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Spiritualità atea

Aperto da Ipazia, 11 Novembre 2020, 22:35:29 PM

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Ipazia

Riguardo a Dante, come dice Sini di Heidegger: "Quando sono grandi, sono grandi". Il mio ateismo è accogliente: ricicla tutto anche dal teismo quando è di buona qualità umanistica.

Che la filosofia sia spiritualità atea è noto fin dai tempi dei presocratici. Peccato si sia abbandonato quel profondo e salvifico canale dell'evoluzione umana senza dogmi. Ma si può tornare a navigarlo dopo la morte del dio Unico (e delle sue chiese ridotte a fucine di shahid e vaniloqui altisonanti).

Che si parli poco di tale morte è per rispetto ai superstiti che, secondo Jacopus, è carente, per cui gli atei dovrebbero darsi una regolata del tipo: non parlare di corda a casa dell'impiccato.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

niko

Io nel leggere la lettera a Meneceo penso sempre che il problema di fondo sia che per morire nell'oblio bisogna già in vita essere conoscenza, quanto della vita già qui e ora non è conoscenza (istinto, inconscio, recessi impercepibili del corpo), non morirà nella forma dell'oblio, perché non essendo nel polo iniziale del ragionamento epicureo, non può trasmigrare nel polo opposto, quindi tutto ciò che è istintuale non morirà nella forma dell'oblio.


Quindi mi tocca concludere che tutto ciò di me che non è coscienza...


o morirà in altra forma, altra dall'oblio;


di altre forme possibili con cui potrebbe morire il corpo e con esso l'istinto/intuito, per citare due risposte filosofiche ovvie e molto date nella tradizione, o una forma implicante realmente il nulla ontologico, e non il mero oblio (insomma non solo il nulla gnoseologico, non solo la larva della tradizione omerica che vaga nell'ade cieca e sorda ma quantomeno vegetativamente vivente anche se non sa di esserlo, vivente per eventuali altri -il campo di coscienza vuoto-, ma proprio il buco nero dell'inconcepibile, vero nulla, in cui non si è più, ne per se, ne per gli altri -il campo di coscienza nullo, e non solo vuoto-), o una forma di morte implicante la disgregazione, e non il mero oblio, semplicemente si muore perché non si è più uno, ammesso che anche l'istintuale e il pulsionale abbia bisogno dell'unità per vivere, ma in un certo senso, io lo sento già da ora vivere nella molteplicità, e ne dubito)


o non morirà mai: proprio quello che è già oblio, sopravvive alla morte come oblio, e non c'è altra morte, altro tipo di morte, che possa piegarlo. Insomma tutti convergono sull'idea che tutto quello che sappiamo di essere morirà con la nostra morte, ma noi non siamo tutto quello che sappiamo di essere, ci influenzano gli istinti, il destino, il carattere, i casi strani, le alternanze di coscienza e oblio, e su questo anche, quasi tutti convergono, e da qui le varie speranze più o meno fondate di immortalità. Rispetto a quello che sappiamo di essere siamo, in un certo senso di più, perché influenzati da tutte le cose che ho detto prima e dalla dinamica stessa della conoscenza che può aumentare e diminuire, e in un certo senso di meno, perché se c'è anche un'ombra di una minima verità oggettiva al mondo, molto di quello che sappiamo di essere sarà falso rispetto a questa verità oggettiva.


Insomma sta di fatto che per morire completamente all'oblio, bisogna essere completamente scienza, coscienza e conoscenza, in questo deve esaurirsi l'identificazione umana, perché se viceversa non si esaurisce in questo, non si muore completamente di oblio e la verità è più complicata, ovviamente si può essere convinti di essere identificati compleamente con la trasparenza a sé stessi e l'autocoscienza (il vero saggio), e credere per ciò coerentemente di morire di oblio, e accettarlo serenamente senza preoccuparsene, come fa Epicuro.


