La mèta è camminare

Aperto da Angelo Cannata, 07 Luglio 2017, 01:24:13 AM

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Angelo Cannata

Un video di 2 minuti e mezzo che esprime ciò che per me è il nocciolo, l'essenza, il fondamento di tutto, della vita, dell'universo, della spiritualità: la mèta è la strada: se stai camminando sei già nella mèta; la Verità non è essere arrivati, ma l'esatto opposto, essere per strada, trovarsi in cammino, essere in ricerca. Finché non smetti di cercare, sei già nell'aver trovato. Se smetti di cercare, puoi star certo di aver perso il trovare, qualunque cosa tu pensi di aver trovato. Jean Louis Ska fu tra i miei professori di Sacra Scrittura molti anni fa, per me è un grande maestro.

https://www.youtube.com/watch?v=Z5jKu1ZUrmc

Sariputra

Citazione di: Angelo Cannata il 07 Luglio 2017, 01:24:13 AMUn video di 2 minuti e mezzo che esprime ciò che per me è il nocciolo, l'essenza, il fondamento di tutto, della vita, dell'universo, della spiritualità: la mèta è la strada: se stai camminando sei già nella mèta; la Verità non è essere arrivati, ma l'esatto opposto, essere per strada, trovarsi in cammino, essere in ricerca. Finché non smetti di cercare, sei già nell'aver trovato. Se smetti di cercare, puoi star certo di aver perso il trovare, qualunque cosa tu pensi di aver trovato. Jean Louis Ska fu tra i miei professori di Sacra Scrittura molti anni fa, per me è un grande maestro. https://www.youtube.com/watch?v=Z5jKu1ZUrmc

"I frutti della strada si raccolgono camminando"...però bisogna pure sincerarsi se, per caso, non si stia percorrendo un circuito ( stile Indianapolis...) , perché se no si continua a passare sotto lo stesso albero  ;D e a "girare in tondo" su se stessi ( magari camminando con lunghi capelli raccolti da un nastro, una chitarra a tracolla e un meraviglioso sole che spunta all'orizzonte...stile hippy per intenderci).
E' vero che la meta è anche  la strada da percorrere, ma io lo intendo nel senso che, se vuoi arrivare da qualche parte, devi pur metterti in cammino ( "uscire dalla propria terra" o dall'Egitto...o da un mondo di certezze preconfezionate). Questo cammino però è interiore, perché se lo consideriamo esteriore, diventa un semplice accumulare esperienze che non sono in grado di cambiarci, annullando il senso stesso del viaggio.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Angelo Cannata

Per me il criterio del camminare è il migliore perché, proprio a causa del fatto che è un camminare, dev'essere per forza anche un camminare riguardo al camminare stesso; in altre parole, è come dire che un esercizio adeguato del criticare non può tralasciare la critica del criticare stesso, quindi l'autocritica.

Ciò può creare il timore di un sapere mai dove andare a parare, timore di un dubitare continuo su tutto e tutti, quindi anche su se stessi, il cui risultato può essere quello di bloccare ogni azione, bloccare la crescita.

Io ritengo che questo sia un problema solo per chi dimentica la storicità del nostro essere. Storicità significa che ognuno di noi ha sempre un passato, una storia ben definita alle spalle, e poi c'è anche la storia dell'intero pianeta. Perciò il mio camminare non è semplicemente teoria, ma anche assunzione della fisionomia specifica di me, della mia storia e della storia mondiale entro cui mi sono trovato a nascere. In questo senso per me camminare significa anche fare spesso il punto della situazione, proprio come fa un viaggiatore, un esploratore: cerca di capire dove si trova e verso dove può essere meglio procedere.

Questo metodo ovviamente non garantisce protezione totale dal girare in tondo, ma questo timore è valido solo per chi ancora ritiene di poter pensare in termini di totalità, universalità, assoluti, cioè uno stile di pensiero che ancora ci portiamo dietro dalla filosofia nata in Grecia. Il cammino mondiale della filosofia mi dice che chiunque dica di essere pervenuto a idee assolute permane nell'impossibilità di apportarne prove che risultino convincenti per tutti. Significa che nulla è in grado di garantirci protezione dal girare in circolo; anzi, proprio le pretese di assolutezza si prestano più di qualsiasi altro stile di pensiero ad essere sospettate di girare in circolo.

