La realtà ultima dei fenomeni

Aperto da bluemax, 26 Aprile 2017, 22:54:49 PM

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bluemax

Vorrei portarvi una riflessione che costituisce il fulcro del dibattito tra Gorampa (maggiore filosofo della scuola Sakya, che ha chiarificato il lavoro di Sakya Pandita) e Tsongkhapa (maggiore filosofo e fondatore della scuola Gelug). La questione riguarda il rapporto tra le due verità e se, effettivamente, vi siano due verità.
Per i profani, quello delle due verità è un argomento della riflessione di Nagarjuna, considerato da tutte le scuole Mahayana il principale filosofo buddhista. Nagarjuna parla della verità convenzionale, che è quella dei fenomeni come noi li percepiamo ordinariamente... e poi la verità ultima, che è il modo in cui i fenomeni effettivamente sono, ossia vuoti di esistenza intrinseca e indipendente.


Secondo Gorampa, le due verità sono totalmente separate: la verità convenzionale (quella che DISEGNA la realtà compresa la creazione di varie divinità) è esclusivamente frutto dell'ignoranza, mentre quella ultima della saggezza. Non vi è quindi alcuna unità tra le due verità e anzi, si può tranquillamente dire che quella convenzionale non è affatto una verità. Non vi è quindi soluzione di unità tra le due verità, ma soltanto assoluta separazione... e ne consegue che un Buddha, nel suo approcciarsi ai fenomeni, percepisce soltanto la verità ultima e non quella convenzionale.

All'opposto, Tsongkhapa opera una radicale difesa dello stato ontologico della verità convenzionale. Non è infatti la verità convenzionale ad essere falsa, ma la sua reificazione operata dall'ignoranza. Una sedia infatti esiste convenzionalmente, ed è proprio la sua esistenza convenzionale (e non assoluta) che lo rende vuoto di esistenza intrinseca. Una sedia ad esempio esiste convenzionalmente (è impermanente, insostenziale, dipendente ecc..) e proprio per il fatto di esistere in questo modo, è vuota di esistenza intrinseca.
Personalmente trovo più convincente la teoria di Tsongkhapa.

Per fortuna le neuroscienze ci vengono in aiuto nel constatare come la mente percepisce la realtà convenzionale differente da quella ultima.

Al momento della nascita, ogni neonato, non è che non è in grado di vedere come sostenevano in passato, ma la propria retina, quindi cervello è invaso da una moltitudine di COLORI provenienti dal mondo esterno.
Questi colori naturalmente sono quel che noi chiamiamo, SEDIA, TAVOLO, FIORE ecc... ecc...

Nel corso della crescita il cervello necessita di costruirsi cio' che vengono chiamate MAPPE MENTALI ossia i colori percepiti vengono raggruppati in forme, e le forme generano il mondo esterno.

Esiste quindi, secondo me naturalmente, una realtà CONVENZIONALE (raggruppamento di fenomeni che generano una certa funzione a cui diamo un nome, divinità, casistiche a cui associamo un volere ultraterreno ecc... ecc...) ma esiste anche una realtà ULTIMA che è quella che il bambino percepisce nel momento iniziale in cui si rapporta al mondo esterno.

Ogni cosa che la mente attribuisce al fenomeno con cui viene in contatto (bello, brutto, piacevole, spiacevole, mio, tuo ecc... ecc... ) sono pure illusioni mentali che la mente si crea ma che in realtà tale fenomeno non ha per sua natura ultima.

il concetto di BELLO BRUTTO BUONO CATTIVO ecc... ecc... non è altro che una espansione del proprio EGO (che non esiste ma anch'esso è una SENSAZIONE che nasce verso un anno di età in ogni essere umano necessaria per rapportarsi con il mondo esterno) sugli oggetti percepiti.

il classico e banale esempio puo' essere fatto con l'insegnamento in tenera età delle lettere dell'alfabeto.
Quando per la prima volta ci viene detto che la disposizione particolare di 4 righe formano la lettera "M" si crea nel cervello la MAPPA di quel segno che assume il valore di M.
Prima di tale insegnamento noi vedevamo (quando non sapevamo leggere) 4 linee senza alcun significato... dopo tale insegnamento non riusciamo piu' a vedere 4 linee ma vediamo ISTANTANEAMENTE la lettere "M".
Questo fenomeno avviene per OGNI oggetto con cui la mente viene in contatto tramite i sensi.

Non dimentichiamoci che la vacuità non è "solo" la mancanza di esistenza intrinseca di tutti i fenomeni, ma è anche il sorgere dipendente.
Se si esclude il sorgere dipendente, cioè che ogni fenomeno dipende da altro (cause e condizioni) per "esistere", si rischia di cadere nell'estremo del Nichilismo, dove si considera la vacuità come un nulla assoluto quindi, sempre secondo me, Tsongkhapa si è avvicinato maggiormente alla verità ultima... quella di un budda....  anche se il dibattito rimane...

ciao :)

