Poetica del sottosuolo

Aperto da Sariputra, 16 Ottobre 2017, 11:46:55 AM

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Sariputra

Mi son destato da un sogno, o meglio da un incubo. Mi son immaginato che l'uomo fosse sempre stato cieco. Tutti gli uomini, di tutti i tempi erano, sono e saranno ciechi. Che società si sarebbe potuta sviluppare con cotanta cecità totale? Proprio una cecità fisica, ineliminabile, completa. Ora, sappiamo che spesso associamo l'immagine del vecchio cieco alla saggezza. Il cieco sembra dominare di più i propri appetiti sensuali, la propria concupiscenza verso il mondo. Non vedendolo, il mondo perde gran parte, se non tutta, la sua illusoria fantasmagoria che tanto ci tiene avvinti ad esso. Ma che mondo degli uomini si sarebbe potuto costruire? Guerre sicuramente non sarebbero state possibili: avete mai visto le talpe muovere a guerra? E come, se non ci si vede? Forse , proprio come queste sotterranee creatura, avremmo preferito, nei secoli, costruire città sotto terra. Un vasto dedalo di cunicoli con incroci dove c'è la possibilità di allargare le braccia per sentire se qualche altra persona  arriva dalla parte opposta... ma vi rendete conto? Non case come verticalità ma case come profondità. Non più una poetica dello spazio ( alla Bachelard...), di abitazioni che vanno verso il cielo e che hanno la ragione come tetto e la cantina come inconscio/spiritualità, ma case che , come radici fittonanti, affondano nel terreno e che hanno la cantina/inconscio come 'tetto' e l'abisso del sottosuolo come meta...un mondo rovesciato. Poi...che edonismo si sarebbe potuto sviluppare? E quali sarebbero i cibi di creature autocoscienti, financo intelligenti, che abitassero le profondità del terreno? Che delizia nelle carote, nelle patate e nelle arachidi e come proteine...succulenti vermi giganti ? Che forme religiose e di conforto si sarebbero potute sviluppare? Le divinità forse sarebbero state associate al calore e non al cielo. Perché, più si scava e si va in profondità, più si percepisce il calore del Centro. Allora forse avremmo avuto una 'spiritualità del centro', in cui l'illuminato ( che ovviamente non sarebbe potuto esistere perché, se non si può percepire la luce, quale idea di illuminato sarebbe stata possibile?...)...allora forse si sarebbe chiamato come l''irradiante' ( associandolo al calore...)...una spiritualità del 'centro' dicevo in cui l'obiettivo dell'uomo era quello di avvicinarsi, sotterrarsi sempre più verso il calore del centro...Vedete come due misere cosette che abbiamo in viso creano il mondo? E senza quelle due misere cosette tutto il mondo così come lo conosciamo non esisterebbe?Tutto il nostro mondo è creato dal senso della vista. Che poesie d'amore avremmo composto , senza la vista, come abitatori del sottosuolo?...
Le mie carezze ti sfiorano,
come sento il tuo calore,
desidero invero
la tua profondità;
portami verso il tuo Centro,
o mio diletto amore.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

InVerno

Ho dubbi che si sarebbe sviluppata una cultura (etimologicamente parlando, coltivare sottoterra non è facile) sufficiente alle poesie, però questo post di uomini-lombrichi va dritto dritto nella mia raccolta "il grottesco della settimana" (e io adoro il grottesco, non è un insulto) grazie. P.s. Se il surriscaldamento globale continua l'idea di vivere sottoterra potrebbe non essere cosi peregrina!
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Phil

Senza vista nessuna scrittura (il braille è stato comunque inventato da vedenti), nessuna teoria o teoresi (theoresis, "visione"), nessuna idea di prospettiva (qual'è il senso che arriva più lontano? qual'è l'unico senso "selettivo", ovvero che può "zoomare" filtrando altri stimoli sensoriali?), e senza tutto ciò non c'è scienza né filosofia né arte; probabilmente ci saremmo fermati prima dell'homo sapiens e persino il pollice opponibile sarebbe risultato piuttosto inutile (che se ne farebbe una talpa?  Eppure, essendo nella sezione spiritualità, senza vista e senza pollice opponibile, forse la talpa non ha uno "spirito corrotto" come l'uomo vedente e visionario ;D ). 
Non saremmo nemmeno stati consapevoli della nostra cecità, perché se non si conosce la vista, almeno per sentito dire, la cecità non esiste in quanto tale. Indubbiamente, ognuno di noi ha le sue cecità, di cui talvolta nemmeno si accorge (si può vedere la propria cecità?), ma questa è forse un'altra storia...

