pentimento ed espiazione

Aperto da sgiombo, 10 Luglio 2016, 18:52:28 PM

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sgiombo

Citazione di: davintro il 12 Luglio 2016, 17:12:56 PMMa se per "espiazione" s'intende invece una sorta di punizione in cui si danneggia l'individuo senza modificare in senso positivo gli effetti negativi del male commesso allora non c'è un nesso con il pentimento. Io posso pentirmi del male che ho fatto nel senso che avrei non voluto più farlo senza per forza voler soffire o sacrificare cose della mia vita che posso mantenere a prescindere dalle azioni compiute. Se mi pento di aver sferrato un pugno, vorrei non averlo fatto, non desiderare tagliarmi la mano (perchè la mano non mi serve solo per sferrare pugni...), se lo desiderassi, sono d'accordo con Phil, ciò non avrebbe nulla a che fare con la giustizia, è solo masochismo e vendetta, vendetta di fronte a un fantomatico "ordine cosmico" di fronte a cui ciascuno dovrebbe stare alla pari in una bilancia tra male commesso e male subito. Per ma giustizia vuol dire fare il bene, non aggiungere male a male, il male può essere giustificato solo come indipensabile strumento per il bene.

Essendo il pentimento un fatto interiore ha a che fare con il piano spirituale e religioso (non vorrei soffermarmi su questo anche perchè prossimamente mi piacerebbe aprire una discussione a parte riguardo questo ambito), mentre dal punto di vista politico ciò che conta è l'espiazione ma non necessariamente il pentimento. Uno stato liberaldemocratico e non etico, come per fortuna è il nostro, non manda in carcere i criminali per punizione o vendetta, ma pragmaticamente, per evitare che, lasciati in libertà, possano continuare a nuocere: una volta riconosciuta la pericolosità sociale di un individuo lo si isola temporaneamente dal consesso civile. L'obiettivo non è fargli del male (vendetta) ma anteporre al bene della sua libertà un bene maggiore che è quella della comunità. Lo si isola fino a che non si considera la possibilità di un ravvedimento, ecco perchè la detenzione dovrebbe essere coordinata con momenti di socializzazione che permetta di osservare ed esaminare eventuali comportamenti che potrebbero lasciar intendere tale ravvedimento. Dal punto di vista politico il pentimento è utile perchè porta il reo a non commettere più i reati ma non indispensabile: se un criminale non dovesse pentirsi, ma considerando la durezza del carcere riconoscesse utilitaristicamente che non valga più il rischio di commettere reati, per lo stato andrebbe bene comunque, fermo restando che se ci fosse anche il pentimento sarebbe ancora meglio perchè il rientro alla vita civile sarebbe più profondamente motivato e dunque tale scelta sarebbe più irreversibile. Lo stato non si occupa delle anime ma delle relazioni esterne fra le persone. Ragion per cui se un assassino appena dopo aver commesso l'omicidio subisse un incidente che lo lasciasse totalmente paralizzato (quindi innocuo), a mio avviso uno stato di diritto non dovrebbe infliggergli alcuna pena. Qualunque male contro di lui sarebbe inutile, gratuito e dunque ingiusto
CitazioneEvidentemente seguiamo due concezioni della giustizia molto reciprocamente diverse.
Per me giustizia (che non sempre si realizza; mai perfettamente) é (quando e nella misura in cui si realizza) anche e soprattutto premio per il bene e castigo per il male fatto.
Se un criminale omicida rimane paralizzato e dunque incapace di nuocere ulteriormente ad altri, non per questo secondo me deve avere sconti di pena (deve solo essere posto in condizione di essere curato, quindi magari di scontare la prigionia in ospedale o anche agli arresti domiciliari, se proprio indispensabile).
E, sempre secondo la mia opinione, contrariamente alla tua e a quella di altri, non si é autenticamente pentiti (ripeto: per come intendo io il concetto di "pentimento") se non si é sufficientemente severi con se stessi e con le punizioni che si ritiene di meritare e di dover scontare, fino a chiedere supplementi di castigo, non certo cercando sconti di pena).

paul11

#46
Citazione di: davintro il 12 Luglio 2016, 17:12:56 PMPer stabilire la necessità del rapporto tra pentimento ed espiazione andrebbe chiarito il senso del secondo concetto. In cosa dovrebbe consistere l' "espiazione"? Io penso che se l'espiazione consite nell'agire in modo da ridurre il più possibile gli effetti del male prodotto allora non può esserci pentimento senza volontà di espiazione. Ma non è solo impossibile dal punto di vista del "dover essere", ma anche dall'essere di fatto. Non posso essere pentito di aver fatto una cosa senza provare il desiderio di rimediare all'errore annullando gli effetti di ciò che ho commesso. Pentirsi vuol dire desiderare di poter tornare indietro. Ovviamente questo è impossibile, ma ci si può avvicinare all'idea nel fare in modo di ridimensionare entro i limiti del possibile i danni causati.  