Però allora bisogna convenire che questo tipo di morte è ricompensa del vero saggio e rarissima, perché più un individuo è bruto e rozzo, (o anche si tratta di un dignitosissimo animale non umano, e della sua morte) meno mi viene facile credere che il suo essere coincida perfettamente e specchiatamente con la sua conoscenza e autocoscienza.


Il problema però è sempre la morte dell'altro.
L'inconscio, il pulsionale, sono l'altro della coscienza, quest'altro "c'è" sempre, anche se non lo percepiamo come tale, sappiamo della sua esistenza, tranne forse nel più irriverente e avventuroso solipsismo, perché non siamo onniscienti, e perché e cause di cui nulla sappiamo possono avere effetto su di noi; insomma difficilmente si dubita del caso o destino, di una gran parte del mondo che non dipende dalla nostra volontà, dell'oggettività di eventi e percezioni che accadono intersoggettivamnte e involontariamente, e si conosce la libertà dell'altro entrando in relazione con lui e difficilmente si dubita di questa libertà. L'altro è l'altro, nel senso di altro essere umano con cui ci si relaziona, ma anche tutto il "resto del mondo", l'oggettività e la sostanzialità non illusoria del mondo, in quanto non-io e non-volontà dell'io, è altro. E tra questo altro c'è il nostro inconscio, il nostro carattere, il nostro destino, il ricordo del nostro apprendimento passato subliminale sempre operante, tutto quello che ci influenza involontariamente e non consapevolmente.


La morte dell'altro è possibile, appunto, ma non nella forma dell'oblio che già è.


ma che il "già-in-vita-oblio" sia indistruttibile è ipotesi, non certezza, potrebbe esservi disgregazione, annullamento eccetera. La mia impressione è che gli individui evoluti, anche se accettano la consolazione di Epicuro in quanto alla morte propria, si preoccupano e si fanno carico della morte dell'altro, perché quando ci muore una persona amata abbiamo esattamente la rivelazione che la morte, quantomeno la morte dell'altro, è il contrario esatto dell'oblio, ed Epicuro su questo punto non ci consola, anzi si capovolge: quando c'è la morte dell'altro, noi ci siamo, e quando noi ci siamo, c'è la morte dell'altro, quindi è un problema non da poco, questo.


Volendo restare sempre in Epicuro e nella lettera, direi che per la morte dell'altro c'è solo la considerazione che i dolori insopportabili non durano a lungo, nel senso che anche il dolore fa parte della coscienza, quindi ogni dolore attuale è compatibile con la coscienza, e se diamo alla coscienza il significato di vita (come lo dà lui, che crede di morire nell'oblio, quindi di essere interamente trasparente a se stesso, di non avere parti inconsce, beato lui), allora ogni dolore è compatibile con la vita, quindi ha qualcosa di buono o quanto meno di migliorabile, di compatibile con una sopportazione attiva.


Che ogni dolore sia compatibile con la coscienza, è proprio la conseguenza della funzione naturale di valvola di spegnimento del sonno, coma o morte, quindi noi sentiamo solo i dolori delimitati entro la coscienza, quelli in cui la nostra "vita" continua, quindi se diamo alla vita il valore di bene, nei dolori il bene continua, e al livello di quelli in cui non continua si spegne la coscienza.


Quindi la mortalità della vita può valere come speranza, il dolore si alterna e, anche istantaneamente considerato, si completa, sfuma nell'opposto, o, col piacere o con la morte/oblio, quindi in generale è sbagliato relazionarsi al dolore come a un eterno e a un non-delimitato, il dolore, anche quello per la morte dell'altro, è sempre un ospite di passaggio, perché si risolve o morendo, o riscoprendo la gioia e il piacere, giocoforza per natura e per destino una delle due accade, mentre chi è disperato a seguito di un lutto, spesso è intrappolato in una falsa eternità in cui sembra non possa accadere nessuna delle due cose, assume il suo dolore come eterno e quindi non può superarlo.



Ci hanno detto che potevamo scegliere tra la pace e il climatizzatore, non abbiamo ottenuto nessuno dei due.

