La spiritualità come cammino

Aperto da Angelo Cannata, 20 Maggio 2017, 16:02:10 PM

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green demetr

No l'interpretazione è corretta  :) , d'altronde bisogna ri-citare anthonyi, per poter far capire l'errore ad Angelo.

E' vero avevo dimenticato completamente la generosità, come fulcro di una morale, non so se effettivamente retributiva, ma comunque di fatto lo era.
Generosità che si realizza nella convivialità e anche nel relazione sacrale col cibo.
E' vero a questo terzo punto non ci avevo ancora pensato. grazie inverno!
Forse non sarà più sacrale, ma in molte feste patronali, di paese, o nelle fiere o sagre che dir si vogliano, il piatto della festa un pò ancora lo ricorpre il carattere di sacralità anche solo se nella forma dell'appartenenza. Appartenenza ad un luogo e dunque ad una comunità.

Hai ragione, noi possiamo ricevere solo qualcosa di quell'esperienza.
Eppure alla lettura, l'emozione che la scrittura mi ha suscitato la ritengo genuina.
Ancora qualcosa (e anche di rilevante) passa della tradizione.

Non ho capito la storia dei Re, quella storica a quanto dici inverno.
Ma mi fido, se esiste una letteratura sterminata (trattandosi della bibbia, qualsiasi cosa che la riguarda è sterminata). Preferisco non indagare, sopratutto per quella parolina, "gerarchico"....ne sono allergico  ;)

Mi sembra tre punti da mettere nel paniere.
Perché la convivialità era molto presente nell'Induismo, basti pensare che i Veda erano dei ricettari!
Anzi a dire il vero in India, la convivialità e la sacralità del cibo è ancora presente! (anche se è più formale, più devozionale, che conviviale, anche se il risultato è comunque la convivialità  ;)  )



Vai avanti tu che mi vien da ridere

Angelo Cannata

Riguardo alla mia critica, ho già detto, proprio nel mio messaggio precedente, che si tratta di una mia reazione al testo, non di un'interpretazione di esso. D'altra parte, nel messaggio in cui avevo espresso tale critica, ciò era già chiarissimo, perché avevo scritto "Io non ci sto e gli ribatto..."; di conseguenza non mi si può imputare alcun errore in questo senso.

Riguardo al brano di Giovanni 6,1-15, c'è un criterio di fondo che necessita attenzione: se vogliamo interpretare il brano, dobbiamo anzitutto avere rispetto del testo. Non è rispetto del testo attribuirgli significati basati soltanto su somiglianze con altri fenomeni storici, a meno che non si dica apertamente, come ho fatto io a proposito della suddetta critica riguardante la teodicea, che l'intenzione non è interpretare il testo.

Pensare che nel brano sia presente un concetto di "...sacralità del cibo, non un sacralità aulica e patinata, ma bucolica" non è rispettoso del testo. Il testo infatti, al versetto 11, dice "dopo aver reso grazie": quel rendimento di grazie non è un gesto qualsiasi, ma fa parte dei riti di ringraziamento che al tempo di Gesù venivano osservati. I gesti che Gesù compie non sono descritti per puro caso: la sequenza "prese... rese grazie... distribuì" fa parte di una precisa ritualità che si ritrova nell'ultima cena (sebbene essa sia assente nel vangelo di Giovanni). Dunque il testo descrive una sacralità a tutti gli effetti, legata a riti ben precisi, non una vaga e romantica sacralità di tipo "bucolico".

Il fatto che alla fine si dica che volevano farlo re non autorizza ad individuare paralleli dovunque nella storia troviamo re che provvedano a nutrire il loro popolo. Altro è individuare nel brano in sé l'idea di Gesù re che nutre il suo popolo, altro pensare di riscontrare parallelismi extrabiblici che sarebbero da dimostrare. Come ho detto all'inizio del messaggio, non possiamo metterci a riscontrare parallelismi solo perché ci sono somiglianze con altri fenomeni storici; le connessioni storiche vanno dimostrate.

Anche sostenere che l'elemento miracolistico sia solo una deviazione dell'attenzione, significa sostituire al testo le proprie supposizioni. Il testo contiene ripetuti richiami e sottolineature del fatto che si tratta di un miracolo: al v.7 si chiarisce che, anche a voler spendere una grande somma di denaro tutta in pane, ciò non sarebbe bastato a darne neanche un solo pezzo a ciascuno; non contento di ciò, il testo al v.9 richiama ancora l'impossibilità di ciò che sta per succedere: "che cos'è questo per tanta gente?". Al v.10 altro richiamo: si precisa al lettore che si tratta di una folla sterminata: circa cinquemila, nonostante si fosse detto già prima che era una grande folla; v.11: dopo la distribuzione c'è, contro ogni aspettativa, abbondanza: "finché ne vollero"; vv.12-13, se per caso ci fossero ancora dubbi: quella folla non riuscì a consumare tutti i pani che furono distribuiti. Di fronte a tutte queste marcature, se vogliamo rispettare il testo dobbiamo ammettere che l'evento viene raccontato come miracolo, tutt'altro che "informale".

Riguardo all'idea di una comunità che celebri la propria maturità, anch'essa manca di rispetto al testo: Gesù è costretto a ritirarsi al più presto, perché questa folla, volendolo fare re, non ha capito niente del significato del segno che egli ha compiuto; ciò è detto a chiare lettere da Gesù stesso poco più avanti, sotto forma di rimprovero, ai vv. 26-27: "voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna". Gesù quindi sta dicendo alla gente, in pratica: "Non avete capito niente"; abbiamo l'esatto opposto di una comunità matura.

Con questo non intendo vietare ipotesi e teorie sul testo: basta semplicemente che si ammetta che l'intenzione non è di interpretare con esattezza il testo, ma di avanzare libere idee, e allora si può dire tutto quello che si vuole.