...perspicace, perchè adesso posso far capire meglio a Sgiombo, il ricordo, che in questo caso è il rimorso.

Il sacro nel tempo del mito, prima di Parmenide è il rituale dentro il tempo ciclico. dico subito che la pena, l'espiazione nel concetto ormai del tempo lineare è tremenda, vuol dire buttare via il futuro, uccidere il pro-gettarsi ma questa concezione nel tempo ciclico diventa il sacrificio del capro espiatorio nella comunità in cui i loro peccati vengono purificati con l'atto del rito ciclico. Quì siamo nell'iletico, il sacrifico è materiale, è l'agnello, la vergine, il fanciullo il corpo di Cristo, il lavacro del pentimento. Il linguaggio degli antichi compreso l'ebreo antico prima dell'aramaico era col i tempi al passato (il sacro) e il presente (profano).Il tempo ciclico fa sempre tornare il passato a rinforzare il presente a purificarlo.Il tempo originario quindi ritorna, il sacro purifica il profano con il sacrificio per i peccati e quindi è implicito il pentimento collettivo della comunità.
Il noetico viene originariamente dall'essere di Parmenide, che astrae,, allora il sacrifico diventa puro simbolo,non più materiale, la purificazione che è spesso è all'interno di un'astinenza, vine persa dentro il tempo storico che è lineare.Quindi la condanna espiatoria alla carcerazione è il dramma di buttare via il futuro, la progressione delle successioni temporali che brucia il passato che non ritorna a purificare.
Oggi rimangono le  vestigia di quei tempi nei calendari moderni, le festività religiose o laiche o pagane che perdono la loro originalità in quanto svilite del significato originario.
Quel tempo consolava, non viveva per il futuro, perchè il sacro continuava a tornare.

Sariputra

Citazione di: Phil il 12 Luglio 2016, 16:27:25 PM
Citazione di: Sariputra il 11 Luglio 2016, 22:20:22 PMil camminare continuo della coscienza e il famoso karma è proprio questo movimento incessante. Un'azione veramente malvagia ha un influsso terribile sulla coscienza, indipendentemente dal fatto di esserne consapevoli. Questa ruota priva di perno ( amore) non smette di girare e operare nefasta influenza in noi semplicemente perchè , con un impulso interiore, effimero, riteniamo di esserci pentiti. [...] Non è possibile alcuna matematica del karma, nè alcuna accumulazione di meriti. Solo quando, nel sonno, i demoni che abbiamo generato, piano piano, non verranno più a farci visita, capiremo che la ruota ha esaurito l'energia che la muoveva.
Direi che i due temi del topic, il pentimento e l'espiazione, si conciliano più con il cristianesimo che con il buddhismo: in un ottica karmica, quindi deterministicamente causale, il pentimento gioca un ruolo molto marginale rispetto all'effettività delle azioni compiute (sarebbe improponibile una pratica della "confessione" nel buddhismo) e talvolta viene persino considerato uno dei "cinque ostacoli" innati (nivarana) per l'illuminazione (è quello chiamato kukkucca); mentre l'espiazione non è decidibile o praticabile a scelta, ma è semplicemente la "naturale" conseguenza, l'effetto ineluttabile dell'azione che l'ha causata (rimando al quinto capitolo dell'Abhidhamma per la questione della reincarnazione come espiazione...) Per cui il legame pentimento/espiazione, per come è inteso occidentalmente/cristianamente non credo possa attecchire adeguatamente nella catena causale del karma, anche se resta sempre possibile coniugare le due prospettive con una bella immagine sincretica, come quella da te proposta, in cui l'amore cristiano diventa perno della ruota del karma induista...