Riguardo al problema dell'evitare il puro accumulo, secondo me può essere evitato, non con un semplice richiamo all'interiorità, ma conoscendo maestri che abbiano già formato in se stessi una fisionomia unitaria armonica. Chi non ha mai conosciuto maestri del genere non può avere neanche l'idea di cosa può significare formarsi una fisionomia coordinata delle esperienze spirituali. Questo mi costringe ad essere abbastanza pessimista, nel senso che sono cose comprensibili esclusivamente attraverso dei percorsi organici, dei cammini ben progettati con l'aiuto di qualche guida; non si possono spiegare con annotazioni sparse o partecipando a conferenze slegate l'una dall'altra.

Apeiron

"Studiare il Buddhismo è studiare se stessi. Studiare se stessi è dimenticare se stessi" (Dogen, maestro zen)
Potremo dire che in questo caso si può dire: "dobbiamo camminare per imparare di dimenticarci di camminare".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Dimenticare se stessi mi sa di spersonalizzazione. Spesso ho notato che l'orante dei Salmi, che furono anche la preghiera abituale di Gesù, non si preoccupa affatto né di concentrarsi, né di dimenticarsi; al contrario, spesso presenta a Dio le proprie preoccupazioni, gli dice che ci sono persone odiose che gli rendono la vita difficile, a volte protesta anche contro Dio stesso, e poi conclude facendo capire di sentirsi rasserenato. In questo senso molti Salmi mi somigliano a delle sedute psicologiche, in cui il paziente si sfoga, si racconta e in questo raccontarsi si reinterpreta, si riconsidera, specialmente sapendo che c'è un altro che lo sta ascoltando; poi alla fine si sente rasserenato, proprio grazie a quest'esperienza di aver tirato fuori i problemi, averli raccontati, riletti, e avendo vissuto nel contempo un'esperienza di sentirsi ascoltato da qualcuno.

In questo senso trovo armonia tra l'esperienza espressa nei Salmi e quella elaborata dalla ricerca scientifica in psicologia.

Da prete ogni tanto qualche persona mi esprimeva la sua difficoltà a pregare, perché la sua mente a un certo punto perdeva la concentrazione, cominciava a vagare. Io rispondevo che non c'era niente di preoccupante: il pregare cristiano non è concentrazione, ma al contrario, piena assunzione della propria esistenza per quella che è. Una delle preghiere più alte, più sublimi della tradizione cristiana fu quella vissuta da Gesù nel Getsemani prima di essere condannato e crocifisso: ma quella fu una preghiera disturbata, nervosa, andava e veniva dai suoi apostoli, li trovava addormentati, una volta dice loro di riposare, ma un attimo dopo dice di alzarsi e andare. Eppure non ci sono dubbi che quella fu autentica preghiera, altissima esperienza spirituale.

Una volta mi accadde di partecipare ad un ritiro spirituale guidato da un altro prete; la prima cosa che disse fu: "Adesso cercate di dimenticare tutto, lasciate a casa le vostre preoccupazioni, non pensate a niente". Istantaneamente mi dissi, tra me e me: "Comiciamo male!".

Ci sarebbe tanto da dire sulla tradizione ebraica come memoria, memoria dell'essere stati liberati dall'Egitto, la Pasqua che è un fare memoria, Gesù che dice "Fate questo in memoria di me", la memoria dell'Olocausto.

Anche il perdonare non può essere inteso come un dimenticare le offese, ma piuttosto come un reinterpretare in maniera diversa ciò che è successo.

Tutto ciò mi ha creato un habitus mentale che dà enorme importanza al non dimenticare, al fare memoria, raccontare. Ovviamente le memorie vanno organizzate, ordinate, altrimenti ci si sperde nella loro moltitudine, ci ritroviamo nel problema che diceva prima Sariputra, il puro accatastare senza armonizzare.

Tutto questo mi fa essere quanto meno perplesso quando sento inviti a dimenticare o dimenticarsi.

