è che ognuno cerca ora il senso della sua esistenza ed è per questo che deve creare una storia che lo dia. Il rapporto tra l’attività cerebrale e l’identità di una persona è un tema attualissimo, che fin dalle sue prime formulazioni moderne ha messo in questione il ruolo della narrazione: come può collegarsi l’operare dei miliardi di neuroni che compongono il cervello, e che procedono in parallelo senza un centro di elaborazione unitaria, con la linea narrativa in cui l’individuo cerca di strutturare la propria vita, facente capo al pronome “io”? Il filosofo Daniel Dennett ha presentato il sé come una singolare “rete di parole e gesti”, prodotta in modo solo parzialmente consapevole, che costituisce una componente essenziale della vita dell’individuo pur essendo esterna al corpo di quest’ultimo, così come la ragnatela per un ragno. Ma posto che il sé sia il prodotto dell’elaborazione cerebrale, per molti studiosi questa descrizione è ancora insufficiente a dar conto dell’esperienza soggettiva e del modo in cui in questa ha una relazione di passività e di attività rispetto ai processi cerebrali che ne costituiscono la base inconscia. Su questo punto neuroscienze, psicologia e letteratura hanno trovato un luogo d’incontro. La rete neuronale che si tesse durante la vita contiene la nostra storia. Ed è proprio quella rete che attacca la demenza. Se i nodi si allentano, si sfilaccia la continuità e dalle falle fuoriescono, come pesci, i ricordi per non tornare più, e perdersi nel mare. Platone temeva che con la perdita dell’oralità e con l’avvento della scrittura le persone sarebbero diventate più povere, perdendo la capacità di ragionare per mancanza di memoria. I greci trasmisero i grandi miti e i poemi conservandoli nella memoria. Lo stesso accadde negli arabi. Finché i poemi arabi non sono circolati presso le province orientali della Grecia, venendo così a contatto con una lingua scritta (la greca), essi sono stati conservati e trasmessi solo attraverso la memoria. Oltre ad essere garante della storia, del linguaggio e della cultura, la memoria è alla base della conoscenza umana. Conoscere è ricordare, dove il ricordo è innanzitutto un accordo tra il vecchio e il nuovo, che produce un filo conduttore coerente. Dal caos genera unità, sintesi, e infine la caratteristica di essere unici, tipica di ogni soggetto. E anche di quello strano oggetto mentale che chiamiamo “mondo”. Privi di memoria si è anche privi del mondo. In quelle reti rovinate, strattonate, rotte, non c’è più storia, narrazione, racconto, sentimento. Ecco perché l’impressione che si ha in un malato di Alzheimer, è di assenza dal mondo.
Luciano Peccarisi
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