Senza Dio la storia umana è priva di senso

Aperto da Alexander, 22 Ottobre 2021, 10:14:37 AM

Discussione precedente - Discussione successiva

JE

CitazionePer quanto stretto, non al punto da superare lo schermo sottilissimo ma impenetrabile della realtà.


Ma non ne ha alcun bisogno; non ne é mai uscita, ne é sempre stata all'interno  :)  Altrimenti non potrebbe nemmeno esistere!

Ipazia

Il primo libro di storia che mi regalarono in terza elementare si intitolava res gestae e trattava delle vicende di Roma antica. Fino allora mi avevano sempre regalato libri di favole e racconti per bambini. Compresi allora la differenza tra storia e favola, carne e immaginazione.

Imparai più tardi come sulle favole si possono costruire storie millenarie e come la storia può essere convertita in favola. Ma la distinzione ab origine tra storia e favola rimane. Dove c'è storia c'è sempre senso: il senso di chi ha vissuto quella storia.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

JE

CitazioneImparai più tardi come sulle favole si possono costruire storie millenarie e come la storia può essere convertita in favola. Ma la distinzione ab origine tra storia e favola rimane. Dove c'è storia c'è sempre senso: il senso di chi ha vissuto quella storia.


Per molti versi vale anche il contrario, della favola che diventa storia... Ma soprassederò! cito il punto per dire che anche la "storia" che conosciamo la conosciamo in quanto immaginata da noi come tale.


Ad ogni caso, la nostra esperienza della nostra fantasia, e il modo in cui esperienziamo/ne facciamo fare esperienza agli altri rimane nei limiti della realtà.


La realtà include tutto ciò che esiste, per cui anche le forme dell'immaginazione, condivisa o meno. E, come tutte le sue parti, ha potere oltre i limiti che noi vorremmo porgli per la via razionale.


Ad esempio un incubo di venire preso e ergastolato potrebbe fermare un tentato omicidio prima che avvenga; una giusta immagine nella mente di un ladro potrebbe rendere una rapina un successo; ed una storia scritta ad hoc potrebbe far ragionare diversamente un giovane, che agendo diversamente agirà sulla storia diversamente.

Kobayashi

Alexander ha sottolineato la necessità di distinguere il racconto della propria vicenda privata dalla storia collettiva. Ciò che manca non sono le favole con cui intrattenersi nello spazio privato o attraverso cui decifrare i fatti della propria vita. Ciò che manca è un senso da assegnare all'avventura collettiva, che pretende verità, oggettività, universalità.
La valorizzazione (parziale) del racconto che incide solo sul privato può essere fatta solo dopo l'ammissione della perdita del senso di ciò che è comune. Cioè la fine non solo della religione ma anche della politica, con tutto ciò che ne consegue in materia di asservimento alle forze dominanti.
Il segreto dell'occidentale che non solo riesce a fare un po' di filosofia senza concludere nel suicidio, ma che sembra a tutti gli effetti sereno, allegro, appassionato, è l'attaccamento alle sue proprietà, al suo benessere, alle sue abitudini che 100 anni fa sarebbero state definite con disprezzo "borghesi".
Non si tratta affatto di un oltre-uomo, di un soggetto che è stato capace di trovare un senso al di là della debolezza del riferimento alla trascendenza, ma di un individuo il cui senso immanente è veramente poca cosa. Una creatura identica all'essere umano disegnato dal liberalismo classico: esclusivamente mosso dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e di ottenere un minimo riconoscimento sociale. Questo è il giocatore.
E il gioco non sarebbe vano?

Ipazia

Potenza e atto, condizionale e indicativo, sono separati comunque da quel fatale diaframma del segno, che soltanto l'atto ha il potere di incidere nella realtà consegnandolo alla storia che viene in tal modo signi-ficata.

Spetta poi alla sensibilità dei sapienti liberarne il significato, così come un musicista ha accesso ai significati di una composizione preclusi al profano.