Sariputra

Citazione di: Angelo Cannata il 07 Luglio 2017, 12:40:33 PMDimenticare se stessi mi sa di spersonalizzazione. Spesso ho notato che l'orante dei Salmi, che furono anche la preghiera abituale di Gesù, non si preoccupa affatto né di concentrarsi, né di dimenticarsi; al contrario, spesso presenta a Dio le proprie preoccupazioni, gli dice che ci sono persone odiose che gli rendono la vita difficile, a volte protesta anche contro Dio stesso, e poi conclude facendo capire di sentirsi rasserenato. In questo senso molti Salmi mi somigliano a delle sedute psicologiche, in cui il paziente si sfoga, si racconta e in questo raccontarsi si reinterpreta, si riconsidera, specialmente sapendo che c'è un altro che lo sta ascoltando; poi alla fine si sente rasserenato, proprio grazie a quest'esperienza di aver tirato fuori i problemi, averli raccontati, riletti, e avendo vissuto nel contempo un'esperienza di sentirsi ascoltato da qualcuno. In questo senso trovo armonia tra l'esperienza espressa nei Salmi e quella elaborata dalla ricerca scientifica in psicologia. Da prete ogni tanto qualche persona mi esprimeva la sua difficoltà a pregare, perché la sua mente a un certo punto perdeva la concentrazione, cominciava a vagare. Io rispondevo che non c'era niente di preoccupante: il pregare cristiano non è concentrazione, ma al contrario, piena assunzione della propria esistenza per quella che è. Una delle preghiere più alte, più sublimi della tradizione cristiana fu quella vissuta da Gesù nel Getsemani prima di essere condannato e crocifisso: ma quella fu una preghiera disturbata, nervosa, andava e veniva dai suoi apostoli, li trovava addormentati, una volta dice loro di riposare, ma un attimo dopo dice di alzarsi e andare. Eppure non ci sono dubbi che quella fu autentica preghiera, altissima esperienza spirituale. Una volta mi accadde di partecipare ad un ritiro spirituale guidato da un altro prete; la prima cosa che disse fu: "Adesso cercate di dimenticare tutto, lasciate a casa le vostre preoccupazioni, non pensate a niente". Istantaneamente mi dissi, tra me e me: "Comiciamo male!". Ci sarebbe tanto da dire sulla tradizione ebraica come memoria, memoria dell'essere stati liberati dall'Egitto, la Pasqua che è un fare memoria, Gesù che dice "Fate questo in memoria di me", la memoria dell'Olocausto. Anche il perdonare non può essere inteso come un dimenticare le offese, ma piuttosto come un reinterpretare in maniera diversa ciò che è successo. Tutto ciò mi ha creato un habitus mentale che dà enorme importanza al non dimenticare, al fare memoria, raccontare. Ovviamente le memorie vanno organizzate, ordinate, altrimenti ci si sperde nella loro moltitudine, ci ritroviamo nel problema che diceva prima Sariputra, il puro accatastare senza armonizzare. Tutto questo mi fa essere quanto meno perplesso quando sento inviti a dimenticare o dimenticarsi.

Il senso dell'individualità e quindi della personalità ( da coltivare, custodire, accrescere, indottrinare, ecc.) è prepotente nella spiritualità occidentale e , in senso generale, nella concezione stessa della vita.
L'uomo è di fronte al Dio, ne viene nominato, il suo nome ha importanza, Lui ti conosce, ecc. Tutto questo non ha la stessa importanza nelle forme spirituali dell'Oriente in cui prevale il senso dell'illusione, dell'ignoranza sulla nostra vera natura. La personalità stessa è ostacolo a volte per i sentieri da percorrere. Solo nella libertà dal tuo condizionamento a ritenerti separato, separazione per cui il tuo vissuto ti appartiene, è tuo, è qualcosa di sostanziale che vive ( un io personale, un sé autonomo, ecc.), si può pervenire ad un'intuizione fondata sulla reale natura dei fenomeni .
Quindi il dimenticare s'intende come dimenticare il noto, quello a cui ti aggrappi, fare spazio per il nuovo. Se la casa è ingombra , dove puoi trovare spazio per l'Ospite?
Spesso si ritiene che uno che conosce molte cose ( un erudito) sia una personalità "forte", un maestro, un guru, ecc. Mentre si dovrebbe, a mio parere, scorgere se c'è armonia tra quel che si dice e il proprio vissuto, così che tutto di un essere umano ci parli della sua spiritualità: le sua azioni, il suo porsi all'altro, la sua benevolenza, la sua bontà ( questo termine così desueto ma pieno di significato...). 
Le sue parole , a questo punto, diventano superflue. E' la sua vita stessa che insegna. Spesso è la persona impensabile, quella che ti sta accanto magari, che può essere il tuo maestro, il tuo buddha silenzioso, purché ci si sappia "dimenticare" di se stessi e, nella dimenticanza, creare lo spazio per accogliere il non-noto, il nuovo, che è anche "creazione".
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Apeiron