Ipazia

Va da sè che una volta preso filosoficamente atto dell'ineluttabilità della nostra morte, si prende atto anche dell'ineluttabilità della morte dei nostri cari e questa consapevolezza aiuta ad "elaborare il lutto" e sopravvivere pure al dolore.
La spiritualità immanente si appoggia, nell'elaborazione del superamento della morte, all'immortalità del pensiero e dell'opera della parte più incisiva della nostra specie. Persistenza post mortem che riguarda anche i nostri cari: nella memoria e nella carne, sangue e pensiero che quella presenza vivente ha edificato in noi stessi.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

green demetr

Ma tu Nico sei dunque per una forma di vita spirituale, afasica o apatica?
Io come te credo che l'intuizione non muore con questa vita, essa si reincarna sempre.
Credo l'intuizione muore se non nutrita però. Così alla fine dei tempi (ogni settimila anni).
Cosa siano questi settemila anni, o cosa sia gli eoni, ha veramente importanza?
Sono intuizione che vengono portate avanti. Da altri tempi, da altri luoghi.
Che noi tutti in quanto anime individuali eterne portiamo appresso.
Che poi questo Mondo senziente sia conosciuto sotto gli abiti di questo corpo e di questo pensiero, forse questo è obliabile.
Ma non il rispondere alle chiamate degli DEI, al DESTINO, che si chiama DIO UNICO.
Il DESTINO è l'unico che non è obliabile.
Per questo credo in una spiritualità attiva, e dunque eminentemente filosofica.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

Socrate78

@Ipazia: Non è affatto così facile elaborare il lutto partendo semplicemente dalla constatazione dell'ineluttabilità della mia morte e di quella dei nostri cari, perché il dolore provocato dal lutto va ben al di là delle constatazioni della ragione secondo cui la morte è un male ineluttabile e comune e quindi non ha senso disperarsi! Di fatto ci si dispera, ci si addolora anche se non ci si può far nulla. L'immortalità del pensiero è illusoria, infatti io posso ricordare per tutta la mia vita la persona cara, ma il ricordarla non mi consola dal dolore (anzi, forse lo accresce) ed inoltre quando anch'io morirò non potrò più ricordare e quindi la morte sarà completa. Solo per alcuni uomini illustri il ricordo rimane e si tramanda ai posteri, ma anche in questo caso esso prima o poi svanirà, perché anche il mondo come noi lo conosciamo non è eterno, ha un limite nel tempo.
La spiritualità atea quindi non consola, non redime la morte e nemmeno riesce a darle un senso, se si è atei la morte è solo un enorme iattura e il fatto che riguarda tutti non consola affatto, dimostra solo la comune desolante miseria dell'uomo.



bobmax

La morte di chi ci è caro è forse la situazione che più di qualunque altra ci fa ritrovare al limite del comprensibile.

Se non ci lasciamo sommergere dalla disperazione, e allo stesso tempo evitiamo di diluire il pathos con riflessioni razionali perché così è la vita, ma resistiamo, lì sul limite, sull'orlo dell'abisso, allora... potremo forse trascendere.

Chi, cosa amavo e amo?

Questo addio per sempre, questo nulla inaccettabile ma reale, mi costringono a cercare dentro di me la Verità.
Tardi ti ho amata, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amata. Tu eri con me, mentre io ero lontano da te.

Ipazia

@Socrate78: Anche la spiritualità atea ha la sua grazia per gli eletti. Essa richiede un apprendistato ancora più impegnativo della grazia religiosa perchè, a differenza del teismo, insegna a vivere senza alcuna rete di protezione. Il cammino della grazia atea si conclude con: let it be. FN la chiamava: amor fati.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

viator

Salve Socrate78. Citandoti : "La spiritualità atea quindi non consola, non redime la morte e nemmeno riesce a darle un senso, se si è atei la morte è solo un enorme iattura e il fatto che riguarda tutti non consola affatto, dimostra solo la comune desolante miseria dell'uomo".