Il concetto di "vanità" è assai labile e soggettivo. Ciascuno lo applica ai valori dell'altro senza vederlo nei propri. Anche la modernità ha le sue favole (successo) e la sua teologia (mercato, capitale) coi suoi sacerdoti (influencer, esperti, politici). Valori collettivamente perseguiti, non più "vani" della fede antica.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Ipazia

Citazione di: Kobayashi il 27 Ottobre 2021, 08:51:07 AM
Il segreto dell'occidentale che non solo riesce a fare un po' di filosofia senza concludere nel suicidio, ma che sembra a tutti gli effetti sereno, allegro, appassionato, è l'attaccamento alle sue proprietà, al suo benessere, alle sue abitudini che 100 anni fa sarebbero state definite con disprezzo "borghesi".
Non si tratta affatto di un oltre-uomo, di un soggetto che è stato capace di trovare un senso al di là della debolezza del riferimento alla trascendenza, ma di un individuo il cui senso immanente è veramente poca cosa. Una creatura identica all'essere umano disegnato dal liberalismo classico: esclusivamente mosso dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e di ottenere un minimo riconoscimento sociale. Questo è il giocatore.
E il gioco non sarebbe vano?
Il segreto è stato rivelato da Nietzsche nello Zarathustra quando racconta la morte del funambolo antico ucciso dal funambolo moderno. La folla esultante per il nuovo nume non è affatto assimilabile all'oltreuomo, bensì all'ultimo uomo, il lobotomizzato finale  dalla favola (capitalistica) della modernità borghese, volgare e in-significante. Tant'è che Zarathustra si assume pure il fardello del nume disarcionato, fino a pietosa sepoltura nella madre terra.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

daniele22

Citazione di: Alexander il 26 Ottobre 2021, 01:01:53 AM
Naturalmente rifiutando l'immagine ingenua e stereotipata del credente che avete, obietto che  il cercare nella filigrana della storia la presenza del divino non toglie nulla alla scoperta, giorno per giorno, del divenire storico. Il credente semmai sente un compito più pressante del non credente: dare ragione della propria fede attraverso e malgrado il senso di vanità della storia umana che avverte. Leggere una eventuale storia nascosta che scorre assieme a quella ordinaria che tutti viviamo. Compito arduo perché l'inganno è sempre in agguato. L'inganno però gioca con ognuno di noi, credente o non. Il credente non conosce l'epilogo della storia, certo non più del non credente. L'unica differenza sta nelle fede in un autore e che questi sappia quello che fa. Riprendendo l'esempio del bambino che ascolta una storia, si dirà allora che il credente ha fiducia che ci sia un narratore che conosca l'epilogo. Attende allora la scoperta di questo epilogo. E questo è un atto di fede. La storia nel suo divenire allora lo interpella e vaglia la sua fede, perché è là, nella mancanza di senso, che può trovare o rifiutare il Dio/ autore, diventando così, con la sua scelta di ascoltare o meno, un custode oppure un imbrattatore del racconto. Frumento da granaio o pula.

Buongiorno a tutti: estraggo due parti di discorsi sentiti

Ipazia:"Il concetto di "vanità" è assai labile e soggettivo. Ciascuno lo applica ai valori dell'altro senza vederlo nei propri."
Kobayashy: "Alexander ha sottolineato la necessità di distinguere il racconto della propria vicenda privata dalla storia collettiva. Ciò che manca non sono le favole con cui intrattenersi nello spazio privato o attraverso cui decifrare i fatti della propria vita. Ciò che manca è un senso da assegnare all'avventura collettiva, che pretende verità, oggettività, universalità."


Chiedo perdono Alexander, comunque ho detto che la maggior parte dei credenti sarebbero per me dei superstiziosi, non tutti i credenti. D'altra parte ci sarà pur un motivo per cui si dice che Dio è morto.
Vanità? A cosa debba riferirsi il senso di vanità di cui narra Calvino? La mia sensazione, ovvero la mia opinione, è che morto un Dio se ne farà un altro, anzi, si fa da sè. Come può essere che Dio sia morto? E' morto poiché è arrivata pian pianino la ola dello spirito ateo. Sappiamo da dove e da quanto tempo è partita questa marea, almeno in occidente. L'io non vuole più Dio e comincia a spingere e lo fa sempre più, con una forza simile a quella fatta a suo tempo dall'idea di Dio, ma in tempi più brevi se vediamo la cosa rispetto all'idea generale di un culto all'oltre vita. Vedi qualche nuovo Dio all'orizzonte? Dovrebbe esserci in giro da qualche parte. Lì sta il nuovo Dio e lì dovrebbe evidenziarsi l'epilogo della storia umana. Forse Calvino rappresentò nel suo personaggio il senso di vanità riferendosi all'inefficacia dell'agire umano per uscire dal cerchio degli dei. Questa sfida (intellettuale), se uno ci crede e sempre ammessa l'esistenza di qualche candidato a Dio in giro per le strade, potrebbe pure costituire un dar senso alla vita.