Angelo Cannata

In effetti si potrebbe ritenere che, se non c'è un crescere, un camminare, un progredire, a poco serve essere ciechi o essere vedenti.

Tuttavia, a me sembra che, a partire dalla filosofia greca, ci siamo avviati su una strada micidiale che ha portato all'oggi, in cui i ragazzi preferiscono guardare lo schermo del loro smartphone anche quando vanno in bicicletta, nonostante il paesaggio in cui si stanno muovendo sia meraviglioso. Il paesaggio ci può ricordare che esiste anche il sognare, cioè un nostro vivere che fa a meno del vedere fisico con gli occhi e del ragionare, ad esso collegato, ma uno schermo elettronico non fa che favorire l'oblio di questa nostra facoltà.

Anche l'odierno imporsi del capitalismo, dei mercati, delle banche, della tecnologia, è tutto un fondarsi sulla vista che ragiona, calcola, elabora strategie, e intanto perde sempre più di vista tutte le ricchezze che stanno nel proprio sottosuolo.

La filosofia greca cominciò elaborando i dati visivi: acqua, aria, terra, fuoco, sostanze e accidenti, e da lì si sviluppò tutto un filosofare che fino ad oggi fa fatica a liberarsi dalle maglie della razionalità tradizionale. Perfino la conclusione di Heidegger sull'uomo come "essere per la morte", nel cantare il fallimento di una tradizionale ontologia dell'essere in quanto essere, in quanto non contraddizione, in realtà ha portato avanti l'ostinazione verso un modo di pensare ancora razionalista, lasciando intendere che, secondo ragione, non ci rimane che morte. Secondo ragione, appunto!

I filosofi "analitici" si contrappongono a quelli "continentali" e si sentono orgogliosi di essere più scientifici, più oggettivi, più critici, ma che cos'è questo essere analitici se non un ulteriore ostinarsi nelle vie della razionalità, del vedere, del padroneggiare, allontanandosi dal sognare, dall'arte, dalle immense ricchezze del sottosuolo umano?

Ci sono filosofi che indagano sull'io, sul fenomeno dell'autocoscienza, ma anche in questo caso lo fanno ancora nelle coordinate della razionalità tradizionale, nel desiderio nascosto di ingabbiare l'esistenza umana delle maglie della scienza.

Credo che oggi la filosofia abbia bisogno di sotterraneità, perché è da lì che secondo me si va poi al pratico, non col buttarsi a capofitto in politica, armati solo di confuse, profondamente acritiche, buone intenzioni.

Apeiron

Tuttavia, a me sembra che, a partire dalla filosofia greca, ci siamo avviati su una strada micidiale che ha portato all'oggi, in cui i ragazzi preferiscono guardare lo schermo del loro smartphone anche quando vanno in bicicletta, nonostante il paesaggio in cui si stanno muovendo sia meraviglioso. Il paesaggio ci può ricordare che esiste anche il sognare, cioè un nostro vivere che fa a meno del vedere fisico con gli occhi e del ragionare, ad esso collegato, ma uno schermo elettronico non fa che favorire l'oblio di questa nostra facoltà.

Riflessione corretta Angelo, però non posso (e forse non è la tua intenzione  ;) ) dare tutta la colpa ai Greci (fino ad Aristotele), bensì ad una mentalità che si è sviluppata subito dopo Aristotele che ha voluto per così dire imprigionare la realtà nella nostra "mappa", voler fare in modo che la realtà "è a misura dell'uomo". No, non lo è.  Abbiamo fatto l'errore che hanno fatto i Confuciani secondo i Daoisti, ossia ingabbiare la vita in un concetto arbitrario ossia abbiamo ingabbiato la realtà, ciò che è, nella convenzione. Motivo per cui abbiamo fondato TUTTO sul senso della vista, che è quello più usato dall'uomo (e meno usato dalla talpa  ;D ). Il problema (e qui consiglio il film Arrival) è che il nostro linguaggio, compreso quello filosofico, nasce ovviamente dall'esperienza e da come "siamo fatti", quindi non possiamo veramente concepire una vita senza vista. 