Infatti se , per esempio, sostituiamo le parole Pentimento ed Espiazione con "Danno" e "Riparazione" mi sembra di poter meglio interpretare questo passaggio e dargli una spiegazione "Kammica". E' sempre l'atto che ha valenza riparatrice. Spesso questo atto rimane una possibilità riservata solamente al soggetto del misfatto e non dà possibilita di riparare il danno causato alla vittima. La riparazione necessita di un atto che vada a contrapporsi agli effetti karmici provocati dal danno. Questa sorta di pragmatismo interiore ("Ho fatto un danno e adesso IO devo ripararlo) mette in moto uno sviluppo positivo, in primis per se stessi e poi, di conseguenza, per quelli che ci circondano.La volontà di riparare è fondamentale, più che la stessa messa in opera . Possono mancare le forze, i mezzi, le possibilità di riparare il torto fatto, ma la presenza della volontà di farlo è gia un'azione kammica virtuosa e foriera di sviluppi positivi per sè e per gli altri.
"Ho ucciso un essere vivente. Adesso come posso riparare?" mi sembra la domanda giusta da porsi. 
"Ho ucciso un essere vivente.Oh! Come mi sento triste, abbattuto, se potessi tornare indientro di sicuro non lo rifarei..." questo permette di sperare di non commettere, nel futuro, nuovamente questo atto che mi procura sofferenza, ma non sana, non ripara per l'appunto, lo sviluppo kammico dell'atto già compiuto.
Non voglio assolutamente affermare che il pentimento non serva, sia inutile.  Magari fossimo capaci tutti di vero pentimento! Quanto dolore e sofferenza si potrebbe evitare per il futuro...
Ma , dopo la nascita nel cuore di questo nobile sentimento, non si può semplicemente restarsene a rimirarlo e magari compiacersene...pensando che "tutto sia finito così".
Gli effetti dell'atto negativo ritornano, non ti lasciano, ti incupiscono, se li rimuovi ti svuotano lentamente della tua sensibilità umana. Devi ricostruire le fondamenta su cui poggia la tua anima. Espiare diventa proprio quest'opera lavorativa. Un'opera umile, meglio se nascosta, magari derisa dalla società (venire derisi dalla società indica che si è sulla strada giusta...) . Può essere un cammino interiore, oppure esteriore , o sia interno che esterno a sé. Può essere compiuto nella solitudine di una cella se è il caso. Mi sembra che anche la più piccola cosa , se fatta con amore, non mancherà di manifestarsi nel nostro animo con tutta la sua forza. Se la ruota del karma negativo gira veloce , ben più forte si sviluppa quella positiva. Ogni piccolo atto di bene può avere sviluppi inconcepibili...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

davintro

Rispondo a Sgiombo:

Eppure la possibilità stessa del pentimento presuppone implicitamente una verità fondamentale: la persona non coincide con le sua azioni. Se coincidesse con esse il pentimento non sarebbe possibile. Io mi pento delle mie azioni a partire da uno scarto, da un'ulteriorità del mio essere profondo rispetto al  comportamento esteriore, la cui osservazione è insufficiente a decifrare compiutamente la profondità dell'animo. E in nome di questo scarto posso pentirmi, posso cioè distaccarmi dalle azioni di cui mi pento, ne prendo le distanze e posso farlo perchè la persona che ora è pentita non è più lo stesso tipo di persona che ha commesso quelle azioni in passato. Il pentimento è già di per sè superamento. E non è assurdo e insensato che io desideri subire un male, che va al di là del minimo necessario sufficiente a rimediare i danni prodotti dalle azioni passate, da rivolgere alla persona che sono ora, pentita, che non è più la persona che ha commesso quelle azioni? Il tipo di persona che ha commesso il male dopo il pentimento non esiste più, è passata, trascesa. Questo è il principio che ritengo molto valido e condivisibile riassumibile nella formula classica "punire il peccato non il peccatore"

Con questo non voglio certo negare la possibilità di comportamenti autopunitivi connessi con il pentimento (io stesso sono un tipo che si arrabbia molto con se stesso per gli errori che commette...), solo li ammetto come possibili effetti collaterali di quest'ultimi, non necessari oltre che inutili, irrazionali (in nome della mia personale accezione di giustizia che certo non tutti condividono) e credo, anche psicologicamente poco salubri in riferiemento alla serenità ed equilibrio interiore della persona

sgiombo

Citazione di: davintro il 13 Luglio 2016, 00:29:00 AM
Rispondo a Sgiombo:

Eppure la possibilità stessa del pentimento presuppone implicitamente una verità fondamentale: la persona non coincide con le sua azioni. Se coincidesse con esse il pentimento non sarebbe possibile. Io mi pento delle mie azioni a partire da uno scarto, da un'ulteriorità del mio essere profondo rispetto al  comportamento esteriore, la cui osservazione è insufficiente a decifrare compiutamente la profondità dell'animo. E in nome di questo scarto posso pentirmi, posso cioè distaccarmi dalle azioni di cui mi pento, ne prendo le distanze e posso farlo perchè la persona che ora è pentita non è più lo stesso tipo di persona che ha commesso quelle azioni in passato. Il pentimento è già di per sè superamento. E non è assurdo e insensato che io desideri subire un male, che va al di là del minimo necessario sufficiente a rimediare i danni prodotti dalle azioni passate, da rivolgere alla persona che sono ora, pentita, che non è più la persona che ha commesso quelle azioni? Il tipo di persona che ha commesso il male dopo il pentimento non esiste più, è passata, trascesa. Questo è il principio che ritengo molto valido e condivisibile riassumibile nella formula classica "punire il peccato non il peccatore"