Finché scrivevo Ipazia ha prodotto un post su Nietzche, che purtroppo non conosco


InVerno

Onestamente non capisco una questione di fondo, l'intera questione della "morte di Dio" è praticamente unanimamente rappresentata come la morte di un padre, ma la morte del padre fisico è certamente una tragedia che può mandare in confusione i figli per periodi più o meno lunghi, ma con il passare del tempo non solo arriva l'accettazione, ma anche forse l'amara realizzazione che si trattava di un evento necessario alla propria crescita,, che và interpretato non rifuggito, perche è solo la nostra fine del mondo come "figli" e apre ora la strada ad un nuovo mondo. Non era Dio quello che quando chiudeva una porta, apriva una finestra?
Alexander dice che i suoi bambini scalpitano per conoscere l'epilogo.. le persone mature normalmente godono l'attesa dell'epilogo, anzi penso che uno degli atti masochistici più comici sarebbe quello di andare a leggere l'epilogo di un libro prima di iniziarlo. La bellezza ci riporta ad essere bambini, porta i nostri occhi a meravigliarci ancora, per chi sa ancora meravigliarsi il mondo è pieno di epilog-hi perchè la nostra innata fantasia si innesca, e con essa il nostro mondo è salvato.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

iano

#38
Citazione di: Kobayashi il 27 Ottobre 2021, 08:51:07 AM
Alexander ha sottolineato la necessità di distinguere il racconto della propria vicenda privata dalla storia collettiva. Ciò che manca non sono le favole con cui intrattenersi nello spazio privato o attraverso cui decifrare i fatti della propria vita. Ciò che manca è un senso da assegnare all'avventura collettiva, che pretende verità, oggettività, universalità.
La valorizzazione (parziale) del racconto che incide solo sul privato può essere fatta solo dopo l'ammissione della perdita del senso di ciò che è comune. Cioè la fine non solo della religione ma anche della politica, con tutto ciò che ne consegue in materia di asservimento alle forze dominanti.
Il segreto dell'occidentale che non solo riesce a fare un po' di filosofia senza concludere nel suicidio, ma che sembra a tutti gli effetti sereno, allegro, appassionato, è l'attaccamento alle sue proprietà, al suo benessere, alle sue abitudini che 100 anni fa sarebbero state definite con disprezzo "borghesi".
Non si tratta affatto di un oltre-uomo, di un soggetto che è stato capace di trovare un senso al di là della debolezza del riferimento alla trascendenza, ma di un individuo il cui senso immanente è veramente poca cosa. Una creatura identica all'essere umano disegnato dal liberalismo classico: esclusivamente mosso dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e di ottenere un minimo riconoscimento sociale. Questo è il giocatore.
E il gioco non sarebbe vano?
Mi pare si voglia dire che nel passaggio da individuo a collettività vi sia una dispersione di senso, senso che sembra quindi proporzionale alla possibilità certa di individuazione del soggetto.
Ma fino a che punto la nostra capacità di percepire individualità  , cosa in se' relativa, si può assumere a discrimine nel determinare cosa sia individuale e cosa collettivo?
La scienza ci suggerisce oggi che ogni individuo è in effetti una collettività.
Una storia , per essere raccontata, pretende di avere dei protagonisti ben delineati , ammettendo forzature allo scopo.
Così si dice che Newton ha fatto un opera geniale, ma quell'opera andrebbe raccontata, se fosse facile farlo, come artificio di una collettività umana.
Il problema nel raccontare la storia come si dovrebbe, è che non è possibile attribuire azioni consapevoli alla collettività, mentre là si può attribuire a un prestanome che si presti come soggetto ben definito della storia da raccontare.
Si finge un soggetto , Newton, per poter raccontare la storia della gravitazione universale.
Senza voler togliere nulla a Newton, ma per poter raccontare una storia molto si deve togliere e semplificare, riducendo la collettività operosa ad un emblema.
È la collettività ad operare, ma non è consapevole di farlo.
Questa mancanza di consapevolezza impedisce alla collettività di essere indicata come il soggetto della storia.
Alla collettività possono essere attribuite solo azioni insensate, e non è con quelle che si può scrivere una storia sensata, il cui senso però diventa necessariamente forzato, riducendo la storia, che è sempre storia collettiva che si svolge continuamente,, a una storia di poche date e pochi nomi da mandare a memoria.