#6
Citazione di: Angelo Cannata il 07 Luglio 2017, 12:40:33 PMDimenticare se stessi mi sa di spersonalizzazione. Spesso ho notato che l'orante dei Salmi, che furono anche la preghiera abituale di Gesù, non si preoccupa affatto né di concentrarsi, né di dimenticarsi; al contrario, spesso presenta a Dio le proprie preoccupazioni, gli dice che ci sono persone odiose che gli rendono la vita difficile, a volte protesta anche contro Dio stesso, e poi conclude facendo capire di sentirsi rasserenato. In questo senso molti Salmi mi somigliano a delle sedute psicologiche, in cui il paziente si sfoga, si racconta e in questo raccontarsi si reinterpreta, si riconsidera, specialmente sapendo che c'è un altro che lo sta ascoltando; poi alla fine si sente rasserenato, proprio grazie a quest'esperienza di aver tirato fuori i problemi, averli raccontati, riletti, e avendo vissuto nel contempo un'esperienza di sentirsi ascoltato da qualcuno. In questo senso trovo armonia tra l'esperienza espressa nei Salmi e quella elaborata dalla ricerca scientifica in psicologia. Da prete ogni tanto qualche persona mi esprimeva la sua difficoltà a pregare, perché la sua mente a un certo punto perdeva la concentrazione, cominciava a vagare. Io rispondevo che non c'era niente di preoccupante: il pregare cristiano non è concentrazione, ma al contrario, piena assunzione della propria esistenza per quella che è. Una delle preghiere più alte, più sublimi della tradizione cristiana fu quella vissuta da Gesù nel Getsemani prima di essere condannato e crocifisso: ma quella fu una preghiera disturbata, nervosa, andava e veniva dai suoi apostoli, li trovava addormentati, una volta dice loro di riposare, ma un attimo dopo dice di alzarsi e andare. Eppure non ci sono dubbi che quella fu autentica preghiera, altissima esperienza spirituale. Una volta mi accadde di partecipare ad un ritiro spirituale guidato da un altro prete; la prima cosa che disse fu: "Adesso cercate di dimenticare tutto, lasciate a casa le vostre preoccupazioni, non pensate a niente". Istantaneamente mi dissi, tra me e me: "Comiciamo male!". Ci sarebbe tanto da dire sulla tradizione ebraica come memoria, memoria dell'essere stati liberati dall'Egitto, la Pasqua che è un fare memoria, Gesù che dice "Fate questo in memoria di me", la memoria dell'Olocausto. Anche il perdonare non può essere inteso come un dimenticare le offese, ma piuttosto come un reinterpretare in maniera diversa ciò che è successo. Tutto ciò mi ha creato un habitus mentale che dà enorme importanza al non dimenticare, al fare memoria, raccontare. Ovviamente le memorie vanno organizzate, ordinate, altrimenti ci si sperde nella loro moltitudine, ci ritroviamo nel problema che diceva prima Sariputra, il puro accatastare senza armonizzare. Tutto questo mi fa essere quanto meno perplesso quando sento inviti a dimenticare o dimenticarsi.

Ecco uno dei motivi per cui non ho ancora abbandonato l'idea che possediamo un'anima (in un certo senso eterna o comunque in relazione con qualcosa di eterno...) è questa: come si può dare valore alla persona X se la sua identità è illusoria? Per il resto il discorso calza alla perfezione.

Dimenticarsi di se stessi non signfica dimenticarsi delle offese, delle responsabilità ecc. Non a caso le tradizioni che hanno questo tipo di obbiettivo spesso invitano alla meditazione, che aiuta invece a stare saldamente ancorati alla realtà, ai suoi problemi ecc (non a caso il buddismo è un'attività molto introspettiva e di studio della mente...).