Sariputra

#1
Penso che dobbiamo aver chiaro che, per la filosofia buddhista, niente esiste in senso assoluto. Nemmeno l'elemento Nibbana è un assoluto, in quanto è proprio nella comprensione della vacuità ( o esistenza dipendente) di tutti i fenomeni che si realizza la Cessazione. Per questo Nagarjuna afferma: "I confini del Samsara sono i confini del Nibbana".. Nessun fenomeno manca della qualità di essere un evento che sorge dipendentemente. Tuttavia, istintivamente, tutte le cose ci appaiono come se esistessero indipendentemente le une dalle altre ( quella che si può definire come "esistenza convenzionale" dei fenomeni...). Se prendiamo, tanto per cambiare  :) , come esempio una montagna: eccola ergersi davanti a noi, maestosa e solenne, imponente, indipendente da qualsiasi condizione e concreta, ma se riflettiamo capiamo che deve la sua esistenza ad un'infinità di cause e condizioni e a innumerevoli particelle atomiche nemmeno visibili. E' solo l'unione di tutte queste 'parti', a loro volta dipendenti una dall'altra, a formare quella che noi designamo come 'montagna'. Ecco quindi che abbiamo la vacuità di esistenza indipendente ( o intrinseca) della designazione convenzionale 'montagna'. Non c'è un'entità 'montagna' che esista separata dalla cause, condizioni e componenti che sono la base della sua esistenza. Il buddhismo però non nega che queste cause, condizioni e componenti siano reali, ciò che non è reale è la designazione 'montagna'. O meglio...la montagna ha una esistenza convenzionale e stabilita da un giudizio di valore espresso dal soggetto che la percepisce istintivamente come "un qualcosa a sé"; così la montagna diventa 'alta' , 'antica', 'imponente', ecc.
Quando si afferma l'esistenza vuota dei fenomeni bisogna portarsi anche sul piano della vacuità stessa della mente che li percepisce. Infatti anche la mente, per il buddhismo, è vuota di esistenza indipendente. Ogni stato mentale sorge in dipendenza da numerosi momenti di coscienza e da svariati fattori mentali...
Dopo un'ora di meditazione, per es., la mente sembra possedere un'identità propria e indipendente, ma se la analizziamo vediamo che dipende da diversi singoli pensieri, sentimenti e percezioni, sperimentati in quell'ora , oltre che dall'oggetto di meditazione ( per es. il respiro). Persino la coscienza ( vinnana) , vista dal buddhismo come elemento che migra da una vita all'altra sino al raggiungimento della buddhità, non esiste in modo indipendente. Ossia anche la coscienza è soggetta al sorgere dipendente ( ed è abbastanza evidente se riflettiamo che non ci può essere coscienza senza oggetto della coscienza...). Quindi tutta la persona è dipendente, mente e corpo.
Ciò che viene negato dalla vacuità è pertanto qualsiasi cosa ci appaia come dotata di esistenza indipendente, intrinseca. La vacuità non è altro che l'assenza di ciò che si nega.
Ma perché non si può operare una dualità tra 'verità convenzionale' e 'verità ultima' ? Perché la vacuità è vacuita di esistenza intrinseca sia della fantomatica 'verità convenzionale' che della 'verità ultima'...
Anche il Nibbana, per il madhyamika, è vuoto. E perché è vuoto?  Perché, essendo cessazione, è vuoto di sofferenza data dalla vacuità dei dhamma concepiti come esistenti intrinsecamente ( la 'verità' del Nibbana non è altro che la terza Nobile verità, ossia la verità della cessazione del dolore...). Se esistesse qualcosa di più alto da realizzare che il Nibbana, ancora si dovrebbe definire vuoto di esistenza intrinseca. Questo serve per togliere dalla mente l'idea che il raggiungimento del Nibbana sia un eternalismo, un entrare in un 'paradiso' o cose simili e altresì togliere anche l'idea opposta che sia un semplice annichilimento. Il Nibbana è...cessazione del dolore, nient'altro...("Esaurita è la vita, non vi sarà più ri-essere").
Direi che Tsongkhapa è più in sintonia con le madhyamika-karika...
Il saggio chiama vacuità la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni. Ma egli aggiunge che anche questa vacuità è vuota dell'essere una vacuità esistente intrinsecamente. Questa vacuità della cosiddetta vacuità viene considerata la vacuità della vacuità. Buddha ha parlato di essa per neutralizzare la tendenza della mente ad apprendere la vacuità come intrinsecamente esistente.
( Guida alla Via di Mezzo- sesto capitolo del Madhyamakavatara di Chandrakirti-185-186)
Ciao  :)
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

InVerno

Citazione di: bluemax il 26 Aprile 2017, 22:54:49 PMEsiste quindi, secondo me naturalmente, una realtà CONVENZIONALE (raggruppamento di fenomeni che generano una certa funzione a cui diamo un nome, divinità, casistiche a cui associamo un volere ultraterreno ecc... ecc...) ma esiste anche una realtà ULTIMA che è quella che il bambino percepisce nel momento iniziale in cui si rapporta al mondo esterno.
Perchè? Voglio dire, sotto quale aspetto si può considerare come "ultima" (accezione progressiva) la realtà percepita dal nascituro? Non è anche essa frutta di mappe mentali che a certi stimoli di luce legano una rappresentazione visiva (colore) ? In ogni caso a questo punto "ultima" ha un accezione digressiva, e la realtà "ultima" allora forse si riferisce ancora prima, alle percezioni nella pancia della madre. Mi pare un ragionamento a ritroso che porta poco distanti, se è solo questione di allontanarsi dalla percenzione convenzionale esiste sempre un momento "prima" o "dopo" dove la percezione era meno nitida e schiava delle codificazioni, anche in punto di morte probabilmente le mappe mentali vanno a farsi benedire. Ma soprattutto, fare questo distinguo tra realtà ultima e convenzionale, a che tipo di realtà appartiene? Ultima o convenzionale? A differenza degli animali siamo in grado di modulare suoni complessi e di concatenarli in parole, in seguito attribuirgli significato al solo scopo comunicativo. Non abbiamo motivo di chiamare un "albero" albero, e attriburgli una realtà convenzionata e codificata se non per indicare ad un amico che se continua a correre in quella direzione troverà un albero ove sbattere la faccia, l'uso della parola è una strumentalizzazione ancora più pesante e incisivo della "realtà ultima". A questo punto però ci dobbiamo rendere conto che un amico che ci allerta dell'esistenza di due realtà differenti come i saggi citati, è arrivato a un livello di stratificazione della codificazione, di grado decisamente superiore a qualsiasi sedia. Allora io rispondo: Realtà ultima e convenzionale? Questo è il più convenzionale dei distinguo, il più lontano (per livello di astrazione da essa) dalla realtà ultima in se. Se questi due saggi se ne fosse affrancati, non avrebbero forse dovuto stare innanzitutto zitti?
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