Con questo non voglio certo negare la possibilità di comportamenti autopunitivi connessi con il pentimento (io stesso sono un tipo che si arrabbia molto con se stesso per gli errori che commette...), solo li ammetto come possibili effetti collaterali di quest'ultimi, non necessari oltre che inutili, irrazionali (in nome della mia personale accezione di giustizia che certo non tutti condividono) e credo, anche psicologicamente poco salubri in riferiemento alla serenità ed equilibrio interiore della persona.


CitazioneCredo che esista una "dialettica continuità-mutamento" nelle esperienze delle persone: per certi versi sono comunque sempre quello che ha allora commesso la colpa, per altri sono diverso se ora me ne pento.
Proprio per questo ineliminabile elemento di continuità a mio parere l' espiazione deve accompagnare il pentimento: non basta dire "non sono più quella persona e dunque chissenefrega, tanto adesso sono irreprensibile"; invece sono sempre quelle persona, anche se cambiata, e dunque ciò che ho fatto persiste in me (oltre che a danno delle vittime) e va attivamente corretto; ho un debito con l' etica (con la mia coscienza, prima ancora che con la giustizia), e dunque devo pagarlo (e se sono scrupoloso lo pagherò con l' aggiunta di un certo interesse).

Per restare nella terminolotgia religiosa, per me va punito il peccatore (e il primo a volerlo é il peccatore stesso, se sinceramente pentito).

Mi rendo ovviamete conto che si tratta di tendenze comportamentali, etiche, di "sensibilità morali" diverse "in linea di principio" (non di diverse aplicazioni a casi particolari - concreti dei medesimi principi) e dunque non confrontabili razionalmete: non é dimostrabile che l' una sia meglio dell' altra, ma semplicemente la si avverte come tale.

Dissento anche sulla salubrità metale, che ritengo in linea di massima maggiore in caso di espiazione che di pentimento "a buon mercato" (per così dire senza intenti polemici).

Sariputra

#50
Citazione di: davintro il 13 Luglio 2016, 00:29:00 AMRispondo a Sgiombo: Eppure la possibilità stessa del pentimento presuppone implicitamente una verità fondamentale: la persona non coincide con le sua azioni. Se coincidesse con esse il pentimento non sarebbe possibile. Io mi pento delle mie azioni a partire da uno scarto, da un'ulteriorità del mio essere profondo rispetto al comportamento esteriore, la cui osservazione è insufficiente a decifrare compiutamente la profondità dell'animo. E in nome di questo scarto posso pentirmi, posso cioè distaccarmi dalle azioni di cui mi pento, ne prendo le distanze e posso farlo perchè la persona che ora è pentita non è più lo stesso tipo di persona che ha commesso quelle azioni in passato. Il pentimento è già di per sè superamento. E non è assurdo e insensato che io desideri subire un male, che va al di là del minimo necessario sufficiente a rimediare i danni prodotti dalle azioni passate, da rivolgere alla persona che sono ora, pentita, che non è più la persona che ha commesso quelle azioni? Il tipo di persona che ha commesso il male dopo il pentimento non esiste più, è passata, trascesa. Questo è il principio che ritengo molto valido e condivisibile riassumibile nella formula classica "punire il peccato non il peccatore" Con questo non voglio certo negare la possibilità di comportamenti autopunitivi connessi con il pentimento (io stesso sono un tipo che si arrabbia molto con se stesso per gli errori che commette...), solo li ammetto come possibili effetti collaterali di quest'ultimi, non necessari oltre che inutili, irrazionali (in nome della mia personale accezione di giustizia che certo non tutti condividono) e credo, anche psicologicamente poco salubri in riferiemento alla serenità ed equilibrio interiore della persona