Quindi è meglio assai la spiritualità non atea, poichè essa permette di soddisfare istanze ben più APPAGANTI (leggere : EGOISTICHE) quali l'autoconsolazione ed il senso (il senso delle cose consiste in una qualche utilità - non importa a quale livello e forma - delle cose stesse). Infatti il senso della morte per i non-atei consiste nel veder negata la morte attraverso la beatitudine (piacere anch'esso di radice egoistica). Salve.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Socrate78

Solo apparentemente si tratta di un obiettivo e di un piacere egoistico, in realtà l'aspirare alla visione beatifica di Dio è un obiettivo nobile e santo, poiché sulla Terra gli uomini per quanto possano avvicinarsi non possono mai esprimere un amore perfetto, totalmente disinteressato e assoluto come quello di Dio, che va al di là della nostra limitata comprensione e portata. Quindi nella visione beatifica si raggiunge il pieno sviluppo dello spirito, che deriva da Dio e ha in Dio il suo culmine. E in una prospettiva atea? In una visione atea l'uomo è solo un organismo particolarmente evoluto frutto del caso, ma è di fatto una MACCHINA, pensieri, sentimenti, valori, empatia, tutto ciò che costituirebbe lo spirito, non sarebbero altro che epifenomeni della materia e di fatto non esisterebbero veramente, sarebbero solo formule chimiche e scariche elettriche. Quindi di quale spiritualità si parla?  Qualsiasi azione in una prospettiva atea sarebbe permessa, anche la più abietta, perché non esistendo una parte spirituale la coscienza morale diventa solo il prodotto di condizionamenti culturali, che possono essere benissimo modificati, annullati e cambiati per infiniti motivi, giustificando anche un genocidio se si accampano determinate motivazioni! Infatti il socialismo reale, ateo per definizione, ne ha commessi di crimini giustificati in nome della "causa" del comunismo, tutto il male derivava proprio dall'ateismo che negava all'uomo la dignità spirituale e nello stesso tempo con superbia riteneva che si potesse stabilire senza Dio che cos'era giusto e che cosa invece sbagliato.
L'ateo quindi se è onesto con se stesso deve ammettere che il suo stesso ateismo conduce al nichilismo etico ed è per definizione la negazione della spiritualità.

viator

Salve Socrate78. Piccoli infortuni dovuti alla tua smisurata foga religiosa.

Prima affermi ".............un amore perfetto, totalmente disinteressato e assoluto come quello di Dio, che va al di là della nostra limitata comprensione e portata".......dando per scontata l'imperscrutabilità dei disegni (ovviamente sempre amorevoli, quindi includenti anche le nascite di bimbi deformi etc.)........................



......................poi quindi inserisci : " Infatti il socialismo reale, ateo per definizione, ne ha commessi di crimini giustificati in nome della "causa" del comunismo, tutto il male derivava proprio dall'ateismo che negava all'uomo la dignità spirituale e nello stesso tempo con superbia riteneva che si potesse stabilire senza Dio che cos'era giusto e che cosa invece sbagliato.".........dando per scontato l'opposto, cioè che solo ascoltando la volontà (che diventa ora scrutabilissima) di Dio si può discernere il giusto dallo sbagliato.
Tutto questo all'interno della solita minestra riscaldata circa la congenita perversione morale dell'ateismo. Salutoni
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Donalduck

Non essendo ateo, bensì agnostico, anzi direi agnostico radicale, la mia spiritualità è molto diversa da quella atea.

Cominciamo col dire che il termine ateo in questo contesto è inadeguato. Se si parla di un Odifreddi e della concezione del mondo a cui la sua preghiera laica è ispirata si dovrebbe parlare di materialismo o fisicalismo, di quella tendenza del pensiero che ritiene che la coscienza e tutto il mondo psichico siano un sottoprodotto della materia-energia definita dalla fisica, nell'interpretazione più riduttiva un "epifenomeno", termine che non spiega e non chiarisce nulla ma tiene solo a rimarcare che la psiche non ha alcun reale potere causativo.
Ateo può anche esserlo qualcuno che crede nella magia o in qualche "al di là", ma Odifreddi non è questo tipo di ateo, è, appunto, un materialista o fisicalista.