bluemax

Citazione di: InVerno il 27 Aprile 2017, 09:27:13 AM
Citazione di: bluemax il 26 Aprile 2017, 22:54:49 PMEsiste quindi, secondo me naturalmente, una realtà CONVENZIONALE (raggruppamento di fenomeni che generano una certa funzione a cui diamo un nome, divinità, casistiche a cui associamo un volere ultraterreno ecc... ecc...) ma esiste anche una realtà ULTIMA che è quella che il bambino percepisce nel momento iniziale in cui si rapporta al mondo esterno.
Perchè? Voglio dire, sotto quale aspetto si può considerare come "ultima" (accezione progressiva) la realtà percepita dal nascituro? Non è anche essa frutta di mappe mentali che a certi stimoli di luce legano una rappresentazione visiva (colore) ? In ogni caso a questo punto "ultima" ha un accezione digressiva, e la realtà "ultima" allora forse si riferisce ancora prima, alle percezioni nella pancia della madre. Mi pare un ragionamento a ritroso che porta poco distanti, se è solo questione di allontanarsi dalla percenzione convenzionale esiste sempre un momento "prima" o "dopo" dove la percezione era meno nitida e schiava delle codificazioni, anche in punto di morte probabilmente le mappe mentali vanno a farsi benedire. Ma soprattutto, fare questo distinguo tra realtà ultima e convenzionale, a che tipo di realtà appartiene? Ultima o convenzionale? A differenza degli animali siamo in grado di modulare suoni complessi e di concatenarli in parole, in seguito attribuirgli significato al solo scopo comunicativo. Non abbiamo motivo di chiamare un "albero" albero, e attriburgli una realtà convenzionata e codificata se non per indicare ad un amico che se continua a correre in quella direzione troverà un albero ove sbattere la faccia, l'uso della parola è una strumentalizzazione ancora più pesante e incisivo della "realtà ultima". A questo punto però ci dobbiamo rendere conto che un amico che ci allerta dell'esistenza di due realtà differenti come i saggi citati, è arrivato a un livello di stratificazione della codificazione, di grado decisamente superiore a qualsiasi sedia. Allora io rispondo: Realtà ultima e convenzionale? Questo è il più convenzionale dei distinguo, il più lontano (per livello di astrazione da essa) dalla realtà ultima in se. Se questi due saggi se ne fosse affrancati, non avrebbero forse dovuto stare innanzitutto zitti?
Notevole... ed interessante... :) 
Solo sul fatto di "stare innanzitutto zitti" nutro perplessità... :) 
difficile che nel buddismo, sempre alla ricerca della verità, qualcuno si prenda l'onere del silenzio :)

comunque notevole riflessione, grazie :)

bluemax

Citazione di: Sariputra il 27 Aprile 2017, 01:13:04 AM
Penso che dobbiamo aver chiaro che, per la filosofia buddhista, niente esiste in senso assoluto. Nemmeno l'elemento Nibbana è un assoluto, in quanto è proprio nella comprensione della vacuità ( o esistenza dipendente) di tutti i fenomeni che si realizza la Cessazione. Per questo Nagarjuna afferma: "I confini del Samsara sono i confini del Nibbana".. Nessun fenomeno manca della qualità di essere un evento che sorge dipendentemente. Tuttavia, istintivamente, tutte le cose ci appaiono come se esistessero indipendentemente le une dalle altre ( quella che si può definire come "esistenza convenzionale" dei fenomeni...). Se prendiamo, tanto per cambiare  :) , come esempio una montagna: eccola ergersi davanti a noi, maestosa e solenne, imponente, indipendente da qualsiasi condizione e concreta, ma se riflettiamo capiamo che deve la sua esistenza ad un'infinità di cause e condizioni e a innumerevoli particelle atomiche nemmeno visibili. E' solo l'unione di tutte queste 'parti', a loro volta dipendenti una dall'altra, a formare quella che noi designamo come 'montagna'. Ecco quindi che abbiamo la vacuità di esistenza indipendente ( o intrinseca) della designazione convenzionale 'montagna'. Non c'è un'entità 'montagna' che esista separata dalla cause, condizioni e componenti che sono la base della sua esistenza. Il buddhismo però non nega che queste cause, condizioni e componenti siano reali, ciò che non è reale è la designazione 'montagna'. O meglio...la montagna ha una esistenza convenzionale e stabilita da un giudizio di valore espresso dal soggetto che la percepisce istintivamente come "un qualcosa a sé"; così la montagna diventa 'alta' , 'antica', 'imponente', ecc.
Quando si afferma l'esistenza vuota dei fenomeni bisogna portarsi anche sul piano della vacuità stessa della mente che li percepisce. Infatti anche la mente, per il buddhismo, è vuota di esistenza indipendente. Ogni stato mentale sorge in dipendenza da numerosi momenti di coscienza e da svariati fattori mentali...
Dopo un'ora di meditazione, per es., la mente sembra possedere un'identità propria e indipendente, ma se la analizziamo vediamo che dipende da diversi singoli pensieri, sentimenti e percezioni, sperimentati in quell'ora , oltre che dall'oggetto di meditazione ( per es. il respiro). Persino la coscienza ( vinnana) , vista dal buddhismo come elemento che migra da una vita all'altra sino al raggiungimento della buddhità, non esiste in modo indipendente. Ossia anche la coscienza è soggetta al sorgere dipendente ( ed è abbastanza evidente se riflettiamo che non ci può essere coscienza senza oggetto della coscienza...). Quindi tutta la persona è dipendente, mente e corpo.
Ciò che viene negato dalla vacuità è pertanto qualsiasi cosa ci appaia come dotata di esistenza indipendente, intrinseca. La vacuità non è altro che l'assenza di ciò che si nega.
Ma perché non si può operare una dualità tra 'verità convenzionale' e 'verità ultima' ? Perché la vacuità è vacuita di esistenza intrinseca sia della fantomatica 'verità convenzionale' che della 'verità ultima'...
Anche il Nibbana, per il madhyamika, è vuoto. E perché è vuoto?  Perché, essendo cessazione, è vuoto di sofferenza data dalla vacuità dei dhamma concepiti come esistenti intrinsecamente ( la 'verità' del Nibbana non è altro che la terza Nobile verità, ossia la verità della cessazione del dolore...). Se esistesse qualcosa di più alto da realizzare che il Nibbana, ancora si dovrebbe definire vuoto di esistenza intrinseca. Questo serve per togliere dalla mente l'idea che il raggiungimento del Nibbana sia un eternalismo, un entrare in un 'paradiso' o cose simili e altresì togliere anche l'idea opposta che sia un semplice annichilimento. Il Nibbana è...cessazione del dolore, nient'altro...("Esaurita è la vita, non vi sarà più ri-essere").
Direi che Tsongkhapa è più in sintonia con le madhyamika-karika...
Il saggio chiama vacuità la mancanza di esistenza intrinseca dei fenomeni. Ma egli aggiunge che anche questa vacuità è vuota dell'essere una vacuità esistente intrinsecamente. Questa vacuità della cosiddetta vacuità viene considerata la vacuità della vacuità. Buddha ha parlato di essa per neutralizzare la tendenza della mente ad apprendere la vacuità come intrinsecamente esistente.
( Guida alla Via di Mezzo- sesto capitolo del Madhyamakavatara di Chandrakirti-185-186)
Ciao  :)

ti ringrazio molto del tuo apporto :) 
sopratutto quando fai riferimento a <<Guida alla Via di Mezzo- sesto capitolo del Madhyamakavatara di Chandrakirti-185-186>> 
devo dargli una lettura...

grazie :) 

Sariputra

@ Inverno scrive:
Se questi due saggi se ne fosse affrancati, non avrebbero forse dovuto stare innanzitutto zitti?