InVerno

#32
Citazione di: Angelo Cannata il 26 Maggio 2017, 23:20:01 PMCon questo non intendo vietare ipotesi e teorie sul testo: basta semplicemente che si ammetta che l'intenzione non è di interpretare con esattezza il testo, ma di avanzare libere idee, e allora si può dire tutto quello che si vuole.
Non di interpretarlo (almeno non teologicamente) ma di contestualizzarlo, immaginare il paesaggio in cui accade, anche senza volerne tirare fuori una morale o un messaggio di fede, ma anche solo per "gustare" più profondamente aspetti apparentemente di contorno come quello della convivialità. Riguardo ai punti da te espressi, correggo il tiro perchè pare che mi sia espresso male (la facilità con cui accade tra contemporanei rimarca solo le difficiltà abissali che ci sono nella lettura di testi antichi)
La sacralità del cibo non è espressa dalle parole ma dal fatto che sono il mezzo tra re e discepoli, è la loro posizione nel rituale, il loro movimento dalle mani di uno dall'altro che simboleggiano il rapporto di potere tra il distributore e il ricevitore, dico bucolico perchè si vede bene la differenza tra un simbolo agreste come il pane, e un simbolo tipicamente urbano come l'ostia o un qualsiasi altro mezzo dei rituali moderni (o anche solo bovini\ovini che rappresentavano "la ricchezza" ). E' una sacralità legata a riti ben precisi forse dal punto di vista della cultura israelita, ma sopratutto a una tradizione millenaria mondiale, come ho già sottolineato la letteratura a riguardo è sterminata e va dal 5000ac al primo medioevo, dall'indonesia alla norvegia. Per questo dico che l'attenzione all'elemento magico (che magico è) distoglie l'attenzione nel lettore moderno, non perchè l'autore abbia avuto questa intenzione, ma perchè rimarca una eccezionalità dell'evento che non ha assolutamente nulla di eccezionale (anche le coppe di alcool di Sigfrido - XIII secolo - erano sempre piene). Per questo suppongo che il lettore del tempo prestasse davvero poca attenzione al fatto della moltiplicazione, quanto invece al fatto che quella comunità avesse raggiunto una sorta di maturità, l'abbondanza è il simbolo del successo, di un tentativo identitario che funziona. Non sei d'accordo che sia una sorta di maturità? Eh beh ma il caso vuole che fosse poco prima della pasqua ebraica, ovvero, la redistribuzione statale dei leviti (anche per loro l'elemento bucolico era perso, essendo che la carne era già monetizzata). Giorno a caso? A me pare proprio una comunità che dimostra a se stessi e la società che sono capaci di autosostentarsi in piena antitesi al regime costituito, l'elemento politico è insito nel giorno scelto. In termini moderni potremmo immaginare una comunità che il giorno della riscossione delle tasse statali, decidesse di riscuoterle per una cassa comune non facente riferimento allo stato. Se non è celebrazione di identità e maturità questa..Poi ripeto lungi da me interpretare il Cristo della fede, quello è tutto e niente, basta entrare nelle varie chiese del mondo per vederlo dipinto di vari colori e di varie fattezze, ognuno se lo immagina come gli pare, io mi interesso dello scenario storico.

@Green Demetr, mi viene in mente "Centochiodi" di Ermanno Olmi, la convivialità dei paesani  contrapposta alla dura legge del "libro sacro" e la fuga del "Cristo" . Non ho particolarmente apprezzato l'interpretazione di Raz Degan, ma dato questo spunto l'idea del film mi riaffiora.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Angelo Cannata

#33
È senz'altro importante contestualizzare i testi che leggiamo, ma il contesto in cui porli dev'essere dettato dal testo, altrimenti possiamo anche porre questo brano nel contesto delle imprese di Garibaldi e trarne in libertà tutte le conseguenze che vogliamo.

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMLa sacralità del cibo non è espressa dalle parole ma dal fatto che sono il mezzo tra re e discepoli, è la loro posizione nel rituale, il loro movimento dalle mani di uno dall'altro che simboleggiano il rapporto di potere tra il distributore e il ricevitore
Io ho fornito le prove testuali del fatto che c'è un tipo di sacralità ben determinata, radicata nel contesto ebraico del brano. Tu dai un'importanza così centrale alla regalità di Gesù in questo brano, al punto da sostituire tale funzione di Gesù all'importanza delle sue parole, nello stabilire il tipo di sacralità a cui il brano fa riferimento. Per compiere quest'operazione bisogna prima indicare quali sono nel brano questi elementi così importanti che renderebbero centrale la regalità di Gesù. C'è nel testo un evidente richiamo, quando viene detto che volevano farlo re, ma in questo caso siamo costretti a concludere l'opposto, cioè in questo brano c'è un rifiuto della regalità da parte di Gesù. Questo rifiuto può essere considerato funzionale al tipo di regalità a cui Gesù teneva (Giovanni 18,36: "Il mio regno non è di questo mondo"); anche questo fatto, però, depone a sfavore dell'immagine del re che sfama i suoi sudditi: Gesù si autoconsidera re, ma non è questa la funzione con cui egli desidera essere considerato tale. Tant'è vero che rivolge a coloro che lo seguivano il rimprovero che ho citato sopra: a lui non piace essere seguito per il fatto che li ha sfamati. Dunque quali sarebbero gli elementi per dire che in questo brano sia corretto vedere Gesù nella funzione di re che distribuisce cibo a suoi sudditi?

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AME' una sacralità legata a riti ben precisi forse dal punto di vista della cultura israelita, ma sopratutto a una tradizione millenaria mondiale, come ho già sottolineato la letteratura a riguardo è sterminata e va dal 5000ac al primo medioevo, dall'indonesia alla norvegia.
Che senso ha preferire contesti più lontani a quello più vicino, richiamato dal testo in maniera chiara? Tu dici "forse dal punto di vista della cultura israelita" e "sopratutto a una tradizione millenaria mondiale". Cioè, riguardo al contesto di cui nel testo abbiamo le prove dici "forse"; riguardo ad un contesto lontano, per il quale bisogna fare acrobazie mentali per riscontrarlo nel testo, dici "soprattutto". Si può pensare che ciò significhi rispettare il testo?