Mi sembra si sovrastimino le capacità di cambiamento interiore che la "sensazione-riflessione" pentimento possono operare concretamente in noi. Non sono nemmeno molto convinto che bisogna fare distinzione tra peccato e peccatore. Noi non siamo "Altro" dai nostri atti. I nostri atti (interiori ed esteriori) ci costituiscono, sono "noi stessi". Non c'è uno spettatore occulto, puro e immacolato, che osserva l'azione ( la famosa anima). C'è consapevolezza ,che è l'elemento-senso della mente, la  quale lavora-dipende dagli altri cinque sensi. Proprio perchè siamo un tutt'uno con le nostre azione, ne siamo costituiti, assume un'enorme importanza l'atto riparatore che agisce attivamente in noi, trasformandoci in senso positivo. Essere un'unica realtà con le nostre azioni permette l'opera di ricostruzione in noi. Guai a pensare ad una sorta di sdoppiamento (coscienza immacolata opposta ad azione spregevole). Questo tipo di riflessione, a mio parere, ci può tentare a ripetere l'atto negativo se si presenta l'occasione, mossa dal nostro egoismo. "Ho fatto del male e me ne sono amaramente pentito, ma questo è troppo, non posso sopportarlo, devo agire..." e si ricade nel danno..."Chiederò perdono a Dio, ma devo farlo...". Per arrivare a "So che quello che sto facendo è male, ma non resisto, devo placare la mia rabbia , il mio odio, altrimenti mi sembra di impazzire...chiederò perdono, Dio mi comprende, capisce i miei limiti, sicuramente mi perdonerà, anche Lui si arrabbiava...". Il pentimento, che è consapevolezza del male fatto, non mi mette al riparo, se non opero per cambiare le motivazioni che mi hanno spinto ad agire in maniera malvagia. Quel ragazzo del veronese che una decina di anni orsono ha trucidato i suoi genitori, liberato per buona condotta e perchè sinceramente pentito (e in effetti, leggendo le sue lettere dimostrava un vero, autentico pentimento) appena ritrovatosi nella società ha cominciato a minacciare le sorelle sopravvissute alla strage, per avere denaro, per far fronte alle necessità della vita libera, fino al nuovo internamento in una comunità. Sicuramente si pentirà nuovamente di aver minacciato le sorelle, chiederà perdono...ma poi? Non comprendere le motivazioni del proprio agire lo faranno purtroppo ricadere nella possibilità di rinnovare il danno. E per poter comprendere non c'è che l'azione riparatrice ( che comporta un enorme sacrificio).
Nemmeno si può dire:"Vabbeh...ma quello non era pentimento, fingeva...".  Questo sì sarebbe un giudizio davvero arbitrario, da parte nostra...
Quale potrebbe essere un'azione riparatrice in un caso simile? "Ho ucciso i miei vecchi..." potrebbe riflettere "...ora mi prenderò cura di vecchi abbandonati. Andrò in un ospizio ogni giorno ad imboccare le persone sole e abbandonate da tutti. Sarà terribile, mi sputeranno forse addosso, ma io resisterò al desiderio di fuggire da tutto questo..."
Siamo poi sicuri che dietro al pentimento , ancorchè sincero, non si nasconda un sottile inganno della mente per auto-assolversi?
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

davintro

#51
L'idea di una continuità della persona che va al di là del susseguirsi delle diverse azioni che si compiono rende ragione dell'idea dell'irriducibilità del soggetto alle azioni esterne: le azioni, i comportamenti mutano, ma il nucleo essenziale della persona resta. E già nel momento in cui commetto un'azione di cui poi mi pento c'era già qualcosa di me, nascosto in me, che si contrapponeva ad essa. Altrimenti da dove nascerebbe il pentimento? Io il pentimento lo vedo come un'esplicitazione di una latenza interiore già da sempre presente in me che, entro certe condizioni si manifesta, una latenza intesa come un contrapporsi a ciò che si sta facendo e che nel pentimento emerge e prende il sopravvento. L'Innominato manzioniano aveva già sviluppato un ritrosia verso i suoi soprusi, la conoscenza di Lucia ha offerto le condizioni per cui tale ritrosia è divenuta il sentimento prevalente, ma non l'ha creato. Vero che è  sempre la stessa persona che ha commesso il male e poi si è pentita, ma ciò che l'ha portato a commettere il male sono degli aspetti, delle caratteristiche della persona, che nel pentimento non ci sono più (certo potrebbero tornare in futuro...), perchè la persona pentita ora utilizza criteri di giudizio diversi da quelli che utilizzava prima. Ciò che permane della persona, l'essenza, non è il responsabile delle azioni cattive, se nelle azioni passate e ora nel pentimento c'è qualcosa per cui io resto "me stesso", questo "me stesso" permanente è qualcosa di indipendente dalle azioni che ho compiuto, se fosse il responsbile delle azioni passate, ora che quelle azioni non le commetterei più, questo principio di permanenza dovrebbe scomparire e dunque non si potrebbe più dire che per certi versi resto "me stesso".