Concordo con te sul fatto che stare zitti è saggio, a prescindere...Qui forse ci troviamo di fronte ad una sorta di diatriba filosofica interna al linguaggio descrizionale usato dai due maestri buddhisti. Voglio dire: è possibile che ambedue , partendo da una medesima pratica , con medesimi frutti, all'atto pratico di doverla trasmettre con uno strumento inadeguato come il linguaggio, diano peso e significato diverso alle parole. Tuttavia ambedue possono esser stati ottimi maestri di Dhamma...e sicuramente lo erano.
In generale la speculazione buddhista tende a non avere una posizione assoluta, ma è profondamente dialettica e questo, nella storia, è stato anche all'origine delle divisioni interne che hanno dato inizio ai vari "veicoli". Il buddhismo più recente tende a superare queste divisioni, che sono più speculative che pratiche ( inerenti alla pratica meditativa).

 ...sotto quale aspetto si può considerare come "ultima" (accezione progressiva) la realtà percepita dal nascituro?..

Infatti non può essere considerata "realtà ultima" perché nel nascituro non vi è alcuna comprensione dell'intero processo di costruzione mentale, che richiede la consapevolezza dell'intera catena di produzione condizionata ( la famosa paticcasammupadha...). In generale usare termini come "realtà convenzionale" o "realtà ultima" è fuorviante nella pratica buddhista, essendo il termine stesso "realtà" vuoto di esistenza intrinseca o indipendente. Lo si usa normalmente per semplificare e rendere accessibile, ma è anche pericoloso, perché la mente tende a impadronirsi del termine e costruire il concetto che esistano due realtà...
Non so se bluemax vuole chiarire in che senso intendeva usarlo...

 Non abbiamo motivo di chiamare un "albero" albero, e attriburgli una realtà convenzionata e codificata se non per indicare ad un amico che se continua a correre in quella direzione troverà un albero ove sbattere la faccia, l'uso della parola è una strumentalizzazione ancora più pesante e incisivo della "realtà ultima".

Infatti se ci vai a sbattere contro ti accorgi immediatamente dell'esistenza dell'albero. Quando si parla di vacuità dell'albero non si mette in dubbio la sua esistenza ben concreta ( e dolorosa nel caso di andarci contro... :)), in questo il buddhismo è realista. Si parla della vacuità di esistenza indipendente, ossia che non c'è alcun albero come entità distinta dalle cause, condizioni e componenti che lo determinano ( ossia che non c'è alcun "albero" se non come designazione convenzionale).
La designazione è assolutamente necessaria...anche un Buddha deve usare termini convenzionali per spiegarsi...importante per il buddhismo è non prendere come "sostanziale" la designazione mentale stessa ( questa pratica serve per non "aggrapparsi" alla designazione mentale...).

Ciao :)

Scusa il grassetto ma non riesco a toglierlo, ho pasticciato un pò...
Sulla strada del bosco
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bluemax

Credo invece che la realtà ultima possa essere vissuta o meglio, sperimentata, solo da una mente non inquinata dal proprio ego. In poche parole quella di un neonato.
Questa mente la possiamo ritrovare unicamente nel momento della rinascita appunto, dopo la sperimentazione del bardo dove viene purificata da ricordi, avversioni, attrazioni ecc... ecc...

Credo sia quasi impossibile per una mente che non sia quella di un neonato di percepire la realtà ultima invece di quella convenzionale.

Penso che la realtà ultima sia quella che ogni neonato sperimenta... e man mano che cresce la inquina facendola diventare realtà convenzionale. Necessita di vedere gli oggetti come realtà intrinseche, uniche, distinte da altri oggetti, spesso raggruppate per la loro funzione.
Un neonato vede una forma con un colore... sente un suono... ecc... ecc...
Un adulto invece vede un SUO bel bicchiere, sente una SUA BELLISSIMA musica, difende queste SUE e solo SUE bellezze creando avversione o attrazione...


Per un bambino ogni oggetto è neutro, privo di significato, ha soltanto una forma, un colore, ma non una funzione e tutte quelle QUALITA' illusorie che la mente inquinata associa ad ogni oggetto con cui viene in contatto.
La mente inquinata è duale, la mente di un neonato no. Non esiste il bene ed il male (degenerazione mentale che porta alla nascita di inutili divinità) ma esiste il fenomeno.

Un neonato favorisce la funzione primaria della mente che è quella di APPRENDERE (infatti si dice che la mente ha tra le sue caratteristiche principali quella di essere conoscitiva).

Quindi... rimanendo in tema, penso che la mente del neonato sia in grado di percepire la realtà ultima... la mente di un adulto no (a meno di grandissimi sforzi o anni di meditazione sul concetto di vacuità, origine della sofferenza, morte e rinascita ecc... ecc...)

spero di essermi spiegato ma essendo a lavoro ho dovuto scrivere velocemente.


ciao :)

Sariputra

@bluemax
Capisco cosa intendi... però nel neonato può esserci percezione , ma non c'è ancora comprensione e neppure visione intuitiva  ( prajna). La sua mente è come un diamante puro , ma totalmente inconsapevole di esserlo. E' uno stato di in-nocenza ma pure di in-consapevolezza. Altrimenti, se non vi fosse questa comprensione, dovremmo dedurre che tutte le forme di vita che non sviluppano un pensiero fatto di designazioni convenzionali e soprattutto che non sviluppano un ego, sono nella buddhità...
Questa mente-di-neonato però porta in sè , ben radicata, l'innata tendenza a sviluppare questo ego, e questo processo di sviluppo serve per differenziarsi e poter meglio sopravvivere nell'ambiente in cui si trova gettata. Se non avesse in sé questa innata e potente sete di esistere (tanha) la coscienza non sarebbe di certo ri-nata, secondo la visione buddhista.
Hai ragione senz'altro quando dici che la mente del neonato e poi del bimbo percepisce in maniera più diretta che non quella, ormai compromessa dall'attaccamento ai concetti, dell'adulto. Percepisce soprattutto la Bellezza in modo più intenso e da questa percezione nasce la Meraviglia ( che poi è la stessa Bellezza e Meraviglia che, consapevolmente, percepisce la mente-di-buddha, ossia la mente sgombrata dagli ammassi e dalle macerie concettuali...). 
La comprensione è fondamentale , nel buddhismo, anche per stabilire un'etica ( cioè una necessità di prendersi cura del proprio e dell'altrui dolore...). Cosa che la pura percezione, come quella del neonato, non può certo realizzare. Se vediamo la 'realtà convenzionale' come un nemico e la 'realtà ultima' come una meta, operiamo sì un perverso dualismo che non ci porterà da nessuna parte.
Per prenderci cura del nostro e dell'altrui dolore dobbiamo prenderci cura proprio della 'realtà convenzionale', rimanendo consapevoli che non dobbiamo attaccarci ad essa per non far sorgere continuamente il senso dell'io-mio che, come giustamente osservi: "...difende queste SUE e solo SUE bellezze creando avversione o attrazione..."
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bluemax