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMevento che non ha assolutamente nulla di eccezionale (anche le coppe di alcool di Sigfrido - XIII secolo - erano sempre piene).
Il fatto che al tempo di Gesù fosse diffusa la credenza nei miracoli non significa che per quelle persone un miracolo non fosse un evento eccezionale; significa, piuttosto, che in quel contesto storico l'assenza di una mentalità scientifica consentiva a molti di passare per persone eccezionali, sfruttando la facilità che la gente aveva a credere nei miracoli. Ma per la gente si trattava pur sempre di miracoli, non di eventi ordinari, e il testo lo rimarca ripetutamente, come ho fatto notare.

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMil caso vuole che fosse poco prima della pasqua ebraica, ovvero, la redistribuzione statale dei leviti (anche per loro l'elemento bucolico era perso, essendo che la carne era già monetizzata).
Il riferimento alla Pasqua all'inizio del brano è di primaria importanza per il senso di questo testo. Ma nel Vangelo il senso fondamentale della Pasqua è il senso che vi ha dato Gesù attraverso la sua morte e la sua risurrezione. Anche in questo caso, dunque, non vedo perché ad un contesto già richiamato dal testo in maniera forte, cioè la Pasqua di Gesù, si debba preferire un contesto riguardo al quale non troviamo nel testo alcun richiamo.

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMuna comunità che dimostra a se stessi e la società che sono capaci di autosostentarsi
Il testo dice l'opposto: le persone lì presenti furono incapaci di autosostentarsi; il sostentamento fu dato da Gesù attraverso il compimento di un miracolo.

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMl'elemento politico è insito nel giorno scelto.
Come ho detto, la Pasqua a cui nei Vangeli si tiene in maniera fondamentale non è una Pasqua politica, è la Pasqua di Gesù. Per sostenere idee diverse bisogna prima individuarle nel testo.

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 10:59:06 AMPoi ripeto lungi da me interpretare il Cristo della fede, quello è tutto e niente, basta entrare nelle varie chiese del mondo per vederlo dipinto di vari colori e di varie fattezze, ognuno se lo immagina come gli pare, io mi interesso dello scenario storico.
Il Cristo dei Vangeli è il Cristo della fede. Non ha senso leggere i Vangeli trascurando questo fatto fondamentale. Senza fede i Vangeli non sarebbero stati scritti. Trascurando questo, fai esattamente l'opposto di ciò che hai detto in conclusione, cioè stai leggendo i Vangeli immaginando il Cristo che pare a te. Ma Giovanni non scrisse il suo Vangelo affinché ognuno vi vedesse un Cristo arbitrario: egli voleva trasmettere nel suo testo una fedeltà al Cristo della sua fede. Lo scenario storico del testo è esattamente questo: quel Vangelo fu scritto da una persona (o più persone) che intese comunicare la propria fede.

Parlando di storia, è senz'altro possibile tentare di individuare nel testo tutti quegli elementi che consentano di risalire a ciò che storicamente si verificò, dietro e oltre la visione di fede con cui il testo fu scritto. Una lettura storicistica del testo non può però trascurare in maniera così grave la visione di fede che l'autore impresse al testo, al punto da sostituirsi ad essa. In questo senso, per esempio, è anche possibile affermare che, da un punto di vista puramente storico, i Vangeli non parlano di un uomo che era Dio, ma di un uomo che fu ritenuto Dio. Ma non si può trascurare che quell'uomo fu ritenuto Dio dall'autore del testo. Non si può trattare una lettura storicistica del testo come se fosse la lettura essenziale. Non lo si può proprio perché, come ho scritto, una lettura storicistica tenta di andare oltre il testo, pur basando questo andare oltre sempre sul testo stesso. Ma una lettura che va oltre il testo non può essere considerata primaria rispetto ad una lettura che invece aderisce al testo nella maniera più rispettosa possibile. Io posso anche interpretare la Divina Commedia a partire dagli eventi storici della vita di Dante, a partire dal contesto sociale in cui egli visse; ottimo. Ma non posso presentare questo tipo di lettura come il modo essenziale, principale, con cui interpretare la Divina Commedia. Il modo principale, di base, di partenza, è il messaggio presente nel testo preso così com'è; poi ben venga qualsiasi altro tipo di lettura, sempre che non pretenda di sostituirsi alla lettura fondamentale, presentando se stessa come principale. Al contrario, qualsiasi altro tipo di lettura dovrà prendersi la briga di vedersela con la lettura di base e verificare la propria attendibilità in base a come esce da questo confronto.

InVerno

#34
Guarda io continuo questo argomento ma non ho alcuna intenzione di "deragliare" il topic vedi te dove sta il limite, continuo a rispondere non perchè ho agguerritamente a cuore questa tesi, quanto mi sembra di non spiegarmi e cerco di spiegare.

Penso che l'interpretazione dei testi antichi non sia difficile solamente perchè è necessario scovare le intenzioni dell'autore, ma sopratutto perchè è necessario immedesimarsi nel lettore, ed è questa la sfida davvero complessa. L'autore scrive per occhi che dovranno leggere, lui conosce quegli occhi, noi abbiamo grande grande grande difficoltà a immaginare la forma mentis di qualcuno che non sapeva dove andava il sole di notte (per dirne una). L'informazione si fa di un agente e un ricevente, il risultato sta nel rapporto tra i due, non è esclusiva del testo. L'autore cercava di comunicare qualcosa entro un certo spettro interpretativo ai suoi contemporanei cercando di immedesimarsi nel loro gusto, nella loro sensibilità in modo tale da poter comunicare. Cosa? Penso che sia proibitivo saperlo, seppure della Palestina del tempo conosciamo anche il prezzo al chilo dell'insalata, manca la vita in queste informazioni, possiamo solo immaginare, e la mia, specificato più volte, è più una rappresentazione del contesto non un esegesi del testo.

