"... so che un paese ci vuole"

Aperto da doxa, 06 Agosto 2023, 12:35:52 PM

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doxa




"La luna e i falò" è l'ultimo romanzo dello  scrittore Cesare Pavese. Lo scrisse  tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949,  poi pubblicato nell'aprile del 1950. Si suicidò il  27 agosto 1950.

Il libro racconta la storia di un uomo che, dopo aver vissuto molti per anni  negli Stati Uniti torna sulle colline delle Langhe alla ricerca della sua infanzia. 
 
La narrazione s'inoltra tra passato e presente,  fra eventi  sparsi nel tempo e nello spazio, collegati tra loro solo dai pensieri e dalle riflessioni del protagonista, soprannominato "Anguilla".

L'evocazione dei ricordi è vissuta insieme e attraverso il vecchio amico falegname Nuto, che era stato per Anguilla una figura paterna e che è sempre rimasto nel paese, vivendo i cambiamenti determinati dalla guerra.


Nuto: "Che cos'è allora un paese per te ?"

Anguilla: "Non lo so, ma so che un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".


Forse queste parole sono l'essenza del romanzo. Il narratore, emigrato e di età ormai matura, torna nel luogo della sua infanzia e giovinezza  e scopre che tutto è mutato, l'esistenza dei compaesani è divenuta più difficile.

Credo che accada a tutti, tornando nel luogo natio di provare la stessa esperienza.

Ritrovare alcuni odori, vedere i volti invecchiati, alberi sopravvissuti, edifici decadenti. Affiora, così, la nostalgia. Il flusso del tempo che passa ha sommerso quella società un tempo contadina.

Non rimane al narratore che ripartire verso un orizzonte lontano.


Phil

Potente è il legame fra paesano e paese, non solo nella nostra cultura; è questione di identità. Per coglierlo, basta riflettere sul significato della domanda, forse in declino nell'uso, «di dove sei?». Non è una domanda che chiede l'attuale residenza o la pro-venienza (come il "moto da luogo" di «da dove vieni?»); quel «di» sembra invece richiamare un'appartenenza (anche come partenza: il punto da cui si è partiti come esseri viventi), quasi un possesso da parte del proprio paese originario: «io sono di [paese]», come nel senso di «io appartengo a [paese]».
Si tratta di un "marchio" che segue l'individuo (anche sotto forma di codice fiscale) per tutta la vita al punto che anche un apolide o ogni abitante del "villaggio globale" può sempre affermare «sono di...». Già: «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via» (cit.).

Ipazia

Il problema è quando ti rendi conto che il paese non c'è più, divorato da non-luoghi che hanno cancellato tutte le tracce dei tuoi ricordi.

Al tempo di Pavese le trasformazioni urbanistiche non erano così repentine e violente come ora. Vi sono ancora luoghi risparmiati dalle ruspe e dai ruspanti, e chi ci vive se li gusta fino al giorno in cui anch'essi verranno cancellati.

Quando il paese da cui te ne sei andato non c'è più, la soluzione è andarsene di nuovo verso luoghi che conservino una vaga somiglianza con ciò che fu.

Una recherche che ha più a che fare con luoghi dell'anima che con luoghi reali. Quei luoghi dell'anima cui nessuna ruspa può accedere.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

doxa

#3
Grazie Phil per il tuo bel post.

Grazie anche a te Ipazia. :)
 
Identità e paesaggio: due concetti dai molteplici significati.
 
In che modo il paesaggio urbano e naturale diventano luogo  è riferimento per l'identità di un individuo ? 
 
Quale ruolo essi hanno nel processo di costruzione dell'identità degli adolescenti ?
 
Il tempo  trascorso in un locus è un importante fattore per la costruzione identitaria.
 
Da ricerche di psicologia ambientale risulta che i ragazzi non provano verso il proprio luogo di vita un forte senso di appartenenza. Il legame  è prevalentemente inconsapevole. Diventa palese se c'è il distacco forzato, come nel caso dell'emigrazione. Penso ai milioni di italiani che per motivi economici furono costretti a lasciare il loro paese con la speranza di trovare lavoro e benessere nella nazione di arrivo. Molti di loro fecero il viaggio di sola andata. Partivano con tristezza, nostalgia, lacrime, sapendo che non era certo il loro ritorno  in patria. 
 