Citazione di: Sariputra il 27 Aprile 2017, 17:05:19 PM
@bluemax
Capisco cosa intendi... però nel neonato può esserci percezione , ma non c'è ancora comprensione e neppure visione intuitiva  ( prajna). La sua mente è come un diamante puro , ma totalmente inconsapevole di esserlo. E' uno stato di in-nocenza ma pure di in-consapevolezza. Altrimenti, se non vi fosse questa comprensione, dovremmo dedurre che tutte le forme di vita che non sviluppano un pensiero fatto di designazioni convenzionali e soprattutto che non sviluppano un ego, sono nella buddhità...
Questa mente-di-neonato però porta in sè , ben radicata, l'innata tendenza a sviluppare questo ego, e questo processo di sviluppo serve per differenziarsi e poter meglio sopravvivere nell'ambiente in cui si trova gettata. Se non avesse in sé questa innata e potente sete di esistere (tanha) la coscienza non sarebbe di certo ri-nata, secondo la visione buddhista.
Hai ragione senz'altro quando dici che la mente del neonato e poi del bimbo percepisce in maniera più diretta che non quella, ormai compromessa dall'attaccamento ai concetti, dell'adulto. Percepisce soprattutto la Bellezza in modo più intenso e da questa percezione nasce la Meraviglia ( che poi è la stessa Bellezza e Meraviglia che, consapevolmente, percepisce la mente-di-buddha, ossia la mente sgombrata dagli ammassi e dalle macerie concettuali...).
La comprensione è fondamentale , nel buddhismo, anche per stabilire un'etica ( cioè una necessità di prendersi cura del proprio e dell'altrui dolore...). Cosa che la pura percezione, come quella del neonato, non può certo realizzare. Se vediamo la 'realtà convenzionale' come un nemico e la 'realtà ultima' come una meta, operiamo sì un perverso dualismo che non ci porterà da nessuna parte.
Per prenderci cura del nostro e dell'altrui dolore dobbiamo prenderci cura proprio della 'realtà convenzionale', rimanendo consapevoli che non dobbiamo attaccarci ad essa per non far sorgere continuamente il senso dell'io-mio che, come giustamente osservi: "...difende queste SUE e solo SUE bellezze creando avversione o attrazione..."

°_° non so come ringraziarti... sai perchè ?
Beh... nella tua risposta... ho trovato un'altra risposta ad una domanda che mi facevo da tempo... (che non centra nulla con la discussione attuale).
Quando affermi "Se non avesse in sé questa innata e potente sete di esistere (tanha) la coscienza non sarebbe di certo ri-nata, secondo la visione buddhista."

ho avuto una folgorazione :)
ti ringrazio... devo rileggermi alcuni testi ma quella frase mi ha dato una intuizione... :) ad un dubbio che mi portavo dietro da anni... 

ti ringrazio tanto :)

Phil

Citazione di: bluemax il 27 Aprile 2017, 16:27:32 PM
Penso che la realtà ultima sia quella che ogni neonato sperimenta... e man mano che cresce la inquina facendola diventare realtà convenzionale. Necessita di vedere gli oggetti come realtà intrinseche, uniche, distinte da altri oggetti, spesso raggruppate per la loro funzione.[...] La mente inquinata è duale, la mente di un neonato no. [...]
Un neonato favorisce la funzione primaria della mente che è quella di APPRENDERE (infatti si dice che la mente ha tra le sue caratteristiche principali quella di essere conoscitiva).
Il punto archimedeo, secondo me, è proprio tale "apprendimento": iniziare ad apprendere, per il neo-nato (o ri-nato  ;D ) comporta inevitabilmente (ri)iniziare a discriminare (questo/quello), ad attaccarsi (piacevole/spiacevole), a desiderare (bene-buono/male-cattivo) e a illudersi (io/non-io), aprendo così le porte alla sofferenza, alla brama, all'ignoranza, al karma negativo etc. Più il neonato apprende (assorbendo la cultura in cui cresce) più muove i primi passi nella realtà convenzionale (forse eccezion fatta per i neonati che crescono in un monastero buddhista... ma ce ne sono? Non saprei  :) ).

La "realtà convenzionale" forse può servire da viatico, da indicazione per la "realtà ultima" (se c'è), proprio come risalendo lungo l'ombra possiamo ritrovare il corpo che la proietta; parimenti credo che il discorso convenzionale del buddhismo sia una sorta di punto di tangenza fra ombra e corpo, che invita a farsi superare per approdare (con la famosa zattera) ad un altro piano (passando dal bidimensionale ombroso dei dualismi convenzionali alla pienezza del vuoto tridimensionale...).

sgiombo

Premetto innanzitutto che mi rendo conto che, che da ignorante crassissimo di filosofia orientale, potrei sparare delle gran cazzate (anzi, ho "ottime" probabilità di farlo).

Chiedo anticipatamente venia.

Ho trovato la discussione veramente interessante e mi sembra di poter fare qualche considerazione (probabilmente del tutto fuori luogo).

La realtà che sperimentiamo, se ho ben capito, può essere considerata "vacua" sostanzialmente in due sensi.

I - Nel senso che tutto diviene e nel suo divenire é condizionato da, o almeno in qualche modo correlato a, tutto il resto della realtà: niente é/accade indipendentemente dal resto della realtà, niente é "assoluto" ma tutto ciò che é o accade é o accade, o meglio diviene, secondo determinate relazioni con tutto il resto che ne limitano e "stabiliscono in qualche modo" le modalità del divenire stesso (e viceversa, in un rapporto di reciprocità "qualcosa"/"tutto").
Così anche la montagna più -letteralmente o almeno metaforicamente- granitica, o la galassia più duratura si formano per determinate cause e prima o poi si disfano per determinate cause, più o meno simili oppure diverse da quelle della loro formazione.
Nulla é "divino", dal momento che (per dirlo all' occidentale, con Eraclito) "panta rei".