Detto questo, e detto anche che non ho mai voluto che la mia tesi venisse considerata come "principale" in nessun caso, anzi ho ribadito più volte la sua estraneità alla teologia e la sua precarietà. E detto anche che conosco bene il poco valore storico dei vangeli e non pretendo di analizzarli in quel senso, io provo (seppur ribadisco penso sia operazione impossibile) a capire il rapporto tra autore e lettore suo contemporaneo, e il perchè di determinate scelte narrative e che cosa simbolicamente o meno sanciscono nella narrativa identitaria, partendo da un ipotesi del contesto storico . Riguardo alle tue obiezioni


  • Sono assolutamente d'accordo che non abbia alcuna intenzione di fermarsi a quella festa o alla semplice "elezione". Forse ti ha sviato il fatto che ho parlato di maturità, quando in realtà avrei dovuto parlare di "fondazione" della comunità. Non ho mai messo in dubbio avesse piani successivi, d'altro canto è una storia e non finisce a quella pagina come è noto.
  • Se io prendo un libro a caso, non so "i dolori del giovane Werther" aiuta a capirlo dirti che nel frattempo in tutta europa stava sbocciando il romanticismo, oppure è un informazione superflua che non rispetta il testo? Ma davvero?
  • Fai esattamente la stessa operazione mia traendo una conclusione diversa (che fosse facile spacciarsi eccezionali). Ci sono conclusioni che dallo stesso metodo sono lecite, e altre no?
  • No, il testo dice "era vicina la pasqua, la festa dei giudei" questa è la pasqua ebraica, tu sai che questo evento è ipoteticamente accaduto a Tiberiade, poco prima che ai templi giudei fossero portati gli agnelli, cosa centra il significato della pasqua, è un riferimento temporale.
  • E' ovvio che prima fossero affamati, non avevano un Re, e se non li avesse sfamati non lo sarebbe mai diventato, non ci sono terze vie...è il fulcro della questione. Non sono cosi attaccato alla parola "Re" quanto invece credo che sia quella davvero adatta e descriva il momento.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Angelo Cannata

Citazione di: InVerno il 27 Maggio 2017, 22:29:05 PM
L'autore scrive per occhi che dovranno leggere, lui conosce quegli occhi, noi abbiamo grande grande grande difficoltà a immaginare la forma mentis di qualcuno che non sapeva dove andava il sole di notte (per dirne una). L'informazione si fa di un agente e un ricevente, il risultato sta nel rapporto tra i due, non è esclusiva del testo. L'autore cercava di comunicare qualcosa entro un certo spettro interpretativo ai suoi contemporanei cercando di immedesimarsi nel loro gusto, nella loro sensibilità in modo tale da poter comunicare. Cosa? Penso che sia proibitivo saperlo, seppure della Palestina del tempo conosciamo anche il prezzo al chilo dell'insalata, manca la vita in queste informazioni, possiamo solo immaginare, e la mia, specificato più volte, è più una rappresentazione del contesto non un esegesi del testo.

Detto questo, e detto anche che non ho mai voluto che la mia tesi venisse considerata come "principale" in nessun caso, anzi ho ribadito più volte la sua estraneità alla teologia e la sua precarietà. E detto anche che conosco bene il poco valore storico dei vangeli e non pretendo di analizzarli in quel senso, io provo (seppur ribadisco penso sia operazione impossibile) a capire il rapporto tra autore e lettore suo contemporaneo, e il perchè di determinate scelte narrative e che cosa simbolicamente o meno sanciscono nella narrativa identitaria, partendo da un ipotesi del contesto storico.
Mi sembra che le parti del tuo messaggio che ho evidenziato consentano di spiegare le difficoltà che sono sorte: da una parte tu stesso dici che c'è ...grande difficoltà..., ...proibitivo saperlo..., ...operazione impossibile...; dall'altra però è proprio questa l'operazione in cui ti avventuri. La conseguenza è che, ovviamente, tutto ciò che ti ritrovi a sostenere presta come minimo il fianco a migliaia di obiezioni.
La tua operazione mi ricorda una linea metologica che qualche decina di anni fa si seguiva nell'interpretare i testi della Bibbia: era la cosiddetta "storia delle forme", spesso citata con il suo nome tedesco Formgeschichte. In questa metodologia si privilegiava un tipo di indagine che ponesse al primo posto la ricostruzione delle varie fasi che il testo aveva attraversato prima di arrivare alla sua forma finale che oggi noi possediamo. Era un'indagine di tipo storico, storia del testo. Fior di studiosi riversarono le loro energie in questo tipo di ricerca, ma il risultato fu un fallimento: dopo anni in cui in tutto il mondo si dedicavano tempo e pazienza in questo lavoro, si dovette ammettere che esso conduceva a risultati eccessivamente incerti e limitati.
Trovo importante, a questo punto, aggiungere una nota: chi leggesse uno qualsiasi dei commenti alla Bibbia che furono scritti seguendo quel metodo non potrebbe accorgersi del suo fallimento, anzi, ne sarebbe subito affascinato ed entusiasmato. È possibile accorgersene soltanto leggendo più commenti e confrontando le loro affermazioni: solo a quel punto ci si rende conto della discutibilità delle tesi dei vari commentatori, perché ci si accorge di quanto le loro affermazioni siano contrastanti.
Da qui segue una conclusione utile: le affermazioni di un commentatore della Bibbia non hanno alcuna importanza se di tali affermazioni non si trova riscontro in altri autori.
Da qui mi viene da dirti: posso trovare opportuno prestare attenzione alle tue ipotesi se mi potrai citare i nomi di tre, quattro o più studiosi che siano d'accordo su quelle certe affermazioni. Se si tratta di un solo studioso, non posso dedicarvi attenzione, perché il tempo è prezioso.