Da qui l'interiorizzazione del luogo natio inteso come spazio assoluto ed incomparabile, specie per le persone anziane lontane dal territorio della loro infanzia e giovinezza.
 
Un ruolo importante ce l'hanno i  ricordi e le esperienze che i ragazzi associano ad essi.

doxa

Ciao Ipazia.  ;D

L'invasione edilizia ha trasformato paesi e città.

Per motivi parentali a volte torno nel luogo di mare che mi ha visto durante l'infanzia e l'adolescenza. Luogo che amavo, ma dagli anni '60 dello scorso secolo è stato trasformato in un locus adatto al nostro tempo. Tanti palazzi e palazzine, nuove strade, fabbriche, ecc..

Quasi immutato è  rimasto soltanto il centro storico. 

Ormai mi è indifferente quella località: era il mio luogo identitario, il mio  luogo dell'anima. E' diventato un altrove atemporale e atopico.

Da "luogo" lo considero "non luogo". E penso all'antropologo francese Marc Augé. Nel 1992 pubblicò il libro "Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité". In questo testo "luogo" e "non luogo" li considera due concetti complementari ma distinti.

"Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale, né storico si definirà un non-luogo" . Sono non luoghi gli spazi relativi al transito e alla circolazione di persone, merci, denaro, informazioni: le stazioni ferroviarie, gli autogrill, i sotterranei della metropolitana, le sale d'attesa degli aeroporti, ma anche i supermercati, le banche, le grandi catene alberghiere e ristorative, i campi nomadi e profughi nelle periferie delle città. Laddove i luoghi esprimono una storia e un'identità precisa, un genius loci, i non luoghi sono privi di storia, anonimi, simili gli uni agli altri. Laddove i luoghi invogliano le persone a stabilire relazioni sociali, i non luoghi si affollano di individui che non comunicano: la vocazione dei non luoghi non è infatti quella di "creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie".

Laddove i luoghi impongono i loro significati e la loro identità ad abitanti e visitatori, i non luoghi hanno significato solo per la loro funzione immediata (ristorazione, trasporto, sosta, ecc.) e sembrano per questo lasciare spazio alla personalità e inventiva di ciascun individuo, mentre invece dettano le stesse condizioni a tutti.

Ipazia

Qualcuno scrisse che gli antichi costruivano per l'eternità i loro luoghi identitari sociali: templi, palazzi, castelli, torri, ville, ponti, strade, ... Luoghi pubblici e pure privati per chi aveva risorse sufficienti.  Qualunque visitatore sensibile "sente" la forza di questi edifici costruiti per durare nel tempo, lontani anni luce dal concetto di "ciclo economico".

Ad essi si torna sempre con piacere, anche se non ci appartengono, perche ci appartiene la loro antica forza che rinnova la nostra voglia di vivere e creare, come fu per l'immenso poeta il suo ermo colle. 