II - Nel senso che ciò che si vive coscientemente ovvero si percepisce é di per sé un insieme-successione "indefinito" o "informe" o "grezzo" di sensazioni; nel senso che, almeno in linea di principio può essere preso in considerazione in infiniti modi diversi.
Che ci sia un albero (un magnifico cedro del Libano) é una considerazione (mia arbitraria) circa ciò che vedo nel bel giardino del mio vicino di casa; ma potrei (o qualcun altro potrebbe) anche altrettanto arbitrariamente (e "lecitamente", correttamente in linea di principio) considerare l' esistenza di due cose diverse come il suo tronco e le sue radici da una parte e i suoi rami e le sue foglie dall' altra; oppure quattro cose: foglie, rami, tronco e radici; oppure tot cose: ciascuna foglia, ciascun ramo, ecc,; oppure potrebbe considerare come un unica "cosa" tutti gli alberi del giardino, ecc., ecc., ecc.).
Secondo me a far preferire certe interpretazioni dei "dati sensitivi grezzi" é la maggiore o minore costanza del loro associarsi nel divenire.
Cioé ha molto più senso considerare un oggetto "sasso", che rotola compattamente, può essere compattamente spostato qua e là e usato per vari scopi come rompere il guscio di una noce o difendersi da un aggressore e solo applicandovi -fatto molto raro- una notevole forza può essere frantumato, piuttosto che considerare gli oggetti "i tre quarti che vedo a destra del sasso" oppure "il sasso unitamente all' albero vicino al quale si trova ora (ma non ieri e non domani); e questo anche se si tratta comunque in tutti e tre i casi e negli infiniti altri possibili in linea di principio di considerazioni soggettive, arbitrarie del "totale immediatamente esperito".
La visione del bimbo appena nato di cui parla Bluemax é indubbiamente molto più "approssimativa", "limitata", meno "sofisticata" di quella di un adulto; ma in un certo senso é molto più oggettiva o forse, per meglio dire, meno soggettiva, più limitata al darsi immediato e non interpretato della realtà.

Ci sarebbe secondo me un terzo modo di intendere la relatività o limitatezza (vacuità?) delle cose percepite, ed é il loro essere (costituiti da) nient' altro che meri fenomeni, mere apparenze sensibili, reali solo ed unicamente allorché e fintanto che accadono come percezioni: il magnifico cedro del Libano di cui sopra (costituito unicamente da determinati qualia visivi, per lo più verdi e marroni), se chiudo gli occhi non c' é, non esiste, non accade più; e se qualcosa ancora c' é o accade, a spiegare il fatto che se riapro gli occhi immancabilmente (salvo catastrofi naturali o artificiali) immediatamente l' albero c' é o accade di nuovo, allora questo "qualcosa" non é l' albero stesso (quei qualia visivi, che ovviamente quando non ci sono non possono essere), ma "altro (altre cose)".

Sono prontissimo a sentirmi dire che non ho capito una mazza, e ringrazio comunque per l' attenzione (non scrivo "cortese" per non copiare Garbino).

Sariputra

#11
@ Sgiombo

Non hai "sparato delle gran cazzate", non temere...anzi.
Non aggiungerei molto ai punti I e II del tuo scritto. Il punto I, in particolare, è perfettamente compatibile con la visione buddhista.
Voglio solo aggiungere qualche riflessione , riesumata qua e là nella memoria, su cosa intendeva il primitivo pensiero buddhista sulla percezione.
Solitamente la scienza e il pensiero occidentale cercano di stabilire una differenziazione tra realtà materiale e psicologica. Esiste cioè , secondo questa concezione, un mondo materiale assolutamente indipendente dai nostri sensi. Tarando i sensi, per mezzo di appositi strumenti, si può accertare l'esistenza "oggettiva" di questo mondo fisico. Scoprire poi la natura fondamentale di questi oggetti materiali è un'altra storia, di diverso genere e, mi sembra, non ancora risolta, ma , ora come ora, noi siamo certi che quello che chiamiamo "mondo materiale" non sia una semplice illusione. Almeno questo è il "senso comune" attuale del pensiero occidentale. "Lì fuori" esiste qualcosa di indipendente da noi...
Il disegno di un oggetto rappresenterebbe, invece, un genere diverso di realtà. Si tratta di un oggetto materiale ma non del tutto indipendente da noi. La foto di Villa Sariputra non è Villa Sariputra , ma non è nemmeno del tutto indipendente da essa. E' cioè una realtà in 'relazione'.
L'immagine, che si forma nella mente, di Villa Sariputra, non è la Villa, ma non è nemmeno indipendente da questa. L'immagine percettiva è sicuramente una rappresentazione profondamente incompleta, una specie di trasposizione degli stimoli visivi ricevuti. La mente però dà per scontata una corretta corrispondenza. Siccome poi questi stimoli sensoriali li percepiamo, più o meno, tutti nello stesso modo abbiamo una corrispondenza tra le nostre immagini percettive e quelle altrui e creiamo il "mondo"...
Per il pensiero nostrano l'immagine è un fatto "cosciente", mentre i processi nervosi sono un fatto 'materiale'. Sono come due dimensioni inconciliabili. Un'immagine prodotta dalla memoria, dal sogno o dalla fantasia sarà ritenuta ancora più 'cosciente', dato che in questi casi non c'è stimolo nervoso ma si ritiene vi siano 'tracce' conservate o prodotte all'interno del sistema nervoso ( infatti di solito queste immagini sono meno chiare e dettagliate di quelle ottenute attraverso la percezione, anche se non sempre...).
Secondo il pensiero buddhista antico questa dicotomia tra 'realtà materiale' e immagini mentali è esagerata o addirittura falsa.
Siccome tutti i fenomeni vivono in relazione dipendente, pensano i buddhisti, anche il processo di percezione e immaginazione è una 'relazione' tra tre elementi principali condizionati e condizionantisi a vicenda: la forma-l'occhio-la coscienza. Ma non è solo la forma che, attraverso l'occhio, condiziona la formazione dell'immagine del mondo nella coscienza; anche la coscienza interagisce con la forma, determinandola . Per questo si afferma che il 'mondo' è (anche) un prodotto della coscienza. Il 'mondo' viene cioè visto come un processo dinamico in alcun modo esistente di per sé, ma sempre e solo in relazione e la coscienza è componente essenziale di questa relazione. Il 'mondo' diventa quindi un prodotto dei nostri sensi, dei nostri pensieri e, soprattutto, dei nostri desideri o paure. Noi costruiamo il 'mondo'. Questo però non vuol dire che noi e il mondo siamo irreali o una specie di illusione. Gli oggetti ci sono, ma la percezione che di essi noi abbiamo è parte essenziale e costituente. Il mondo va preso dannatamente sul serio. Per il buddhismo, tutte le nostre costruzioni di idee ( vale a dire percezioni e immagini) sono veri e propri processi, ed è enormemente difficile controllarle o rendersene indipendenti ( particolarmente in una mente adulta direi...). L'ottenere l'indipendenza da questo continuo processo di creazione, viene definito come Cessazione, Nibbana (Nirvana che significa letteralmente "estinzione" di questo incessante processo di creazione, visto alla fine come Dolore...), ossia la "distruzione del mondo" ( costruito dal soggetto ovviamente...). Per il Buddha ci si può giungere attraverso la meditazione e la comprensione ( panna o prajna in sanscrito). Per il buddhismo il soggetto ha un ruolo importante nella formazione dell'immagine e che l'immagine fa parte dell'oggetto. Non c'è una vera e propria scissione tra 'soggettivo' e 'oggettivo' in quanto , quelli che si potrebbero definire come processi esclusivamente mentali, sono anche proiettati come oggetti reali.
Riflettendo, per esempio, su un fatto 'reale' come la morte fisica noi occidentali diremmo che "la coscienza non può farci nulla, se non sparire ". Nel Buddhismo invece la morte fisica è (anche) proiettata e costruita dalla coscienza stessa che interviene nel processo essendone in relazione  e quindi deteminando la successiva ri-nascita ( o re-inizio del processo incessante di costruzione...).
Ciao  :)