"Dao" significa "Via" (che invero è un "sinonimo" di "Verità e Vita" e quindi di "Dio" anche per la Bibbia) mentre "divino" è una parola legata a "luce", qualcosa di "visibile". Se esiste un Dio , deve essere nostro come deve essere delle talpe e dei pesci dei fondali e degli eventuali alieni. I daoisti non credevano che la "realtà assoluta" fosse un "Dio Persona" (anche se forse avevano un concetto simile ma lo ritenevano "un grado in meno" del Dao), bensì il "Dao", il Grande Camminare o più precisamente il Camminare che "non sa di Camminare", perchè è la Spontaneità, la Libertà (e quindi è un cammino "pacifico" e "fermo" perchè non ci si sforza come nel solito cammino) ecc. Perchè ho tirato in ballo il Dao? Semplice il cammino umano e quello delle talpe è diverso, ma qualcosa in comune ci deve essere. Ma possiamo apprezzare il cammino delle talpe: la vista d'altronde ci porta "lontano" dal Cammino, perchè ce lo fa "osservare" anziché "vivere spontaneamente". Il Dao d'altronde è invisibile. Forse il "Dio" delle talpe non sarebbe una Persona lontana nell'Alto dei Cieli, ma sarebbe vicino, qui e ora, enghýzein (ah no è un termine usato nella Bibbia, quindi forse anche per noi vedenti non è davvero lontano  ;D ), sarebbe una presenza più intima. Forse sarebbe legato a quel Calore del Centro  ;D  La Via, il Cammino, Dao ecc...
(ovviamente concordo con Sariputra)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Sì, infatti ho scritto "a partire dalla filosofia greca" per attribuire a noi e non alla filosofia greca la responsabilità. Non potrei scivolare in questo, perché proprio in questi giorni sto leggendo Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, il quale mostra che la filosofia greca non era un freddo speculare, ma un vero e proprio cammino di ascesi, spiritualità, con tanto di esercizi interiori, meditazione, che discepoli e maestri praticavano.

Nemmeno sono per un buttarsi interamente nell'irrazionalità, nella mistica: credo che la razionalità conservi tutto il suo valore, va solo gestita, resa amica dell'arte. Mi piace il modello simbolico espresso da Piero Angela, che nelle sue trasmissioni ama spiegare tutto scientificamente, ma non esita a mettersi al pianoforte e lasciarsi prendere dall'arte musicale.

Credo che sia questo il problema, il malinteso, della "caduta delle ideologie": le ideologie non sono cadute, si è solo creata confusione nella loro molteplicità, nei loro pluralismi, e così la gente superficiale ha pensato che fossero cadute. Di per sé anche Heidegger sembrava già aver pensato ad una specie di fine della filosofia. In entrambi i casi, mi sembra facile osservare che chi parla di fine di qualcosa spesso non si accorge di star parlando in realtà di fallimento del suo modo di intendere quella cosa.

Io credo che perderemmo sia gli occhi che il sottosuolo se non trovassimo modi di valorizzarli entrambi e farli dialogare. Ci vogliono sintesi, che non siano semplici giustapposizioni, ma si dimostrino armoniche. Secondo me questo, con un po' di lavoro è possibile. In altre parole, il ciclista che si sbilancia un po' a destra e un po' a sinistra, in realtà non si limita soltanto ad affiancare, sommare questi due tipi di movimento, ma ne crea uno nuovo, armonico, sinusoidale, in grado di conciliarli entrambi in una sintesi creativa e umana.