Comunque non penso di convincere nessuno perchè mi pare che si fronteggino visioni morali molto diverse, anche se tutte legittime. La mia personale visione morale è di tipo eudaimonisitico, il principio della morale è la ricerca della felicità, il bene è tutto ciò che produce, in me e negli altri, benessere e felicità. La giustizia per me non è una sorta di equilibrio livellabile verso il basso per cui se acceco una persona debbo espiare accecandomi a sua volta, un'azione che non restituisce la vista a chi l'ha persa e la toglie a me. Quale felicità si produce con quell'atto? Le virtù non sono qualcosa di fine a se stesso, ma condizioni per raggiungere il bene, cioè la felicità, o quantomeno la serenità, il coraggio è una virtù nella misura in cui produce una spinta interiore a superare difficoltà esistenziali che mi impediscono di raggiungere i miei obiettivi, obiettivi che una volta raggiunti dovrebbero portarmi in uno stato di appagamento e felicità, la sincerità è una virtù perchè, non dicendo la verità alle persone, le privo di una conoscenza della realtà delle situazioni in cui vivono e questa mancata conoscenza delle situazioni diviene spesso impedimento per il raggiungimento dei loro obiettivi, come nel caso in cui uno, mentendo, dica alla fidanzata di esserle fedele facendo in modo che lei continui a sentirsi legata a una persona che in realtà non la rispetta e la tradisce, mentre un altro uomo la renderebbe molto più felice Prive del riferimento al fine ultimo della felicità non so quale possa essere il fondamento delle virtù. La felicità è il fine comune di ogni vita e non è vincolata a dei "meriti", quantomeno oggettivi: ciascuno ha il diritto di cercare la felicità seguendo la sua natura ed inclinazioni, sempre diverse in base agli individui, nel rispetto del cammino di ricerca altrui,  A me un mondo di "virtuosi" infelici  che meriterebbero la felicità ma non ne godono in concreto perchè continuamente dediti all'automortificazione e ai sensi di colpa farebbe orrore

sgiombo

Citazione di: davintro il 13 Luglio 2016, 16:00:10 PM
Comunque non penso di convincere nessuno perchè mi pare che si fronteggino visioni morali molto diverse, anche se tutte legittime. La mia personale visione morale è di tipo eudaimonisitico, il principio della morale è la ricerca della felicità, il bene è tutto ciò che produce, in me e negli altri, benessere e felicità. La giustizia per me non è una sorta di equilibrio livellabile verso il basso per cui se acceco una persona debbo espiare accecandomi a sua volta, un'azione che non restituisce la vista a chi l'ha persa e la toglie a me. Quale felicità si produce con quell'atto? Le virtù non sono qualcosa di fine a se stesso, ma condizioni per raggiungere il bene, cioè la felicità, o quantomeno la serenità, il coraggio è una virtù nella misura in cui produce una spinta interiore a superare difficoltà esistenziali che mi impediscono di raggiungere i miei obiettivi, obiettivi che una volta raggiunti dovrebbero portarmi in uno stato di appagamento e felicità, la sincerità è una virtù perchè, non dicendo la verità alle persone, le privo di una conoscenza della realtà delle situazioni in cui vivono e questa mancata conoscenza delle situazioni diviene spesso impedimento per il raggiungimento dei loro obiettivi, come nel caso in cui uno, mentendo, dica alla fidanzata di esserle fedele facendo in modo che lei continui a sentirsi legata a una persona che in realtà non la rispetta e la tradisce, mentre un altro uomo la renderebbe molto più felice Prive del riferimento al fine ultimo della felicità non so quale possa essere il fondamento delle virtù. La felicità è il fine comune di ogni vita e non è vincolata a dei "meriti", quantomeno oggettivi: ciascuno ha il diritto di cercare la felicità seguendo la sua natura ed inclinazioni, sempre diverse in base agli individui, nel rispetto del cammino di ricerca altrui,  A me un mondo di "virtuosi" infelici  che meriterebbero la felicità ma non ne godono in concreto perchè continuamente dediti all'automortificazione e ai sensi di colpa farebbe orrore.
CitazioneQui ci sarebbe quasi da aprire un' altra discussione.
Almeno per ora mi limito a definire "stoica" la mia personale concezione della morale (alternativa alla tua -altrettanto legittima e rispettabile, ne convengo- che definisci eudemonistica): per me la virtù é premio a se stessa.