Quello che intendevo era del tipo: quando ho imparato a camminare (fisicamente) ho fatto fatica e ho provato dolore e fatica per imparare. Ma oggi il tutto mi viene naturale, in automatico. Allo stesso modo il cammino spirituale forse all'inizio è duro, faticoso, doloroso ecc. Quando veramente lo impariamo ci verrà naturale "camminare" anche in questo senso, saremo liberi dalla paura, liberi dall'odio e così via. Quando realmente saremo esperti saremo "liberi" e sarà come se ci "dimentichiamo" di camminare. Il camminare diventa una "non-azione" (wu-wei...) https://it.wikipedia.org/wiki/Wu_wei...

Comunque ad esempio facendo un esempio biblico il buon samaritano ha dovuto "dimenticarsi" dei propri impegni e delle proprie paure per soccorrere l'altro (un completo sconosciuto). Se penso a situazioni di questo tipo dico: quanto vorrei dimenticarmi di "me" a volte :)

Comunque a mio giudizio un camminare "spirituale" dovrebbe almeno avere obbiettivi provvisori se non definitivi - per evitare la spiacevole sensazione di sentirsi "persi", di camminare alla cieca o di girare in tondo senza accorgersene. Ritengo personalmente che ogni uomo abbia il "bisogno" di verità, di libertà, di pace ecc. Per questo motivo ad esempio conosce ("cammina" per trovare la (le) verità)... Per questo discutiamo su questo forum ecc 

Abbiamo due tendenze diverse in oriente e in occidente: da una parte si tende a vedere l'identità come "illusoria", dall'altra come "centrale". Eppure l'etica è tremendamente simile e ha senso in entrambe le visioni. Mi chiedo (molto probabilmente è fuori tema, quindi si può lasciare lì la domanda e pensarci più avanti): è possibile trovare un punto di incontro tra queste tendenze? :)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Riguardo alla questione del dimenticarsi mi trovo d'accordo se lo s'intende come un dimenticare temporaneo. In fondo è ciò che la nostra mente fa già per conto proprio da sempre: essa è un continuo riorganizzare le cose da tener presenti alla coscienza, in base alle situazioni in cui ci troviamo; in questo senso anche il sognare nella notte non è altro che un'ulteriore riorganizzazione della coscienza: nel sonno non c'è più la realtà ad esigere le sue solite attenzioni e vigilanze, per cui la mente può finalmente mettere da parte (= dimenticare) temporaneamente ogni controllo, in modo da lasciare finalmente spazio all'emotività più profonda. Quindi in questo senso sono d'accordo con una coltivazione della dimenticanza di sé, per far spazio ad esperienze spirituali diverse, purché essa non diventi una specie di dogma perenne, un imperativo fodamentale imposto a chiunque desideri salire più in alto nella vita dello spirito.

In questo senso, piuttosto che usare il termine "dimenticare", che fa pensare a qualcosa di definitivo, preferirei parlare di "selezione" di cosa tenere presente alla coscienza, una selezione dinamica, che cambia in continuazione nel susseguirsi sia degli attimi che dei periodi più lunghi del cammino della propria vita, che possono durare anche anni.

Il criterio della selezione mi permette di evidenziare che anche la parabola del buon samaritano può essere espressa in maniere differenti; cioè, si potrebbe anche dire che il buon samaritano, nel prestare attenzione al bisognoso, si è ricordato, ha fatto memoria, di un aspetto importante del proprio essere, cioè la solidarietà con chi soffre. In questo senso si può osservare che si dimentica temporaneamente qualcosa non per il puro dimenticare, per fare spazio ad altre cose a cui dedicare la coscienza: da una parte si dimentica, dall'altra si ricorda.

Riguardo all'esistenza dell'anima, il mio problema sta nel fatto che nel momento in cui ne parliamo la stiamo già inquadrando in qualche nostro schema mentale e quindi, piuttosto che allargare i nostri orizzonti, per il fato che vi includiamo l'anima, la mia sensazione è che li stiamo restringendo, impedendo alla nostra mente di pensarla in termini quanto più possibile indipendenti dalle categorie umane.

Sono d'accordissimo sugli obiettivi provvisori: per me il termine stesso "provvisorio" è un termine fondamentale e illuminante per l'esistenza umana; al contrario di quanto può sembrare, per me il provvisorio è ciò che può guidare ottimamente l'esistenza umana, mentre le cose assolute e definitive mi risultano infondate e traballanti, perché criticabili da qualunque lato le si consideri.