Apeiron

Citazione di: Angelo Cannata il 17 Ottobre 2017, 00:37:33 AMSì, infatti ho scritto "a partire dalla filosofia greca" per attribuire a noi e non alla filosofia greca la responsabilità. Non potrei scivolare in questo, perché proprio in questi giorni sto leggendo Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, il quale mostra che la filosofia greca non era un freddo speculare, ma un vero e proprio cammino di ascesi, spiritualità, con tanto di esercizi interiori, meditazione, che discepoli e maestri praticavano. Nemmeno sono per un buttarsi interamente nell'irrazionalità, nella mistica: credo che la razionalità conservi tutto il suo valore, va solo gestita, resa amica dell'arte. Mi piace il modello simbolico espresso da Piero Angela, che nelle sue trasmissioni ama spiegare tutto scientificamente, ma non esita a mettersi al pianoforte e lasciarsi prendere dall'arte musicale. Credo che sia questo il problema, il malinteso, della "caduta delle ideologie": le ideologie non sono cadute, si è solo creata confusione nella loro molteplicità, nei loro pluralismi, e così la gente superficiale ha pensato che fossero cadute. Di per sé anche Heidegger sembrava già aver pensato ad una specie di fine della filosofia. In entrambi i casi, mi sembra facile osservare che chi parla di fine di qualcosa spesso non si accorge di star parlando in realtà di fallimento del suo modo di intendere quella cosa. Io credo che perderemmo sia gli occhi che il sottosuolo se non trovassimo modi di valorizzarli entrambi e farli dialogare. Ci vogliono sintesi, che non siano semplici giustapposizioni, ma si dimostrino armoniche. Secondo me questo, con un po' di lavoro è possibile. In altre parole, il ciclista che si sbilancia un po' a destra e un po' a sinistra, in realtà non si limita soltanto ad affiancare, sommare questi due tipi di movimento, ma ne crea uno nuovo, armonico, sinusoidale, in grado di conciliarli entrambi in una sintesi creativa e umana.

Già. Ad un certo punto si è deciso di "divinizzare" Platone ed Aristotele e si è deciso di usarli quasi fossero "infallibili". Ma Aristotele riteneva che la filosofia era libera mentre Platone scrisse solo Lettere e Dialoghi ossia gli stili di scrittura più a-sistematici che ci siano. Dei due però preferisco Platone proprio perchè da un lato contemplava qualcosa che andava oltre la ragione (la Forma del Bene) e dall'altro utilizzava la dialettica socratica come strumento. Se qualcuno si fosse preso la briga di criticare a dovere le sue posizioni ritengo che avrebbe cambiato idea (per coerenza). Aristotele invece sembrava più disposto a non dare alcun limite alla razionalità.

Ma c'è una punta di verità nella "condanna" alla filosofia greca. Quale? Leggendo la Repubblica di Platone vedi il tentativo di imporre ideali sulla realtà portato all'estremo. Vedi come anche con le migliori intenzioni finisci per creare utopie impossibili che mettono prima l'ideale della persona (umana o talpa che sia  ;D ). Se poi questo si unisce al "legalismo" che era preponderante sia nella cultura greco-romana che in quella "farisea", non ci si mette molto a capire come si è potuto giustificare i peggiori "mezzi" per i migliori "fini". Socrate stesso fu condannato per empietà ma sia lui che i suoi successori si sono dimenticati che anche la loro "riverenza" alla razionalità poteva divenire causa di condanna per empietà. Oggi ahimé non siamo messi in modo tanto migliore rispetto a qualche secolo fa, anche se le condanne sono meno "violente". La società ti da alcune specializzazioni che puoi seguire ma se non ti senti "contenuto" in esse finisci "male". Qui non siamo davvero diversi da quelli che critichiamo (uso il "noi" in modo generico)  ;) Ora l'ideologia è questa: la professionalità, la produttività, il successo ecc ecc Per certi versi mai come oggi "l'ideale" è stato tanto "basso"  :(