Questo sposterebbe il discorso sui problemi della ricerca: tutti sappiamo che gli studiosi sono anche esseri umani e può benissimo darsi il caso che uno solo possa anche avere ragione contro tutti. Il problema è che non solo gli studiosi sono umani, ma anche noi che dovremmo leggerli. Cioè, io purtroppo ho il dovere di spendere il mio tempo in ciò che possa farlo fruttare al meglio. Il fatto che uno studioso potrebbe anche avere ragione contro tutti non è per me una ragione sufficiente a spendere tempo nel seguire le ipotesi di studiosi solitari. Certo, in questo modo corro il rischio di seguire le mode, ciò che tra gli studiosi va più in voga, che magari non mette in discussione certi sistemi di potere affermati nel mondo. Riguardo a questo problema, purtroppo non ho altra soluzione che gestire al meglio le mie letture, cercando attraverso di esse anche di formare al meglio il mio senso critico; un criterio per scegliere cosa meriti di essere conosciuto e approfondito è l'esame del senso critico e dell'autocritica presente in ogni autore, ogni fonte, ogni libro.

In questo modo si potrebbe anche pensare che stiamo un po' tornando al tema di questa discussione: spiritualità come cammino. Un problema essenziale del camminare è proprio questo: scegliere le strade più fruttuose, che non ci faranno sprecare il tempo della nostra vita.

green demetr

Diciamo allora che abbiamo 3 chiavi di lettura.

Quella delle forme di Inverno, che si concentra sulla perdita di senso rispetto al diacronico.

Quello tuo Angelo di Verità storica.

Quello mio di verità metaforica.

Ma la verità della metafora starebbe non tanto se una tale verità sia tale o meno. (gesù uomo o Dio?)

Non mi interessa tanto storicamente, quanto rispetto al cammino spirituale.

Ossia quale simbolo posso trarre da quel brano?

nel tempo in cui gesù non cammina più fra noi, cammina con noi il suo messaggio.

Ora se il messaggio sia Dio stesso, a me non interessa più di tot.

Se quello che passa da quanto scrivi è che la ritualità sia il vero messaggio del testo.
Cosa confermata da Inverno. (o meglio tu fai notate che la ritualità è stata messa in discussione da Gesù, mentre a Inverno interessa più il contesto, ignorando gravemente a mio avviso, questa nota).

Non sarei d'accordo dunque.

Ovviamente parlo da esterno alle questioni di fede, pur sapendo cosa è la fede.

A mio avviso come notato da Inverno, si ha una storia, che non finisce certo con quell'episodio.

La mia domanda è molto semplice dunque. Se ritieni che la convivialità sia un elemento al di fuori di ogni sospetto. Perchè tra contro-tesi (teodicea) e tesi (veritùà storica del rituale), io non ho capito se tu la metteresti o no nel tuo paniere personale.

Hai fatto bene a ricordare i passaggi che ricordano che siamo di fronte ad un miracolo.

Ma questo viene interpretato col fatto che stiamo parlando di qualcosa di veramente importante (tesi di non ricordo più se Cacciari o mon.Ravasi).

Mi riesce veramente difficile mettere nel paniere della spiritualità il miracolo.
A me sembra che ad ogni miracolo di gesù, poi lui si penta di averlo fatto. (tranne quello della resurrezione).

Come a dire. non è il miracolo che conta quanto la testimonianza, l'exemplum christi di aiuto al prossimo. E non al popolo, in particolare. gesù , come noti tu, scappa dalla gente.

rifugge quindi la formalità della vecchia alleanza per una della sostanza.

La ritualità di gesù e la sua ritirata  mi paiono un bell'enigma. Rito o no?

In questo caso la proposta di Inverno mi piace tantissimo, perchè il ricordo del pane vero, contro l'ostia artificiale. dice che abbiamo scelto la forma piuttosto che la sostanza.

In questo senso metto il pane nel paniere, e butto l'ostia. Questa è la mia seconda domanda per te, sei d'accordo? a livello metaforico ti prego! ma se te la senti visto la tua precedente vita, puoi anche spiegare il valore dell'ostia storico per te.

L'altra ultima domanda è: ti sei accorto che c'è una bicicletta da mettere in moto?????
Vai avanti tu che mi vien da ridere

Angelo Cannata

Non credo che al mondo possano esistere persone in grado di mettere in discussione il valore della convivialità; a meno che non si metta nel cibo del veleno, lo dico scherzando  :) , la convivialità è qualcosa che non può non piacere, tocca l'intero essere umano. Perfino quando non c'è un consumare cibi o bevande si può parlare di convivialità, perché in questo caso il cibo condiviso è la propria stessa presenza, il parlare, l'essere. L'intera esistenza umana può essere considerata tutta una convivialità.

Per quanto riguarda il valore del miracolo, se esso viene inteso esclusivamente come manifestazione di potere dell'uomo sulla natura, e quindi fine della fame e della sofferenza, allora neanche Gesù accettò di metterlo, come tu dici, nel paniere della spiritualità: lo dice egli stesso chiaro e tondo, quando rimprovera la folla di averlo seguito solo perché attirata dalla prospettiva di avere cibo in abbondanza. Al contrario, il testo stesso guida alla corretta considerazione del miracolo: esso va considerato come segno, una parola che si trova ripetuta tre volte nel corso di questa narrazione. La parola "segno" è facilmente collegabile a ciò che tu chiami metafora. La contrapposizione tra miracolo come segno e miracolo come affermazione di potere umano sulla natura si trova espressa nel rimprovero di Gesù a cui mi sono già riferito: voi mi cercate perché avete apprezzato non il segno, ma il saziarvi. È questo che induce Gesù, sempre per dirlo con parole tue, a pentirsi di aver fatto il miracolo: perché esso viene frainteso. Se il miracolo viene colto, secondo l'intenzione manifestata da Gesù, nella sua valenza di segno, allora sta ottimamente nel paniere della spiritualità. Da notare che in un primo momento la folla si era posta sulla strada giusta, come detto al versetto 14: "Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: «Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!»". Questa strada giusta, purtroppo, viene immediatamente smarrita: al versetto successivo si dice che volevano farlo re e Gesù è costretto a ritirarsi.