Riguardo alla nostra identità come illusoria o come centrale, secondo me sono due aspetti complementari, corrispondenti a diversi punti di vista: mettersi da un punto di vista cosmico ci conduce a considerarci nient'altro che frammenti di tale cosmo, mentre da un punto di vista di relazionalità umana ognuno di noi è un universo altrettanto, o anche più, infinito dell'universo fisico.

Apeiron

Più o meno Angelo la vedo come te.

Sull'esistenza dell'anima intendo dire che se ad esempio io "amo X" non posso al contempo pensare che "X" è un concetto illusorio dato ad una "cosa composta". Secondo me questo è un problema abbastanza grosso del buddismo (ma non solo, di tutte le dottrine che negano un'anima personale, ad esempio Advaita Vedanta - esiste solo l'Io divino - e Taoismo). Viceversa chi ritiene che esiste un'anima "totalmente separata" alla Cartesio ovviamente non spiega niente dell'evidente dipendenza empirica tra "anima" (o supposta tale) e corpo. L'esistenza dell'anima (intesa come un qualcosa "di valore") è una sorta di "postulato etico" che ci costringe ad agire verso una persona in modo da rispettare la sua dignità. A mio giudizio è proprio la ricerca del Valore dell'esistenza (umana e non, ma soprattutto umana e quindi delle "anime umane"...) a slanciare l'uomo verso l'Eternità (e quindi in ultima analisi ad una qualche Realtà Suprema). Il buddismo a mio giudizio, lo vedo come un tentativo coraggioso e rispettabilissimo di trovare il Sommum Bonum senza considerare una sorta di "anima", però purtroppo non mi convince (e ahimé un po' mi scoccia visto che se non fosse per questo mio desiderio "eternalista" sarei probabilmente un seguace del buddismo... pardon Sari  ;D ). Buddismo ed Eternità a parte noi possiamo però solo porci obbiettivi provvisori proprio perchè l'Eternità per noi è "fuori dal nostro campo d'azione" a causa della nostra finitezza e fallibilità :)

Proprio per questo sono anche d'accordo con te sul fatto che una dimenticanza completa sia impossibile, ma una temporanea sia invece "necessaria" per condurre una vita eticamente appagabile. E hai anche ragione sulla parabola.

Sulla centralità/illusione dell'identità ho come la sensazione che in qualche modo siano entrambe vere. Ma non saprei dire in che senso :( penso che ci perderò la testa per un po' di tempo (con poche speranze di successo)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Ho la vaga impressione che forse non fai distinzione tra le prospettive e quindi, piuttosto che confrontarle in un dialogo tra di esse ben organizzato, le mescoli, oppure ne usi ora una ora un'altra, senza renderti conto di questa cosa che fai. Ovviamente anche la mia è solo una prospettiva.

Prendiamo per esempio la prima cosa che hai scritto:

se ad esempio io "amo X" non posso al contempo pensare che "X" è un concetto illusorio dato ad una "cosa composta"

Mi sembra che questa frase evidenzi bene ciò che ho detto: essa contiene il miscuglio di due prospettive non organizzate. Nella seconda parte della frase, in cui parli di concetto illusorio e di cosa composta, adotti una prospettiva analitica, cioè una visione della realtà che scende nei minimi particolari fino ad interpretare ogni cosa come il risultato di microelementi; insomma, è come un'analisi chimica della realtà, in cui si spiega che tante cose che vediamo non sono altro che il risultato di atomi e molecole che interagiscono. A questo fa pensare il parlare di "cosa composta". Anche quando parli di concetto illusorio, mi sembra che siamo ancora in una prospettiva di analisi chimica, che poi non è altro che la critica filosofica: la critica filosofica sminuzza ogni componente del discorso e delle idee, fino a metterne a nudo la profonda criticabilità.

Invece dire "amo X" non è un discorso analitico, chimico, di indagine fine: esso è un discorso sintetico perché il verbo amare è un concentrato di significati ed esprime piuttosto l'istinto umano, i sentimenti; quando parliamo di umano parliamo di sintesi, perché stiamo parlando di come le cose vengono considerate dal nostro DNA, cioè dalle nostre emozioni, il nostro modo di essere, considerato globalmente.

Le due prospettive messe insieme in un'unica frase ti portano ad individuare una difficoltà, un'inconciliabilità. A questo punto mi pare che il motivo sia chiaro: l'inconciliabilità è dovuta alla giustapposizione disorganizzata dei due punti di vista che ho descritto.