P.S. Per questo, per semplificare, si parla di "realtà convenzionale" od ordinaria e di "realtà ultima". La prima come comune costruzione di un mondo fatto di processi percettivi che si danno come scontati per la coscienza che è, a questo livello, totalmente inconsapevole che ne è lei stessa uno degli attori ( ma non l'unico...) e la seconda, come il momento in cui si prende consapevolezza che si è semplicemente all'interno di un processo ( vuoto in sè) che agisce in dipendenza delle parti che lo costituiscono. Questa "visione" del processo ( che si potrebbe pensare come essa stessa una semplice costruzione come le altre...) non è importante in sè, ma lo diviene per lo scopo per cui è cercata, ossia per ottenere un "distacco" dall'attaccamento a questo processo di costruzione e così diminuire la carica dolorosa che lo stesso porta con sè.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Sariputra

Citazione di: Phil il 27 Aprile 2017, 18:31:48 PM
Citazione di: bluemax il 27 Aprile 2017, 16:27:32 PMPenso che la realtà ultima sia quella che ogni neonato sperimenta... e man mano che cresce la inquina facendola diventare realtà convenzionale. Necessita di vedere gli oggetti come realtà intrinseche, uniche, distinte da altri oggetti, spesso raggruppate per la loro funzione.[...] La mente inquinata è duale, la mente di un neonato no. [...] Un neonato favorisce la funzione primaria della mente che è quella di APPRENDERE (infatti si dice che la mente ha tra le sue caratteristiche principali quella di essere conoscitiva).
Il punto archimedeo, secondo me, è proprio tale "apprendimento": iniziare ad apprendere, per il neo-nato (o ri-nato ;D ) comporta inevitabilmente (ri)iniziare a discriminare (questo/quello), ad attaccarsi (piacevole/spiacevole), a desiderare (bene-buono/male-cattivo) e a illudersi (io/non-io), aprendo così le porte alla sofferenza, alla brama, all'ignoranza, al karma negativo etc. Più il neonato apprende (assorbendo la cultura in cui cresce) più muove i primi passi nella realtà convenzionale (forse eccezion fatta per i neonati che crescono in un monastero buddhista... ma ce ne sono? Non saprei :) ). La "realtà convenzionale" forse può servire da viatico, da indicazione per la "realtà ultima" (se c'è), proprio come risalendo lungo l'ombra possiamo ritrovare il corpo che la proietta; parimenti credo che il discorso convenzionale del buddhismo sia una sorta di punto di tangenza fra ombra e corpo, che invita a farsi superare per approdare (con la famosa zattera) ad un altro piano (passando dal bidimensionale ombroso dei dualismi convenzionali alla pienezza del vuoto tridimensionale...).

Sul fatto che un bambino( e ancor di più un neonato) abbia una sorta di approccio più "vero" alla percezione di quella che viene definita come "realtà ultima" troviamo una interessante analogia nel pensiero cristiano, quando si parla della beatitudine dei piccoli perché "di loro è il Regno dei Cieli..." e "Se non tornerete come questi piccoli, non entrerete nel regno dei Cieli..."
Questi passi sono stati portati spesso come riflessione per delle analogie tra mistica cristiana e buddhista ritenendole alla fine come, ambedue, siano anti-cultura...ma è un altro discorso da fare.
Se il 'mondo' è (anche) un processo di costruzione mentale si potrebbe dire che nel neonato ci sono le solide fondamenta, ma l'edificio concettuale non è ancora stato costruito e perciò la vista del 'paesaggio', non limitata dall'imponente grattacielo che verrà costruito con gli anni e l'educazione, sia più "sgombra" e che così possa vedere 'più lontano'...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

sgiombo

@Sriputra

Beh sono proprio contento di aver fatto qualche considerazione non del tutto impertinente sul buddismo.
D' altra parte, anche da ignorantissimo in materia, trovo comunque abbastanza ovvio che il pensiero occidentale e l' orientale (nella presumibile varietà di entrambi), malgrado i limiti di comunicazione reciproca persistiti fino a un recente passato, in buona parte tendano a "sovrapporsi" o "intersecarsi" soprattutto quanto a problemi affrontati, ma in parte anche quanto a soluzioni tentate.
 