A questo punto, una volta compreso che la strada giusta è guardare il miracolo come segno, si aprirebbe tutta un'indagine da compiere su cosa significa segno e di cosa è segno. Per la prima questione possiamo osservare una cosa abbastanza semplice, ma importante: il segno in Gesù non è soltanto un linguaggio per dire qualcosa (per esempio quando dico "mela" per rinviare all'oggetto mela), ma è già esso stesso qualcosa: se, per esempio, vogliamo considerare che quel miracolo è segno della sua capacità di nutrire l'uomo, bisogna osservare che quest'atto del nutrire l'uomo si viene a verificare già nel segno stesso, perché di fatto il popolo mangia subito. Se io dico "mela", la parola "mela" non contiene dentro di sé l'oggetto mela. Quando invece è Gesù a dire "io ti sazio", il saziare avviene già con quel semplice dire, senza con questo escludere gli sviluppi e i rimandi del segno. Dietro ciò c'è una teologia, una spiritualità, che in breve si può esprimere così: in Dio non c'è differenza tra il dire e il fare.

Ci sarebbe poi il secondo interrogativo: segno di cosa? Corrisponde alla domanda che hai posto tu "quale simbolo posso trarre da quel brano?". Qui mi basta dire che i simboli sono infiniti, si tratta solo di distinguere tra quelli più aderenti al testo e quelli invece che se ne allontanano con più libertà.

Per quanto riguarda la ritualità, nell'esistenza di Gesù è possibile riscontrare un adattarsi, e quindi un'accettazione dei riti tradizionali ebraici, ma anche un intenzionale rivoluzionarli dal di dentro. Per una sintesi teologica di ciò potremmo dire così: se rito significa ubbidire a certe regole stabilite da Dio, Gesù ne trae la conseguenza che l'intera esistenza del credente dev'essere tutta un rito, visto che l'intera esistenza dev'essere un'ubbidienza a Dio. A questo punto nasce la conflittualità che provocò a Gesù la condanna a morte: se Dio ha dato dei riti, ben stabiliti e chiaramente obbligatori, come mai con Gesù Dio sembra smentire se stesso? Secondo me, a quest'interrogativo neanche Gesù diede una risposta chiara, tant'è vero che nel Cattolicesimo ciò che doveva essere rivoluzione del rito da parte di Gesù si ridusse a un ritorno al legalismo dell'Antico Testamento. Personalmente ritengo che la risposta stia nella prospettiva del divenire, crescere, camminare, che Gesù non chiarì esplicitamente: Dio sembrò in Gesù smentire tanti suoi comandi perché il vero comando di Dio, sostanza di tutti i comandi, era in realtà crescere, divenire, camminare. Ci voleva la venuta in terra di Angelo Cannata  8)  per renderlo finalmente esplicito. Ecco risolto l'enigma di Gesù che compie riti, ma anche si ritira.

Riguardo alle ostie, posso dirti che in vent'anni di sacerdozio le ho sempre odiate, proprio perché consapevole del loro significato; feci diversi tentativi, facendo confezionare qualche volta ai parrocchiani stessi qualcosa che avesse maggiormente una parvenza di pane, ma sono cose molto difficili da portare avanti per tanti motivi.

Riguardo alla bicicletta, io spero di essere in moto da quando sono nato e sempre di più vorrei far sì di non essere in realtà fermo. Se tu vedi aspetti su cui potresti far osservare l'opportunità di metterli in moto, sono tutt'orecchi: camminare, crescere, è lo scopo fondamentale che mi sono prefisso per la mia esistenza.

InVerno

@AngeloCannata non ho capito,se mi chiedi se questa tesi abbia fondamento da un commentatore biblico la risposta è no, o almeno non ne sono al corrente se non alla lontana e per analisi tangenti (il Gesù "politico" per esempio è stato largamente esplorato). Quando dico per esempio che il fatto magico non poteva essere il baricentro della storia non cito un particolare autore mi riferisco alla diffusione spropositata di questi "eventi" in culture coeve che lo depotenziano automaticamente, a pochi chilometri da li parlavano con gli alberi, mi spiego? L'unico commento biblico che penso abbia davvero rilievo sopra tutti è quello del rettore della facoltà di teologia di Baltimora "Nemmeno le persone che vivevano al tempo di Gesù si raccappezzarono mai su chi davvero egli fosse.. e loro furo testimoni oculari".

Riguardo alla questione ostia\pane, non fa altro che seguire una curva evolutiva che si può rintracciare in tantissimi altri culti. Non ho mai voluto affermare che il cristianesimo si sia "corrotto" in maniera unica e per questo maggiormente criticabile. Se vogliamo guardare oltre alle vicende bibliche, l'oggetto del sacrificio (hostia appunto) cosi' come il culto di alcuni animali in alcune tradizioni, ha evidenti collegamenti con l'equilibrio sociale, ecologico, e spirituale della comunità che li sceglie, al punto che le comunità in "cattive acque" ricorsero pure spesso al cannibalismo e altre tradizioni scelsero altro (ebrei->agnello) per questioni di riflesso alla società in cui essi vivevano, con ragioni ben chiare in moltissimi casi. Io vedo l'ostia (e di contrasto il pane) come il riflesso di due comunità molto diverse, con necessità diverse, gradi di maturità diversi, speranze diverse. Passare da un nutrimento a un finto-nutrimento per le proprie celebrazioni, è un bel salto per una comunità coeva ai romani.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Angelo Cannata

In questo caso rinuncio ad intervenire su questa linea: affrontare l'argomento come si deve richiederebbe un serio approfondimento sui rapporti della religione ebraica con le culture confinanti (non basta dire che ci furono influssi reciproci, questo lo sappiamo tutti; si tratterebbe piuttosto di scendere nei dettagli e vedere come, con chi, in quali epoche, con quali variazioni questi influssi si verificarono e quali prove accreditate è possibile riscontrare nei testi). Lo stesso vale per la questione dell'ostia: non basta certo aver letto un libro sul cannibalismo (mi sembra di aver capito che i tuoi interventi facciano riferimento al libro di Marvin Harris, Cannibali e re) per poter giungere a conclusioni meritevoli di considerazione. Sarebbero tutti approfondimenti affascinanti e meritevoli di attenzione, ma purtroppo non ho il tempo di approfondire tutto, il tempo mi obbliga a compiere scelte severe e drastiche. Per parlare con cognizione di causa di queste cose, per quello che percepisco io, bisognerebbe prima leggere non uno o due libri, ma almeno qualche decina, altrimenti passiamo il tempo a giocare con supposizioni e ipotesi di scarsissimo valore. Perciò ci rinuncio.