Ma cosa c'entra la Poetica del Sottosuolo? Ci insegna proprio questo. Che il Dao (tra l'altro ho scoperto che etimologicamente pare essere interpretato con le parole "strada" in italiano and "road" in inglese  ;D ), la Via è infinita, senza confini (apeiron  ;D ), misteriosa e che per quanto noi possiamo pensare di rinchiuderla nei nostri ragionamenti questa ci sfuggirà (ancora peggio, se vogliamo imporla ad altri). Ma allo stesso tempo questa "Via" non è davvero inaccessibile ma è "vicina", anzi è già "qui". Perfino è presente nel "calore" del "centro". Invece mentre la vista ci da la possibilità di contemplare la ricchezza del mondo come nessun altro senso, è anche capace di condurci fuori strada. La vista è anche capace di diventare un qualcosa di totalizzante. Di farci dimenticare il valore dell'invisibile rispetto al visibile. Di farci dimenticare la spontaneità ::) La vista più di qualsiasi altro senso ci mostra un mondo pieno di dettagli e noi assegnamo nomi a questi dettagli. Ma finiamo per vederli separati l'uno dall'altro, "analizziamo" tutto e astraiamo le cose proprio grazie alla vista. Ma non è anche un dono la vista? E non è anche un dono il logos, il pensiero concettuale, così legato ad essa? Sì ma non dobbiamo mai dimenticarci il limite delle nostre astrazioni. Non dobbiamo dimenticarsi che di "particelle isolate" in realtà non ne esistono. Forse noi siamo davvero "superiori" nella nostra capacità di comprendere le cose ma siamo però più facilmente condotti nell'errore nell'assolutizzare le distinzioni e le astrazioni.

Come realizzare l'equilibrio tra la Poetica del Sottosuolo e quella invece del "sopra-suolo"  ;D ?
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Ti do la mia risposta personalissima, quindi senza alcuna pretesa che si tratti di cose ferme e indiscutibili: è solo frutto di mia esperienza, che proprio per questo ritengo non forte, ma limitata, tutt'altro che universale.

Se ci rifletto, un criterio, magari non sempre consapevole, che lungo il mio cammino mi ha fatto apprezzare certe cose, è stato quello della capacità di includere il proprio opposto.

Da prete a volte pensavo che la mia religione aveva questo di particolare: mi veniva a risultare la più capace di porsi in continuo dialogo con gli atei, la scienza, la politica, la più capace anche di fare autocritica. Naturalmente sostengo ciò in base ai libri di teologi che ho letto: se invece prendiamo in considerazione i fanatici, o anche preti, vescovi e papi, diventa molto più difficile riscontrare quest'apertura al diverso.

Volendo, anche in Gesù stesso possiamo riscontrare cose del genere: egli disse anche "voi farete cose più grandi di me", oppure che bisognava lasciar stare chi faceva miracoli ma non era suo seguace, o che chi aveva intenzione di seguirlo doveva predisporsi a rinnegare sé stesso.

Il criterio del divenire, che umanamente diventa camminare, crescere, significa anche sosta, interruzione, ristoro, momenti di festa.

Critica significa anche autocritica.

Il relativismo, correttamente inteso, secondo me, è in grado di dire al metafisico: "Non lo so, potrebbe anche essere che la verità sia come dici tu", mentre il metafisico non ammette la stessa cosa da parte sua.

La spiritualità, intesa come cammino che fa tesoro anche di tutte queste cose, non è solo spiritualità dell'asceta: è spiritualità anche quella dell'omicida, o quella del ragazzo che non toglie mai le dita e gli occhi dal suo telefonino o dalla playstation: si tratta solo di spiritualità diverse e per questo meritano comunque di essere anzitutto rispettate per poterle capire e casomai poter esprimere poi delle critiche.

La natura stessa, a mio modo di vedere, fa da sempre autocritica, perché costruisce e si autodistrugge, si manifesta e si nasconde, si mostra agli occhi, ma tocca anche l'invisibile, lascia molti spazi per sospettare mondi sconosciuti.

Insomma, trovo utile questo criterio: mi sembra che certe vie siano più capaci di altre di ospitare in sé l'opposto di ciò che sono, riservare stima per la diversità, anche se tutto questo ha pur sempre dei prezzi da pagare. Ad esempio, il Cattolicesimo è sempre risultato meno ascetico, meno "spirituale" degli Ortodossi, meno meditativo di Induismo o Buddhismo, più compromesso con il potere politico, però lo trovo anche più inserito nella storia del mondo, più disposto a farsi come gli altri, a mettersi nei loro panni, adattarsi ai più disparati stili di vita.