Lo stesso vale per la questione centralità/illusione dell'identità: dire illusione significa fare critica filosofica, ridurre l'identità alle sue componenti chimico-fisiche. Dire centralità significa invece considerare l'identità dal punto di vista sintetico della sensazione globale che ne proviamo come esseri umani.

A questo punto si potrebbero fare lunghi discorsi su come gestire o far dialogare queste due prospettive che ho descritto, ma ciò che conta è anzitutto accorgerci di queste cose che stiamo facendo con la mente quando ci mettiamo a riflettere o a parlare.

Apeiron

Citazione di: Angelo Cannata il 08 Luglio 2017, 10:14:39 AMHo la vaga impressione che forse non fai distinzione tra le prospettive e quindi, piuttosto che confrontarle in un dialogo tra di esse ben organizzato, le mescoli, oppure ne usi ora una ora un'altra, senza renderti conto di questa cosa che fai. Ovviamente anche la mia è solo una prospettiva. Prendiamo per esempio la prima cosa che hai scritto: se ad esempio io "amo X" non posso al contempo pensare che "X" è un concetto illusorio dato ad una "cosa composta" Mi sembra che questa frase evidenzi bene ciò che ho detto: essa contiene il miscuglio di due prospettive non organizzate. Nella seconda parte della frase, in cui parli di concetto illusorio e di cosa composta, adotti una prospettiva analitica, cioè una visione della realtà che scende nei minimi particolari fino ad interpretare ogni cosa come il risultato di microelementi; insomma, è come un'analisi chimica della realtà, in cui si spiega che tante cose che vediamo non sono altro che il risultato di atomi e molecole che interagiscono. A questo fa pensare il parlare di "cosa composta". Anche quando parli di concetto illusorio, mi sembra che siamo ancora in una prospettiva di analisi chimica, che poi non è altro che la critica filosofica: la critica filosofica sminuzza ogni componente del discorso e delle idee, fino a metterne a nudo la profonda criticabilità. Invece dire "amo X" non è un discorso analitico, chimico, di indagine fine: esso è un discorso sintetico perché il verbo amare è un concentrato di significati ed esprime piuttosto l'istinto umano, i sentimenti; quando parliamo di umano parliamo di sintesi, perché stiamo parlando di come le cose vengono considerate dal nostro DNA, cioè dalle nostre emozioni, il nostro modo di essere, considerato globalmente. Le due prospettive messe insieme in un'unica frase ti portano ad individuare una difficoltà, un'inconciliabilità. A questo punto mi pare che il motivo sia chiaro: l'inconciliabilità è dovuta alla giustapposizione disorganizzata dei due punti di vista che ho descritto. Lo stesso vale per la questione centralità/illusione dell'identità: dire illusione significa fare critica filosofica, ridurre l'identità alle sue componenti chimico-fisiche. Dire centralità significa invece considerare l'identità dal punto di vista sintetico della sensazione globale che ne proviamo come esseri umani. A questo punto si potrebbero fare lunghi discorsi su come gestire o far dialogare queste due prospettive che ho descritto, ma ciò che conta è anzitutto accorgerci di queste cose che stiamo facendo con la mente quando ci mettiamo a riflettere o a parlare.

Non ti posso dar torto su quanto dici, però volevo semplicemente far notare il paradosso in questione. Il punto è che quello che sto cercando di ottenere è una "teoria" (non una verità, ma un modello...se vuoi provvisiorio) che riesca a conciliare le due visioni. Se ritengo che "Giorgio" (nome di una persona a caso) sia un semplice "ente convenzionale" nella mia testa "Giorgio" è una semplice illusione. E il punto è che nella filosofia orientale (meglio dire: quelle filosofie orientali che ho citato) questo discorso non è pura speculazione accademica come da noi ma è la "corretta" visione delle cose. D'altro canto nelle stesse filosofie i "realizzati" sono descritti come persone compassionevoli (compassione non intesa come "pietà"), rispettose ecc. Ma ad esempio il "rispetto" per quello che intendo io ritiene che "Giorgio" sia "reale", anzi "ben più reale" delle "parti" di cui è composto. Proprio grazie a questo io posso "rispettare" "Giorgio". Le filosofie orientali che ho citato invece suggeriscono che non solo le cose materiali siano "enti illusori" ma le persone stesse!