Per chi ha una posizione del genere parlare di spiritualità significa necessariamente rifugiarsi nella metafora e nella poesia, avvalendosi della sua indefinitezza, del suo status di territorio franco dal punto di vista gnoseologico. Chi parla poeticamente non si assume la responsabilità di ciò che dice, la poesià non è confutabile e non ha regole. Questa è l'unica possibilità perché in realtà nella sua concezione del mondo non c'è spazio per una spirituaità che non sia un gingillo della mente privo di consistenza.

Nella mia posizione agnostica, caratterizzata dal motto "non credo in niente, ma non escludo nulla" (motto che ovviamente si applica anche a sé stesso, rispecchiando la natura paradossale, ossia razionalmente contradditoria, che attribuisco all'esistenza in generale) la spiritualità è qualcosa di molto pratico (spiegherò in seguito cosa intendo). E, a proposito di pratica, ovviamente questo mio non credere in niente non mi impedisce, in pratica, di credere in qualunque cosa trovi convincente e di comportarmi di conseguenza; ma è sempre un credere tra virgolette, conscio della sua fallibilità e transitorietà e del suo essere sempre relativo a un contesto.

Qualcuno ha citato Jiddu Krishnamurti, una figura che considero importante per diverse ragioni.
Per prima cosa, pur non rinnegando (né avvalorando) le conoscenze cosiddette "esoteriche", si è rifiutato di assumere il ruolo di maestro spirituale che gli era stato destinato dai teosofi da cui era stato formato, rivendicando e incoraggiando l'autonomia spirituale e di pensiero di ogni individuo. Per lui non ci sono maestri e discepoli collocati su piani e con ruoli distinti e definiti e il suo sforzo constante è sempre stato quello di non insegnare, ma di stimolare le facoltà mentali e spirituali. Sollecitava le domande, ma non dava risposte, rispondeva invece con altre domande, perché era convinto che qualunque risposta che venga dall'esterno non faccia altro che deprimere le facoltà dell'individuo e renderlo dipendente e ottuso.
Un altro principio importante da lui instancabilmente (e prolissamente) ribadito è quello della "libertà dal conosciuto", che la maggior parte dei seguaci della scienza ignora totalmente (per seguaci della scienza intendo non gli scienziati, ma coloro che hanno *fede* nella scienza, gli attribuiscono illimitate possibilità e il monopolio della conoscenza). In sintesi K. metteva in evidenza il fatto che normalmente ogni conoscenza deriva da una conoscenza precedente. Qualunque nuova esperienza viene inquadrata e interpretata servendosi del materiale precedentemente accumulato. Questo preclude qualunque conoscenza autenticamente nuova, che invece richiede un'apertura mentale, una ricettività inaccessibile per chi non riesce ad uscire dal recinto del conosciuto. E chi crede di "sapere" si guarda bene dall'evadere da questo limitante ma rassicurante territorio (questo lo dico io).

La lettura di Krishnamurti mi è risultata subito congeniale, per quanto un po' pesante, perché ho sempre avuto la tendenza a rifiutare l'autorità in tutte le sue manifestazioni, in particolare nel campo del pensiero. E in particolare l'autorità del sapere tradizionale, di cui non nego il valore, ma che diventa un fardello e un ostacolo se viene visto come vincolante.

E' probabile che questa lettura abbia influito sulla mia risoluzione, avvenuta un paio di decenni fa, di intraprendere una mia personale ricerca spirituale, basta proprio sulla mera osservazione di "cio che è" (un concetto sul quale anche K. insisteva) cercando di disfarmi di ogni preconcetto e di prescindere nei limiti del possibile da ogni conoscenza precedente. Questo chiarisce cosa intendevo dicendo che per me la spiritualità è qualcosa di molto pratico: l'esplorazione del mio mondo interiore, psichico, che vedo ben distinto da quello "esterno" per quanto ad esso evidentemente correlato. E da questo punto di vista trovo abbastanza fuori luogo sia la pratica di andare a cercare nei libri di psicologia ciò che solo noi possiamo osservare, sia quella di andarlo a cercare nelle religioni o nelle dottrine esoteriche.