Secondo me la felicità, il piacere, la gioia, la soddisfazione sono in generale o in astratto "appagamento di desideri o aspirazioni".
Dunque dire che il fine di ogni vita é la felicità é come dire che la felicità é la felicità o che la soddisfazione dei desideri é la soddisfazione dei desideri o l' appagamento delle aspirazioni é appagamento delle aspirazioni.
Sono i particolari desideri, le aspirazioni concrete (avvertiti) a definire (se e nella misura in cui sono soddisfatti) l' effettivo "contenuto concreto" della felicità per ciascuno.
E nel mio caso, conformemente soprattutto agli antichi stoici, il desiderio di giustizia (nel senso che nel corso della discussione ho cercato di illustrare) é uno dei principali, accanto al desiderio di conoscenza fine a se stessa, oltre che come mezzo per conseguire altri fini; e comunque anche accanto a tanti altri desideri più "materiali", coltivati con moderazione e non smodatamente e innaturalmente "ipertrofizzati", e in questo mi sento invece seguace (anche) di Epicuro.

paul11

Citazione di: davintro il 13 Luglio 2016, 16:00:10 PML'idea di una continuità della persona che va al di là del susseguirsi delle diverse azioni che si compiono rende ragione dell'idea dell'irriducibilità del soggetto alle azioni esterne: le azioni, i comportamenti mutano, ma il nucleo essenziale della persona resta. E già nel momento in cui commetto un'azione di cui poi mi pento c'era già qualcosa di me, nascosto in me, che si contrapponeva ad essa. Altrimenti da dove nascerebbe il pentimento? Io il pentimento lo vedo come un'esplicitazione di una latenza interiore già da sempre presente in me che, entro certe condizioni si manifesta, una latenza intesa come un contrapporsi a ciò che si sta facendo e che nel pentimento emerge e prende il sopravvento. L'Innominato manzioniano aveva già sviluppato un ritrosia verso i suoi soprusi, la conoscenza di Lucia ha offerto le condizioni per cui tale ritrosia è divenuta il sentimento prevalente, ma non l'ha creato. Vero che è sempre la stessa persona che ha commesso il male e poi si è pentita, ma ciò che l'ha portato a commettere il male sono degli aspetti, delle caratteristiche della persona, che nel pentimento non ci sono più (certo potrebbero tornare in futuro...), perchè la persona pentita ora utilizza criteri di giudizio diversi da quelli che utilizzava prima. Ciò che permane della persona, l'essenza, non è il responsabile delle azioni cattive, se nelle azioni passate e ora nel pentimento c'è qualcosa per cui io resto "me stesso", questo "me stesso" permanente è qualcosa di indipendente dalle azioni che ho compiuto, se fosse il responsbile delle azioni passate, ora che quelle azioni non le commetterei più, questo principio di permanenza dovrebbe scomparire e dunque non si potrebbe più dire che per certi versi resto "me stesso". Comunque non penso di convincere nessuno perchè mi pare che si fronteggino visioni morali molto diverse, anche se tutte legittime. La mia personale visione morale è di tipo eudaimonisitico, il principio della morale è la ricerca della felicità, il bene è tutto ciò che produce, in me e negli altri, benessere e felicità. La giustizia per me non è una sorta di equilibrio livellabile verso il basso per cui se acceco una persona debbo espiare accecandomi a sua volta, un'azione che non restituisce la vista a chi l'ha persa e la toglie a me. Quale felicità si produce con quell'atto? Le virtù non sono qualcosa di fine a se stesso, ma condizioni per raggiungere il bene, cioè la felicità, o quantomeno la serenità, il coraggio è una virtù nella misura in cui produce una spinta interiore a superare difficoltà esistenziali che mi impediscono di raggiungere i miei obiettivi, obiettivi che una volta raggiunti dovrebbero portarmi in uno stato di appagamento e felicità, la sincerità è una virtù perchè, non dicendo la verità alle persone, le privo di una conoscenza della realtà delle situazioni in cui vivono e questa mancata conoscenza delle situazioni diviene spesso impedimento per il raggiungimento dei loro obiettivi, come nel caso in cui uno, mentendo, dica alla fidanzata di esserle fedele facendo in modo che lei continui a sentirsi legata a una persona che in realtà non la rispetta e la tradisce, mentre un altro uomo la renderebbe molto più felice Prive del riferimento al fine ultimo della felicità non so quale possa essere il fondamento delle virtù. La felicità è il fine comune di ogni vita e non è vincolata a dei "meriti", quantomeno oggettivi: ciascuno ha il diritto di cercare la felicità seguendo la sua natura ed inclinazioni, sempre diverse in base agli individui, nel rispetto del cammino di ricerca altrui, A me un mondo di "virtuosi" infelici che meriterebbero la felicità ma non ne godono in concreto perchè continuamente dediti all'automortificazione e ai sensi di colpa farebbe orrore

Di nuovo ispirato, e sono d'accordo.
Da credente quella latenza è lo spirito, l'anima, chi pensa invece che sia psiche, chi ancora semplicemente condizionamento educativo.
Ma una cosa è certa nessuno è giudice più di noi stessi, perchè solo noi potremmo sapere il perchè abbiamo compiuto un atto criminoso o lo stato di alterazione, spirituale, psichica che ci ha indotto a compierlo.Ma prima o poi torna la riflessione interiore.