Felici i luoghi che conservano ancora vestigia di questo antico spirito.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Se Ulisse partisse oggi, forse non riconoscerebbe facilmente Itaca al suo ritorno, tuttavia resta vero, come già avete sottolineato, che ciò dipende dal tipo di luogo di partenza: ruspe e trasformazioni urbanistiche tendono a coinvolgere le grandi periferie e i paesi "recenti", più di quanto facciano con i centri storici. Questo rende ancor più significativo il ruolo dei monumenti o dei borghi antichi: la loro immutabilità funge da affidabile coordinata spaziale, tutelata solitamente dal rispetto per il "bene culturale". A sua volta, la plasmabilità del paesaggio antropizzato che circonda tali punti fermi acquista più valore: non viviamo in un mondo di pietra o in quei paesaggi dentro le sfere di vetro, e il dinamismo (sociale, economico, etc.) non può non contaminare il territorio su cui avviene e reclama i suoi spazi. Questa convivenza fra strutture secolari (se non oltre) e strutture nuove (meno ambiziose e meno proiettate/progettate per l'"intoccabilità"), contenitori mutevoli di cui non si aspetta il deterioramento per "aggiornarle", incarna, a suo modo, la convivenza fra passato e futuro, fra ciò che hanno lasciato gli avi (da non modificare) e ciò che lasceremo ai posteri affinché sia usato, aggiornato, "adeguato" alla vitalità pulsante e cangiante, alle esigenze dei tempi.
Il "bisogno" che la nostra società ha (anche) di non-luoghi può essere quello di una indotta familiarità che, in molte prassi, agevola il vissuto che si dipana in tali luoghi: entrare in un supermercato della catena X (giusto per non fare nomi) a Trento o a Palermo, non fa molta differenza; con il risultato che anche il palermitano che fa la spesa a Trento (o viceversa), in quel luogo si sente a suo agio e sa già tendenzialmente come muoversi. I non-luoghi danno l'accoglienza amichevole della fruibilità organizzata, l'ergonomia di processi noti e probabilmente già incontrati altrove.
Il nostro "abitare" contemporaneo (abitare una società, non una casa), in generale, è scandito proprio dall'alternanza, con dialettica più o meno felice, fra luoghi e non-luoghi, fra "pietre miliari" o "segnalibri biografici" che la nostra esistenza lascia in un posto ed esperienze delocalizzate e serializzate in molti non-luoghi (sebbene anche questi possano diventare soggettivamente luoghi speciali: il cinema del primo bacio, il supermercato in cui si apprende una notizia che cambia la vita mentre si è in fila alla cassa, etc.). Se così non fosse, non abiteremmo il "presente medio" del nostro tempo (dove «medio» non è dispregiativo), bensì in un luogo "fuori dal tempo", ossia luoghi incontaminati dal presente e isolati da non-luoghi (ad es. il classico paesino dove "il tempo si è fermato", esperienza di vita tuttora possibile). Oppure ci troveremmo in un non-luogo isolato da luoghi (un contesto urbano senza elementi storici), come suppongo capiti in molte metropoli statunitensi dove "antico" è al massimo un edificio che magari ha "appena" un paio di secoli. La nostra "esperienza architettonica" italiana, che ci circonda quasi ovunque di edifici che hanno solcato molti secoli, può renderci forse un po' più malinconici di fronte al cambiamento e alla anonimizzazione dei nuovi sviluppi urbani, ma si tratta di un'esperienza secondo me "privilegiata" proprio per la dialettica fra vecchio e nuovo, fra luogo e non-luogo, fra antiquariato e contemporaneità. Il nostro sguardo, a differenza di quelli che ci hanno preceduto, può contemplare sia selci scheggiate che templi, sia castelli che grattacieli, in una "profondità storica" da vertigine.
In fondo, l'alienazione dal proprio contesto spaziale di un non-luogo (che potrebbe essere situato ovunque, non presentando i tratti tipici di un contesto localizzabile) fa da contraltare all'alienazione dal proprio contesto temporale di un luogo (che potrebbe essere di qualunque epoca, o come si dice «di epoca incerta», non presentando i tratti tipici di un contesto temporalizzabile, sebbene le riproduzioni storiche da noi non vadano comunque troppo di moda). Esemplificando: da un'immagine che rappresenta l'interno di un'albergo, non è facile capire dove esso sia; così come da un'immagine che raffigura qualcosa di simile a Stonehenge non è facile capire di che epoca sia, se esso sia un'installazione di un artista contemporaneo o una struttura millenaria (così come in Usa ci sono cattedrali neo-gotiche non appartenenti al periodo gotico). La perpetuazione (o rivisitazione o imitazione) di uno stile estetico nel tempo, lo aliena dal tempo (della sua epoca originaria), così come la standardizzazione uniformata di uno stile estetico lo aliena dallo spazio in cui è. Ovviamente se si riconosce il luogo in questione o se ci sono chiari indizi, è possibile temporalizzarlo e localizzarlo; ma spero si sia capito il possibile (per nulla necessario o dominante) parallelismo a cui alludo fra non-luogo/spazio e luogo/tempo (oltre all'evidenza che il non-luogo si estende in più spazi, senza differenziarsi, come il luogo si estende in più tempi senza differenziarsi, se non per il deperimento superficiale).
Tale dialettica fra luogo e non-luogo si applica forse più difficilmente a luoghi principalmente naturali; per quanto, a ben vedere, anche una pineta può essere, a suo modo, un non-luogo: non si somigliano forse tutte? Certo, non ci sono al Polo Nord o nel deserto, ma lì non ci sono nemmeno supermercati e cinema. Non sarebbe "naturale" che la funzionalità dell'habitat animale e vegetale, che si insedia e si adatta in determinati terreni e climi, fosse un non-luogo tanto quanto la funzionalità dell'habitat antropizzato, che si instaura e sviluppa in determinati "terreni e climi" (anche intesi socialmente ed economicamente)? Fermo restando la profonda asimmetria fra il nostro godere psico-fisico nell'immergerci momentaneamente nella funzionalità di un habitat naturale, a differenza del disagio che può provare un animale o una pianta ad immergersi nella funzionalità di un habitat antropizzato (inquinamento docet).