Si, concordo che il pensiero occidentale per lo più (quasi unanimemente) accredita come minimo un' intersoggettività al mondo (per me fenomenico, credo in netta minoranza risetto al pensiero occidentale) materiale naturale (la cartesiana "res cogitans" per così dire "correttamente percepita": non sogni e allucinazioni, oltre che non i fenomeni mentali).
Invece sui rapporti coscienza/materia o mente/cervello le opinioni sono molto più disparate, anche se mi sembra di rilevare una crescente tendenza (favorita dalle scoperte neuroscientifiche in genere poco o punto criticamente abbracciate, soprattutto fra gli scienziati ma anche da parte di non pochi filosofi) al prevalere di un monismo materialista che tende in vari modi a identificare (fra gli altri per riduzione, per emergenza o per sopravvenienza), secondo me a torto, la coscienza con determinati eventi neurofisiologici cerebrali (o al limite, in qualche variante particolarmente "radicale" di materialismo, a considerare il pensiero e la coscienza dei meri "epifenomeni" irrilevanti, per così dire "di mero accompagnamento inefficace e pleonastico" al cervello, o addirittura a negarne l' esistenza reale: "eliminativismo").
 
Quanto brevemente accenni sul buddismo ovviamente lo comprendo solo in minima parte.
Soprattutto mi risulta inverosimile la possibilità di annullare (attraverso al meditazione) la realtà (fenomenica, percepita?) per il fatto di non essere qualcosa di in sé, di indipendente dalle sensazioni coscienti stesse (cosa, quest' ultima che mi sembra invece di ben comprendere, e sulla quale concordo).
Ti ringrazio comunque per le delucidazioni.
Mannaggia alla vecchiaia: se fossi più giovane mi metterei d' impegno a cercare di conoscere un po' anche la filosofia orientale!

InVerno

#14
Citazione di: Sariputra il 27 Aprile 2017, 11:44:03 AM
@ Inverno scrive:
Se questi due saggi se ne fosse affrancati, non avrebbero forse dovuto stare innanzitutto zitti?


Concordo con te sul fatto che stare zitti è saggio, a prescindere...Qui forse ci troviamo di fronte ad una sorta di diatriba filosofica interna al linguaggio descrizionale usato dai due maestri buddhisti. Voglio dire: è possibile che ambedue , partendo da una medesima pratica , con medesimi frutti, all'atto pratico di doverla trasmettre con uno strumento inadeguato come il linguaggio, diano peso e significato diverso alle parole. Tuttavia ambedue possono esser stati ottimi maestri di Dhamma...e sicuramente lo erano.
In generale la speculazione buddhista tende a non avere una posizione assoluta, ma è profondamente dialettica e questo, nella storia, è stato anche all'origine delle divisioni interne che hanno dato inizio ai vari "veicoli". Il buddhismo più recente tende a superare queste divisioni, che sono più speculative che pratiche ( inerenti alla pratica meditativa).

...sotto quale aspetto si può considerare come "ultima" (accezione progressiva) la realtà percepita dal nascituro?..

Infatti non può essere considerata "realtà ultima" perché nel nascituro non vi è alcuna comprensione dell'intero processo di costruzione mentale, che richiede la consapevolezza dell'intera catena di produzione condizionata ( la famosa paticcasammupadha...). In generale usare termini come "realtà convenzionale" o "realtà ultima" è fuorviante nella pratica buddhista, essendo il termine stesso "realtà" vuoto di esistenza intrinseca o indipendente. Lo si usa normalmente per semplificare e rendere accessibile, ma è anche pericoloso, perché la mente tende a impadronirsi del termine e costruire il concetto che esistano due realtà...
Non so se bluemax vuole chiarire in che senso intendeva usarlo...

Non abbiamo motivo di chiamare un "albero" albero, e attriburgli una realtà convenzionata e codificata se non per indicare ad un amico che se continua a correre in quella direzione troverà un albero ove sbattere la faccia, l'uso della parola è una strumentalizzazione ancora più pesante e incisivo della "realtà ultima".

Infatti se ci vai a sbattere contro ti accorgi immediatamente dell'esistenza dell'albero. Quando si parla di vacuità dell'albero non si mette in dubbio la sua esistenza ben concreta ( e dolorosa nel caso di andarci contro... :)), in questo il buddhismo è realista. Si parla della vacuità di esistenza indipendente, ossia che non c'è alcun albero come entità distinta dalle cause, condizioni e componenti che lo determinano ( ossia che non c'è alcun "albero" se non come designazione convenzionale).
La designazione è assolutamente necessaria...anche un Buddha deve usare termini convenzionali per spiegarsi...importante per il buddhismo è non prendere come "sostanziale" la designazione mentale stessa ( questa pratica serve per non "aggrapparsi" alla designazione mentale...).

Ciao :)

Scusa il grassetto ma non riesco a toglierlo, ho pasticciato un pò...
Il tema della comunicabilità (e della validità del rapporto maestro-discepolo) rimane per me un grandissimo punto interrogativo riguardo ogni filosofia, orientale o meno. Sono sempre stato affascinato dall'idea ebraica della parola "incomunicabile", il tetragramma, penso si tratti di una geniale sublimazione di antiche usanze dove alcune parole erano proibite a certe caste (o addirittura di lingue ad hoc, usanza che si è tramandata anche in tempi più recenti) e privando delle parole si pensava di privare le persone del possesso di realtà in se, un idea geniale dal mio punto di vista che racconta di uomini che avavano maggior coscienza di che cosa fossero davvero le parole, anzichè ubriacarsi di esse. Aiuterebbe il giovane buddista se il nirvana si chiamasse yhqkfg e non potesse trasformarlo nel suo burattino? Penso che come gli ebraici prima o poi uscirebbe fuori una pronuncia. E' però vero tuttavia che le parole possono aprire strade, sopratutto quando esse sono ancorate alla realtà per metafora, come mi è capitato spesso di trovare nei testi orientali dove gli elementi naturali fungono da logica di fondo, da meccanismo chiarificatore. Ricordo anche di un mio amico che mi raccontò di vivere il suo corpo come uno scafandro, una metafora che mi colpì molto e che di colpo feci mia sotto forma di sensazione. L'idea di essere immersi in una profondità oscura, protetti da un guscio dotato solo di alcune piccole luci direzionali capaci di illuminare piccole macchie di roccia e corallo, mentre la vastità intorno rimane un inesplorata nebula di colori scuri e anime perse, suoni ovattati e incomprensibili lamenti..Come altro sarebbe stato possibile comunicare ciò, se non usando quella parola? Ma che cosa voleva comunicare lui? Ci adagiamo sulle parole come se fossero strumenti perfetti, invece sono quanto di più labile e arbitrario la nostra mente abbia mai creato, a tal punto che non ho idea di che cosa tu abbia realmente letto in questo momento.
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

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