La coscienza è individuale, ma ogni individuo lo si può vedere come una collettività .
Quindi in questo quadro cosa è la coscienza intesa come procacciatrice di senso?
Se l'umanità, intesa come individuo, ha perciò una coscienza, noi non possiamo accedervi, seppure là determiamo.
Ma se essa, l'umanità, in quanto dotata di coscienza, produca un senso, non siamo noi individui a darglielo.


Naturalmente i miei sono discorsi non poco cervellotici, se non proprio confusi,  ma vogliono mettere in luce quanto sia fuori luogo trarre da essi, una volta rivelato il carattere relativo dei soggetti del discorso, motivi di frustrazione e depressione.
Diciamo pure che la cosa sfiora il ridicolo, così io la chiuderei con una salutare risata.
Lo scoraggiamento e la depressione possibili sono sempre proporzionali alla importanza che ci diamo.
Quando le aspettative su di noi sono troppo alte allora non possono che andare deluse.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Ipazia

Vi sono epoche più fortunate in cui una coscienza collettiva appare e fa la storia. Altre più decadenti in cui si elabora il lutto degli dei (de)caduti o, meno saggiamente, come fece Giovanna detta la pazza col feretro del marito, li si porta in giro ovunque sperando in una improbabile resurrezione, mentre si ammorba l'aria circostante.

Questa è un'epoca parimenti necrofila che ha ridotto gli individui a cavie per esperimenti biotecnologici e sociali, simulando coscienze collettive da zombie mediatici, da cui è meglio stare alla larga, attingendo alle risorse di storie collettive e individuali più sane.

In attesa che passi la nottata.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

iano

#40
Ma, se una collettività possiede una coscienza, per quanto sembri una idea pazzoide, e per quanto io stesso l'ho proposta, questa non appare e scompare, e sopratutto gli individui che compongono la collettività non vi hanno accesso.
Così come non hanno accesso alla nostra coscienza gli individui, le cellule di cui siamo fatti.

Perciò quelle cellule lamenterebbero una vanità, una mancanza di senso, se potessero?
Chi può dire che le cellule non abbiano la loro coscienza, già che siamo in vena di stramberie?
Anzi, sarebbe ragionevole attribuire coscienza ad ogni essere vivente, ma in diverso grado, con l'accortezza  però di non mettere su un piedistallo chi più ne ha, non foss'altro perché chi poca ne ha , beato lui, sente poca o nulla vanità .
Ma se il senso di vanità è proporzionale alla coscienza posseduta, essendo in noi in aumento, allora si capisce da dove nasce la crisi di senso.
Forse il problema non è una mancanza di senso relativa alla collettività , ma ad una ridefinizione individuale per causa di incremento di coscienza.
Non siamo fatti noi esseri viventi  di "tutta coscienza", ma in parte variabile, da quasi nulla a quasi troppa.
Non credo che averne o non averne sia un merito on demerito, e il problema non è quanta ne abbiamo, ma come varia.
Magari abbiamo solo un problema di assestamento e di ristrutturazione dell'io individuale.
Sarebbe saggio credo parlare di individualità e collettività come concetti relativamente intercambiabili.
Un insieme variabile di elementi, essendo l'insieme , esso stesso , elemento.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Alexander

Buongiorno a tutti



Mi sembra che la state facendo un po' troppo complicata. Il mio era un discorso più terra-terra, che partiva dalla premessa che intendevo il termine "senso" nell'accezione di scopo, significato:
A - Ho fede nell'esistenza di Dio= la storia umana ha un senso, che non conosco, e questo genera un sentimento di vanità, ma che conosce Dio e questo le conferisce un senso.
B- Non credo in Dio= la storia umana scorre senza un senso, che qualcuno mi possa dimostrare che esista, e questo genera un sentimento di vanità.


Il discrimine è la fede in Dio, che non mi salva dal sentimento di vanità della storia collettiva umana.
Questa era la tesi.
Il senso delle storie individuali che ognuno cerca in sè o nelle relazioni è del tutto relativo, non può conferire senso oggettivo alla storia collettiva.
L'unica cosa che può conferire un senso oggettivo è solamente l'eventuale presenza di un Autore.
A meno che qualcuno non dimostri l'esistenza di un senso in mancanza di un autore della storia.State facendo molte ipotesi interessanti, ma non dimostrate nulla.Potrebbe essere il tempo, il divenire, l'evoluzione , le relazioni, la condivisione, ecc. Tutto evanescente. Appena mi soffermo ad osservarle attentamente, ecco il senso di vanità. Eventualmente, se sono un credente in Dio, solo un "retrogusto" un po' dolce, ma anche amaro, si agita dentro quel senso che mi opprime. Non posso nemmeno dimostrare l'esistenza di Dio, ho solo fede in un autore del racconto. Fede che, come tutti i sentimenti, va e viene. Così ho solo questo gusto un po' dolce a volte, ma più spesso amaro.