Ipazia

Citazione di: Phil il 07 Agosto 2023, 15:27:54 PMSe Ulisse partisse oggi, forse non riconoscerebbe facilmente Itaca al suo ritorno, tuttavia resta vero, come già avete sottolineato, che ciò dipende dal tipo di luogo di partenza: ruspe e trasformazioni urbanistiche tendono a coinvolgere le grandi periferie e i paesi "recenti", più di quanto facciano con i centri storici.

Di qui il mio amore per i borghi dell'Italia centrale che hanno resistito ad ogni tipo di inquinamento urbano.

CitazioneTale dialettica fra luogo e non-luogo si applica forse più difficilmente a luoghi principalmente naturali; per quanto, a ben vedere, anche una pineta può essere, a suo modo, un non-luogo: non si somigliano forse tutte?

Per chi non le frequenta e conosce. La natura, anche quando subisce l'impronta umana, se non si riduce a mera agricoltura o pascolo, ha una grande creatività che presto si sovrappone all'utilitarismo umano e acquista una propria identità. Vale per un bosco e un giardino cui sia lasciato un minimo di libertà di crescere secondo i suoi ritmi e preferenze.

Perciò anche nelle foreste e montagne di roccia si ritrova quel resistenziale "ritorno al paese", che il proprio paese natio sovente non offre più. Essendo talvolta così orrendamente antropizzato, da non averlo offerto mai a chi vi è nato.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

doxa



Le percezioni e le convinzioni soggettive riguardo persone o luoghi vengono idealizzate.
Sono d'accordo.

L'idealizzazione induce l'individuo all'affettività verso una persona o un luogo. Lo so per esperienza personale...

Questo processo mentale inizia quando consideriamo soltanto gli aspetti positivi. 

Idealizzare le persone che non si conoscono personalmente (come cantanti, attori,...) è una tendenza tipica dell'adolescenza.

Nell'ambito della relazione amorosa il/la potenziale partner diventa un ideale di perfezione. In questo caso il bisogno di mettere sul piedistallo l'altro/a rivela la  carenza di autostima

Quando l'idealizzazione è eccessiva non ci fa  considerare la realtà con oggettività.

All'inizio di una storia d'amore l'idealizzazione è normale e  induce all'innamoramento.

C'è chi idealizza il/la partner per un profondo bisogno di attaccarsi emotivamente.

Penso che oltre all'idealizzazione dipenda anche dall'autosuggestione positiva verso una persona o un luogo. Il soggetto crede in aspetti e circostanze che non corrispondono alla realtà.



Ipazia

Vi è pure il contrario dell'idealizzazione affettiva dei luoghi ed è il processo di anomizzazione che luoghi celebri subiscono diventano baracconi del business turistico e della speculazione immobiliare. Da luoghi che erano diventano non luoghi al pari dei supermercati. Espulsi i paesani, restano i turisti e si insediano facoltosi presenzialisti apolidi, mentre scompare il "paese che ci vuole".
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
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