Quando una via mi si lascia intravedere con queste caratteristiche di capacità di includere il proprio opposto, senza per questo spersonalizzarsi, allora mi seduce.

Apeiron

#8
Citazione di: Angelo Cannata il 17 Ottobre 2017, 13:39:19 PMTi do la mia risposta personalissima, quindi senza alcuna pretesa che si tratti di cose ferme e indiscutibili: è solo frutto di mia esperienza, che proprio per questo ritengo non forte, ma limitata, tutt'altro che universale. Se ci rifletto, un criterio, magari non sempre consapevole, che lungo il mio cammino mi ha fatto apprezzare certe cose, è stato quello della capacità di includere il proprio opposto. Da prete a volte pensavo che la mia religione aveva questo di particolare: mi veniva a risultare la più capace di porsi in continuo dialogo con gli atei, la scienza, la politica, la più capace anche di fare autocritica. Naturalmente sostengo ciò in base ai libri di teologi che ho letto: se invece prendiamo in considerazione i fanatici, o anche preti, vescovi e papi, diventa molto più difficile riscontrare quest'apertura al diverso. Volendo, anche in Gesù stesso possiamo riscontrare cose del genere: egli disse anche "voi farete cose più grandi di me", oppure che bisognava lasciar stare chi faceva miracoli ma non era suo seguace, o che chi aveva intenzione di seguirlo doveva predisporsi a rinnegare sé stesso. Il criterio del divenire, che umanamente diventa camminare, crescere, significa anche sosta, interruzione, ristoro, momenti di festa. Critica significa anche autocritica. Il relativismo, correttamente inteso, secondo me, è in grado di dire al metafisico: "Non lo so, potrebbe anche essere che la verità sia come dici tu", mentre il metafisico non ammette la stessa cosa da parte sua. La spiritualità, intesa come cammino che fa tesoro anche di tutte queste cose, non è solo spiritualità dell'asceta: è spiritualità anche quella dell'omicida, o quella del ragazzo che non toglie mai le dita e gli occhi dal suo telefonino o dalla playstation: si tratta solo di spiritualità diverse e per questo meritano comunque di essere anzitutto rispettate per poterle capire e casomai poter esprimere poi delle critiche. La natura stessa, a mio modo di vedere, fa da sempre autocritica, perché costruisce e si autodistrugge, si manifesta e si nasconde, si mostra agli occhi, ma tocca anche l'invisibile, lascia molti spazi per sospettare mondi sconosciuti. Insomma, trovo utile questo criterio: mi sembra che certe vie siano più capaci di altre di ospitare in sé l'opposto di ciò che sono, riservare stima per la diversità, anche se tutto questo ha pur sempre dei prezzi da pagare. Ad esempio, il Cattolicesimo è sempre risultato meno ascetico, meno "spirituale" degli Ortodossi, meno meditativo di Induismo o Buddhismo, più compromesso con il potere politico, però lo trovo anche più inserito nella storia del mondo, più disposto a farsi come gli altri, a mettersi nei loro panni, adattarsi ai più disparati stili di vita. Quando una via mi si lascia intravedere con queste caratteristiche di capacità di includere il proprio opposto, senza per questo spersonalizzarsi, allora mi seduce.