Jacopus

#42
Il problema Alexander consiste anche nella trama della storia. Una trama caotica, se si vuole credere in Dio e contemporaneamente alle scoperte della paleontologia e dell'astrofisica. Infatti che senso avrebbe far dominare la vita a semplici batteri per diversi miliardi di anni, poi creare i crotosauri, che si estinguono quasi completamente e vengono sostituiti da altre forme di vita, fino all'avvento dei dinosauri, anche loro estinti per via dell'impatto di un meteorite sullo Yucatàn. Vi sono state in tutto cinque o sei estinzioni di massa sulla terra e già questa circostanza rende dubbia l'arca  di Noè. I dinosauri sopravvissuti evolvono in uccelli e da piccoli roditori evolve l'uomo. La vita sulla terra è stata resa possibile da un impatto iniziale con un altro pianeta, Theia, i cui resti hanno formato la luna. L'acqua, indispensabile alla vita, è giunta attraverso il bombardamento iniziale di meteoriti. Per qualche milione di anni la terra è stata ricoperta completamente da centinaia di metri di ghiaccio, in epoche differenti scorreva la lava a fiumi. Se c'è un architetto autore  di tutto ciò, ha scelto un tipo di architettura che potremmo definire "quantistico/caotica".
Pertanto il " discrimine" è abbandonare ogni tesi consolatoria e affrontare la realtà, per la quale sono stati trovati molti " sensi" possibili, uno dei quali è proprio la "ricerca" della verità, passando da Ulisse, fino a Galilei e Freud, anche quando la verità fa male. Parafrasando Voltaire, il senso della vita sta nella cura che ognuno di noi deve dedicare al proprio giardino.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Alexander


Io non penso che credere in Dio sia una tesi consolatoria. La fede punge parecchio e proprio di fronte alle scoperte scientifiche chiede un salto nel vuoto non indifferente. E' quasi più consolatorio pensare che possa trovare un senso soddisfacente alla mia vita nella cura del mio orticello privato. Non mi chiede molto, in fin dei conti, la cura del mio giardino. Ultimamente significa abbandonarsi alla corrente, al senso comune. Cosa che non richiede molta fatica intellettuale, né molta catarsi individuale. Rinuncia a prendere in considerazione quel che senti e provi e abbandonati nelle braccia della Madre Scienza, che ha tutte le risposte. Se non ci sono domande esistenziali,se rinunciamo a farcele perché ci dicono che è un'attitudine superata, non è necessario nemmeno trovare delle risposte. Una risposta necessita sempre di una domanda. Purtroppo le domande sorgono lo stesso, anche se cerchi di reprimerle perché ti dicono che sono superate. Sono là. Il senso della vanità della storia umana si prova lo stesso, anche se ti dicono che è superato provarlo. Anzi, forse più te lo dicono e più ti sembra pungente.  :)

Jacopus

Alexander. In realtà è la religione, sopratutto quelle della tradizione monoteistica a pensare di avere tutte le risposte. La scienza non è madre, è un metodo, il cui primo principio è proprio di non sapere nulla. Che il senso comune sia scientifico è tutto da dimostrare e, dal mio punto di vista, sarebbe un grande passo avanti per l'umanità. Pensare scientificamente non significa non poter godere di un tramonto o di chiedersi spiritualmente il senso della vita. La scienza, a differenza delle religioni (soprattutto le monoteistiche) non si arroga la presunzione di avere una risposta ad ogni quesito. Se vuole rispondere ad una domanda, cerca di rispondere con delle prove "reali" e non con " tradizioni tramandate".
Infine, la cura del proprio giardino ha un significato non solo individualista in Voltaire, ma un senso collettivo. Banalmente se io guardo un giardino ben curato da qualcun altro, ne trarrò giovamento io stesso, estemporaneo osservatore di quel giardino.
Homo sum, Humani nihil a me alienum puto.

Discussioni simili (5)