Sono di nuovo d'accordo, il tempo dell'occhio per occhio e dente per dente non produce nulla, se non altra devastazione,
Per questo il pentimento e il perdono sono positivi nel dare di nuovo la possibilità della redenzione, il ritorno all'innocenza seppur  dopo aver conosciuto il peccato:.Anche in termini sociali laici è più positivo.Uomini che coltivano l'odio invece del perdono, sono a loro volta avvelenati nell'esistenza.

sgiombo

Citazione di: paul11 il 13 Luglio 2016, 22:33:23 PM
Sono di nuovo d'accordo, il tempo dell'occhio per occhio e dente per dente non produce nulla, se non altra devastazione,
Per questo il pentimento e il perdono sono positivi nel dare di nuovo la possibilità della redenzione, il ritorno all'innocenza seppur  dopo aver conosciuto il peccato:.Anche in termini sociali laici è più positivo.Uomini che coltivano l'odio invece del perdono, sono a loro volta avvelenati nell'esistenza.
Se vengo offeso e l' offensore si pente sinceramente (e lo dimostra infliggendosi una punizione adeguata; o accettandola e non cercano di schivarla o attenuarla se gli é comminata dalla giustizia), allora sono ben felice (davvero, non per modo di dire) di perdonarlo: pretendendo di essere punito riacquista ai miei occhi rispettabilità umana ed etica, e questa é una delle più belle esperienze a cui si possa assistere nella vita.

paul11

Sgiombo,
capisco e per carità, ha i le tue ragioni.
A me viene in mente nel medioevo come si autofustigavano , di come processioni di incappucciati passavano per le strade; francamente ci trovo un qualcosa di perverso, lì ci trovo più la paura e il terrore che un sano rapporto empatico, di amore e comprensione.

In generale penso che la prima volta bisogna perdonare se si vuole mantenere la fiducia che diversamente diventa difiidenza. Insomma, errare è umano, perseverare è diabolico.Per me sono i comportamenti di chi ha sbagliato, i suoi atteggiamenti che devono cambiare e le persone non sono così fesse a non capire prima di tutto empaticamente

Poi è chiaro dipende dalla natura di una colpa, di un reato, di un delitto, di un peccato mortale o veniale.
Ci sono reati che nemmeno tutto l'oro del mondo possono riparare, stupri, omicidi.
Quindi se mi metto nella persona che subisce o ha familiari che hanno subito reati gravissimi....non è facile, a volta non basta la ragione e lo capisco e tutto non è mai come prima,non possiamo far tornare la ruota del tempo .
Forse tanto è più grave il reato e tanto il colpevole deve necessariamente dimostrare un pentimento anche pubblico, perchè ne va
dell'incolumità della comunità, della stessa coscienza pubblica e del senso di giustizia.
Io ritengo il pentimento e soprattutto il perdono al di sopra della stessa giustizia.
Tant'è che solo il presidente della Repubblica in Italia può compiere alcuni atti liberatori in favore di carcerati a vita, oppure il governatore dello Stato in USA può fermare la pena di morte. E' concessa una liberalità che è al di sopra della sentenza.

giona2068

Bisogna fare attenzione a non confondere il perdono  con la grazia. Il perdono ha come base il pentimento, mentre la grazia del capo dello stato e del presidente degli USA è un atto di liberalità che può esserci anche se il pentimento non è quello che dovrebbe essere.
Il perdono opera fra uomini e uomini e fra uomini e il Signore Dio. Quello fra uomini è il fondamento per poter sperare nel perdono del Signore Dio. Difronte a Lui siamo tutti colpevoli, ma a noi piace pensare che  dobbiamo solo  perdonare altri. Quando ci convinciamo che dobbiamo solo perdonare, nello stesso tempo ci convinciamo che chi sbaglia non siamo noi  ma altri.
Ora se tutti vogliamo perdonare e nessuno crede di dover chiedere il perdono, di quale perdono stiamo parlando?
Quando questo accade vuol dire che satana sta guidando la nostra mente, ci fa parlare di perdono con tante belle parole ma le nostre balbettazioni non daranno nessun frutto! 

paul11

...e infatti si  chiama grazia.
Il pentimento e il perdono sono un atto di volontà, non c'è niente di meccanicistico.

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