InVerno

Durkheim, Weber, Frazer, Eliade etc? No eh? Poi vabbè, mi prendo volentieri la squalifica del "hai letto 1 libro!", stavo cominciando a pensare che anche io sto perdendo tempo, buonagiornata!
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Angelo Cannata

Qui stiamo parlando di un brano del Vangelo ben preciso: ciò che gli antropologi o gli storici delle religioni affermano in generale non può essere applicato come se niente fosse a un testo preciso: bisogna comunque fare i conti con la specificità di quel testo. In questo senso ben venga che un antropologo o uno storico delle religioni si esprimano anche su un testo biblico, non è certo vietato, anzi, è proficuo, ma a patto che questi studiosi lavorino in collaborazione con gli esegeti. Se manca questa collaborazione, il risultato è proprio quello che è successo: si cominciano ad avanzare ipotesi di lettura che è facilissimo smentire a partire dal testo. Questo è un errore riscontrabile già in passato in tanti tipi di studiosi che si sono pronunciati sul testo a partire solo dalla loro disciplina e senza alcun confronto con gli specialisti del testo. Il risultato è che le loro ipotesi sono cadute nel nulla. In questo senso, le decine di libri di cui ho parlato dovrebbero essere studi in grado di avvicinare le idee degli antroplologi o degli storici delle religioni a quel testo. Se non si trova nulla che consenta un accostamento a quel testo specifico, anche milioni di libri non serviranno a niente. Io mi sento ignorante in proposito perché non ho letto alcun testo che si occupi specificamente dei riscontri antropologici o di storia delle religioni non dico con quel testo, ma almeno specificamente con il Vangelo di Giovanni; e allora non mi metto a fare ipotesi di questo genere.
C'è un'altra via che consente di evitare questa severità di indagini ed è quella dell'applicazione di ermeneutiche. Applicare un'ermenutica ad un testo consente di dire quello che si vuole perché non si sta parlando con la pretesa di aderire a quel testo, ma semplicemente di vedere cosa succede facendo reagire quel testo con quell'ermeneutica. In questo caso non si dirà "Nel testo c'è questo... il testo dice questo...", ma piuttosto "applicando quest'ermenutica verrebbe fuori questo..."; ok, ottimo, perché ci si sta limitando a verificare delle reazioni col testo, guardandosi bene dal pretendere di dire ciò che effettivamente è contenuto nel testo.
Senza questi criteri, ci ritroviamo con marxisti che hanno fatto dire a Gesù che bisogna essere comunisti, psicologi che hanno ritenuto di vedere in Gesù uno psicopatico e così anche antropologi che ritengono di vedere in Gesù il re che sfama i suoi sudditi, nella folla la comunità che celebra la propria maturità e così via.

green demetr

x inverno

non capisco come mai negli ultimi post sei entrato in questo loop storico.

anche se avessi ragione, e il rito si dovesse appiattire a una questione diacronica, con un salto (qualitativo? a me sembra il contratio) dal primitivo al borghese, quale sarebbe dunque il messaggio che faresti passare?
Perchè a questo punto non si capisce, in un ipotetico tuo cammino spirituale il conviviale lo metti o no nelpaniere?
E sopratutto il regale, il re, l'accentramento di potere, il borghese, lo metteresti o no (nel paniere)? (perchè mi pare visto l'ostinazione a farlo diventare una questione che riguarda l'antropologia generale, per te sia cosa importante).

Ecco perchè vedi, non hai risposto ancora alla mia provocazione, che Gesù è scappato dalla folla!

Dunque la regalità, benchè presente, come genere letterario, come evento storico etc....

Non ha alcun senso come spiritualità.

Ha invece senso il contrario, che la gente pur di mangiare è pronta a incoronare il primo venuto.....

In questo senso mi sento di avvallare le considerazioni di Angelo come pertinenti.

E ti invito a riflettere di come sia potuto accadere che dalla parte della ragione ( angelo e la teodicea) sei passato a quella del torto. E a darcene conto. Ciao ;)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

InVerno

Passo dalla parte del torto (forse ;) ) e mi infilo nei loop perchè mi si affibbiano intenzioni che non ho mai avuto e pur di mantenere il messaggio originale (la digressione è in realtà protezione) mi tocca fare lunghe scalate, e a volte capita di dover attraversare pareti vetrate pur di arrivare alla cima di diatribe che poi davvero non mi appartengono. Non saprei se qualitativo o meno, io direi.. coerente. Voglio dire, Gesù abbandona la festa e elargisce promesse spirituali, se la Chiesa ha abbandonato il cibo e si è data a "doni spirituali" penso che sia stata coerente con il vangelo, eventuali ulteriori valutazioni (come giustamente l'accezione borghese – in senso dispregiativo suppongo – sono sulla bilancia di ulteriori valutazioni).
Il conviviale lo metto assolutamente nel paniere. Intendiamoci, la convivialità è una forma complessa di incontro con l'altro, l'incontro con l'altro – qualsiasi sia la forma – è la legna del nostro fuoco. Perchè se sottolineo la questione diacronica è semplicemente per rimarcare la labilità dell'incontro con l'altro, e la necessità di ricercare le forme più "pure" di questo incontro, quelle dirette e meno verbose. Presto attenzione quando mi si dice "ho visto Cristo negli occhi dell'altro", mi domando cosa lessicalmente significhi Cristo in questo tipo di affermazioni "miste" ma prediligo quelle dirette.
Il regale – o per meglio dire l'autorità – NON la metto nel paniere, L'autorità stravolge il rapporto con l'altro e lo subordina, lo rende infertile e frutto di codici di iterazione. Infatti mi è già capitato di intervenire altre volte dubitando in maniera radicale dell'unità minima, il rapporto maestro-discepolo, che fino ad oggi nessuno mi ha tolto dalla testa sia un fallimento sistematico ed in termini. Figurarsi se il "maestro" è un testo, sacro o meno. Per arrivare all'unità minima della convivialità invece, farei riferimento al sensuale multiforme come opposto al liturgico monolitico, in una sorta di democratizzazione (ma non realitivismo morale) della spiritualità.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