Le religioni ritengo che siano soltanto degli apparati di potere, i più devastanti che siano mai stati concepiti, perché cercano di soggiogare non solo la volontà delle persone, ma anche la parte più profonda ed evoluta della loro psiche, i loro sentimenti più intimi, quello che viene chiamato "bisogno di spiritualità", facendo leva, come tutti i sistemi di potere, sulla paura e sulle debolezze umane.

Ma anche le scuole esoteriche finiscono col diventare dei sistemi di potere e di fossilizzazione delle conoscenze (ammesso che siano tali) e chiedono, come le religioni, di credere, di aver "fede" e spesso anche di venerare qualche individuo come se fosse una specie di dio. Si differenziano dalle religioni perché propongono dei sistemi di pensiero dotati di una certa coerenza e non sconclusionati come i dogmi religiosi e delle pratiche rivolte a sviluppare le proprie facoltà spirituali. Ma in definitiva, come le religioni, tendono anch'esse a trasformare gli uomini in burattini.

Tutto questo credo che sia devastante per lo spirito umano e sia antagonista della vera spiritualità, che non può che fondarsi sull'autentica esperienza diretta e non su fantasie o presunte conoscenze di qualcun altro, anche se il confronto con l'esperienza e il pensiero altrui è indubbiamente utile.
Questa ricerca per me implica anche la radicale messa in discussione di tutto quello che ho imparato nel corso degli anni e l'abitudine a non dar mai nulla per scontato, se non a fini eminentemente pratici.

Se dovessi dare un'indicazione a chi è interessato alla spiritualità direi: "se vuoi conoscere qualcosa di spirituale, smetti di credere e osserva e sperimenta".

sapa

Leggendo la lettera a Meneceo, che non conoscevo, mi ha colpito questo passo: "Questo genere d'uomo sa anche che è stupido credere che il fato sia padrone di tutto, come pensano alcuni; le cose accadono o per necessità, o per volontà della fortuna o per volontà nostra. Se la necessità è irresponsabile e la fortuna instabile, invece la nostra volontà è libera: per questo può meritarsi lode o biasimo.
Al posto di essere resi schiavi del destino dei materialisti, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placare le divinità con le preghiere, invece di quest'atroce, inflessibile Necessità. Al contrario, la fortuna per il saggio non è una divinità come per la gente comune — la divinità non fa nulla a caso — e neppure qualcosa priva di consistenza. Il saggio non crede che il caso arrechi agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che la fortuna può avviare grandi beni o grandi mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi, piuttosto che fortunati e stolti; nella vita quotidiana, poi, preferisco che un bel progetto non vada in porto, piuttosto che abbia successo un progetto dissennato."
Vi trovo l'ateismo, anche se prima vengono riconosciute le divinità, che è il frutto del'immanenza e della ricerca della saggezza. La spiritualità atea in questo testo è la ricerca della saggezza. Volersi dedicare a interpretare il volere degli dei è inutile, meglio dedicarsi ad altro. Condivido.

Jacopus

Grazie Sapa. Molto interessante e anticipatore di qualche millennio rispetto a molti studi non manichei sulla libera volontà: caso (tyche), necessità (ananke) e libera volontà (praxis), concorrono insieme e in modo relazionale alla creazione del mondo.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Ipazia

Il frammento di Epicuro riportato da Sapa pone l'accento sulla volontà.

La volontà è ciò che rimane dopo che la scienza ha dato tutte le sue risposte.

E' il resto non sussumibile nella casualità e causalità del determinismo naturale.

E', in ultima analisi, l'agente della spiritualità immanente, che da se stessa deve trarre la sua ratio, il suo senso. Non nella solitudine di un io autoreferenziale, ma nella dimensione sociale contenuta nell'ultramillenario, precristiano, testamento spirituale di Epicuro.
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