Bellissimo contributo Angelo! Sì vedi, la tendenza all'assolutizzazione può avere effetti molto profondi  e anche tra di loro diametralmente opposti (e a questo a mio giudizio serve la "critica"...). Chi vive questa tendenza che lo porta verso l'Assoluto tende a riconoscere che c'è qualcosa di Grande, qualcosa che va Oltre. Ora con questo qualcosa di Grande in qualche modo dobbiamo trovare la nostra "via" (dao  ;D ) per trovare il "giusto" modo di rapportarsi. Nascono proprio da qui le metafisiche e le religioni. Induismo, buddhismo e "daoismo" sono per esempio molto meditative, tendono di norma ad essere "talpe", a dissociarsi dallo scintillante mondo dei fenomeni per trovare la Pace. Ma anche qui per esempio il buddhismo Mahayana pur riconoscendo che è proprio questa "pace" l'obbiettivo è molto più inserito nelle "cose mondane". Da questo punto di vista magari si può capire anche la distinzione tra Cattolicesimo Romano e Chiesa Ortodossa. Però il problema è che queste metafisiche e religioni si fondano su dottrine (necessariamente, altrimenti non avrebbero identità...) e ogni volta che incontrano un "diverso" devono rapportarsi con questo "altro". Come fare ?
Primo: imporre la propria dottrina, ritenendo che l'altro sia "malvagio".
Secondo:  predicargli la propria dottrina senza perderla ma chiudersi ad ogni influenza "maligna".
Terzo: rimanere convinti della propria e ammettere che il "Grande" è Oltre la nostra comprensione e quindi amettere che anche il "diverso" può essere in rapporto geniuno con il "Grande" (in questo modo si cerca di dialogare anche per capire meglio il "Grande"...).
Quarto: rimanere convinti dell'esistenza del "Grande" e approfittare del diverso per "capire" meglio il "Grande".
Quinto: non avere alcuna dottrina ed essere agnostici sull'esistenza del "Grande".
Sesto: negare l'esistenza del "Grande".
Ebbene è la critica che ci insegna, a mio giudizio, le posizioni dalla terza alla quinta. Qui c'è l'utilità della critica! (io appoggio il quarto approccio)

Nel caso dell'argomento qui trattato abbiamo il nostro approccio alla vita contrastato con quello del "sottosuolo". Chiaramente è una diversità. Secondo me non è tanto una dicotomia tra relativismo e metafisica (anche se ovviamente capisco che un relativista tende ad essere più "aperto" di un metafisico. Ma ciò non è sempre vero, secondo me  ;) ), quanto il come ci approcciamo al diverso. Personalmente sono un "metafisico" ma tendo a minimizzare , per quanto mi è umanamente possibile, la tendenza a chiudermi la mente  ;) Motivo per cui per esempio non ritengo che l'unica spiritualità sia quella dell'asceta (o rinunciante) - il limite più grande delle spiritualità indiane forse è questo - anche se ritengo quel tipo di spiritualità particolarmente puro e quindi per certi versi "superiore". Per certi versi concordo con te che il cristianesimo non essendo troppo restrittivo sul come vivere ha un certo vantaggio. Bisogna però stare attenti a non andare alla deriva con questa "libertà" sul come vivere ;) a volte può essere utilizzata  (e certamente in passato lo è stata) come una scusa.  

P.S. Nell'argomento del "relativismo assoluto" attaccavo la posizione del "relativismo assoluto", non il tuo particolarissimo "relativismo" (debole?).
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Nel sottosuolo si annida tutto ciò che pare aver valore: l'oro e l'argento, il rame e il turchese. Si avviluppano radici che danno la vita. radici di erbe  e d'arbusti, di rovi pungenti e d'alberi maestosi. Tutti stanno aggrappati al sottosuolo. Non c'è ciclo di vita che non rimandi al sottosuolo e alla sua poesia. Tutto alfine ricade sul suolo, ne viene sommerso, sprofonda...
Corpi che si disfano, polvere d'ossa calcinate, terrore di scendere nell'oscurità. Un enorme baratro dove vivono oscurità terribili e tanto gravi da trascinare tutti coloro che vi incappano. Ma l'abisso nasconde anche immensità di pensiero e percezione, non più ammaliata da una luce accecante che inebria i sensi. Una malìa come canto di sirene, bella come il turchese che trafigge la cecità... 

Dalla mia cecità Ti chiamo
A salvarmi col tuo grembo oscuro
A salvarmi e legarmi
In stretti corridoi
In tiepidi antri
Quando il sottosuolo mostra
I turchesi senza colore
E mi chiama.

Il sottosuolo è il Silenzio, rotto solo dal graffio delle unghie che scavano, che vanno sempre più nel profondo, nelle viscere...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

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