Angelo Cannata

Citazione di: InVerno il 31 Maggio 2017, 21:20:01 PM
Voglio dire, Gesù abbandona la festa e elargisce promesse spirituali, se la Chiesa ha abbandonato il cibo e si è data a "doni spirituali" penso che sia stata coerente con il vangelo
Non so se ho capito bene ciò che volevi scrivere, ma credo che, se seguiamo questa linea, facciamo sia di Gesù che della Chiesa dei soggetti che si pongono in una prospettiva platonica, cioè una prospettiva in cui lo spirituale (in Platone il mondo delle idee) è il mondo delle cose autentiche, mentre il materiale sarebbe il mondo delle brutte copie, del fallace e della falsità. Ma sia Gesù che la Chiesa non possono essere concepiti in questi termini. In Gesù il mondo ha bisogno di essere redento, ma ciò non significa che abbia bisogno di essere ricondotto al mondo delle idee, e quindi smaterializzato. Lo stesso vale per la Chiesa. Purtroppo ci sono cattolici che ritengono che secondo il Cristianesimo questa vita, questo mondo, siano soltanto dei momenti di passaggio, il cui orizzonte è ultra terreno. Ma il fatto è che redimere questo mondo non significa ridurlo a spirito, eliminandone la materialità. Sia Gesù che la Chiesa danno al mondo materiale l'importanza che merita; il fatto che essi siano orientati a "nuovi cieli e terra nuova" non significa orientati alla smaterializzazione, ma piuttosto a un tipo di esistenza in cui regni Dio. Che poi tale esistenza rimanga materiale o diventi spirituale, non ha importanza: sia per Gesù che per la Chiesa tutto può benissimo rimanere materiale, purché vi si realizzi il regnare di Dio.

Citazione di: InVerno il 31 Maggio 2017, 21:20:01 PM
Presto attenzione quando mi si dice "ho visto Cristo negli occhi dell'altro", mi domando cosa lessicalmente significhi Cristo in questo tipo di affermazioni "miste" ma prediligo quelle dirette.
Riguardo a ciò sono in accordo con te e in disaccordo col Vangelo. In esso viene detto esplicitamente "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me". Ciò significa far risiedere l'importanza dell'altro nella presenza in lui di Gesù, far dipendere la dignità dell'altro da Gesù. Secondo me la dignità dell'altro non deve dipendere da nulla di esterno a lui, nulla di diverso da lui. L'altro ha la sua dignità semplicemente perché è lui; non deve elemosinare la sua dignità da niente e da nessuno.

Citazione di: InVerno il 31 Maggio 2017, 21:20:01 PML'autorità stravolge il rapporto con l'altro e lo subordina, lo rende infertile e frutto di codici di iterazione. Infatti mi è già capitato di intervenire altre volte dubitando in maniera radicale dell'unità minima, il rapporto maestro-discepolo, che fino ad oggi nessuno mi ha tolto dalla testa sia un fallimento sistematico ed in termini. Figurarsi se il "maestro" è un testo, sacro o meno.
Secondo me il rapporto di subordinazione è controproducente solo se viene divinizzato. Penso questo a partire dal fatto che in natura esiste un rapporto fondamentale di subordinazione, almeno quando si nasce: il rapporto genitore-figlio. D'altra parte, anche a scuola trovo inutile non tener presente o negare che il maestro ne sa più di me. Il rapporto secondo me si fa viziato quando il maestro o genitore viene considerato immune da errore, da cambiamento di opinione, da relatività. Allora abbiamo l'adolescente che si scandalizza di scoprire che i suoi genitori hanno dei limiti, oppure maestri psicologicamente autoindotti a fare carte false pur di difendere la loro infallibilità. A mio parere un esempio tipico di rapporto ottimale è quello che si viene a creare tra professore e studente quando si tratta di fare certe tesi di laurea specialistiche: in quel caso entrambi sanno che la materia è talmente vasta che, appena parte il lavoro, lo studente ne sa già più del professore e il professore non ha problemi a porsi in tale posizione: lì ciò che è superiore ad entrambi è solo la materia, entrambi sono ricercatori; nonostante ciò, lo studente sa benissimo che il professore conserva una sua superiorità fatta di bagaglio di cultura e di esperienza proprio nel fare ricerca, una superiorità che sarebbe inutile nascondersi.

Citazione di: InVerno il 31 Maggio 2017, 21:20:01 PMPer arrivare all'unità minima della convivialità invece, farei riferimento al sensuale multiforme come opposto al liturgico monolitico, in una sorta di democratizzazione (ma non realitivismo morale) della spiritualità.
Anche su questo sono d'accordo. Già da prete ero dell'idea che, piuttosto che esserci il sacerdote che sistematicamente presiede nella Messa, ciò dovrebbe essere fatto a turno da ciascuno dei fedeli. A questo proposito tenevo presente un'incoerenza che c'è nella Chiesa: secondo la sua dottrina, ogni fedele diventa sacerdote già con il battesimo: nel Cattolicesimo si è un popolo di sacerdoti, in cui cambia solo il grado di sacerdozio; l'incoerenza consiste nel fatto che, all'atto pratico, del sacerdozio dei fedeli non si tiene alcun conto, se non in forme che sono solo un contentino.

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