Quindi abbiamo da un lato un'analisi ontologica della realtà che con le sue ragioni vede "Giorgio" come una "non-entità" mentre dall'altro abbiamo l'etica che ha senso solo ponendo "Giorgio" come una "entità" - anzi dal punto di vista etico le "persone" sono l'entità fondamentale. A mio giudizio la cosa non si risolve solamente dicendo: "sono due discorsi diversi". La cosa si risolve semmai capendo come queste due "verità" possano conciliarsi l'una con l'altra (in occidente se vuoi è analogo al problema etica-scienza: l'etica non può essere derivata dalla scienza...). Una possibile soluzione potrebbe essere la seguente: tutto il discorso del "non-sé" (o simili) in realtà è una sorta di "esercizio della mente" di modo da liberarla dall'avversione, dall'odio, dall'egosimo ecc. In questo modo hai che la "retta visione" di filosofie come il buddismo in realtà si riferisce non alla realtà ma al rapporto che il praticante ha con la realtà stessa. In questo modo puoi ancora rispettare/amare "Giorgio" in quanto "Giorgio" (e non in quanto "essere convenzionale"). In questo caso ti liberi anche della metafisica stessa e eviti di "pensare di aver conosciuto la realtà". D'altronde il Dhammapada dice "evitare il male, fare il bene, purificare la mente: questo è l'insegnamento dei Buddha". Ergo potrebbe essere che questo tipo di filosofie non indaghi l'esistenza o meno del sé ma semplicemente cercano il "miglior modo di vivere". In sostanza sarebbe pragmatismo puro che rinuncia a fare affermazioni sulla realtà. In ogni caso secondo me la contraddizione è evidente se entrambe le "visioni" vengono prese come "affermazioni sulla realtà". In tal caso sarebbero come dici tu "due prospettive" che non creano conflitto perchè non pretendono di fare una "teoria sulla realtà".

Si può poi pensare che la realtà sia suddivisa in livelli... ci sto pensando però non riesco a trovare una soluzione convincente in questo senso.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

A mio parere è errato inseguire l'idea di depositare o trovare depositata l'etica da qualche parte, cioè in qualche visione del mondo o principio filosofico, o spirituale, o religioso. Questo criterio per me ha il difetto di non prendere in considerazione la storicità nostra e dell'universo. Se si considerano le cose e le persone da un punto di vista storico, mi sembra necessario concludere sull'impossibilità di individuare sedi stabili dell'etica, perché la storia è l'opposto della stabilità e dell'assolutezza: la storia è fatta di provvisorietà che si susseguono da quando il mondo esiste. L'idea stessa di storia è un'idea provvisoria che domani potrei abbandonare per diversi motivi.

Provvisorietà e storia sono per me preziose perché conducono ad un criterio importantissimo, che è quello del coltivare.

Se tiriamo le conseguenze da ciò che ho detto, viene a risultare che non esiste un'etica fondamentale, ma sono sempre esistite tante, molteplici etiche, che continuano a susseguirsi nella storia in base agli sviluppi dell'universo, dell'evolversi del nostro essere umani e del nostro DNA. Credo quindi che oggi un'etica vada ricavata provando a fare una sintesi delle sensibilità che circolano nel mondo, tra cui anche le sensibilità che io adesso riscontro in me stesso. Sulla base di questo lavoro di sintesi potrò scegliere quali sensibilità coltivare.

In questo senso allora l'etica non è un teorema ricavabile da qualcosa, ma il frutto sempre in divenire di un continuo lavoro di sintesi e di coltivazione di sensibilità man mano individuate.

Questo modo di vedere le cose mi permette di coltivare anche un dialogo con chiunque: tu buddhista mi dici che per amare bisogna considerarsi parti impersonali di un intero universo (ora non so se mi sto esprimendo bene a causa della mia scarsa conoscenza del Buddhismo: chiedo scusa a chi ne è più competente)? Ottimo, mi piace esplorare questa tua visione, perché io voglio arricchire le mie sensibilità e il mio modo di coltivarle. Tu cristiano mi dici che invece ha grande importanza la persona? Ottimo, voglio conoscere anche le tue sensibilità e vedere se avranno da suggerire qualcosa riguardo a ciò che io sto scegliendo di coltivare. Tu nichilista, o quello che sia, mi dici che non bisogna amare, che siamo tutti homo homini lupus? Ottimo, voglio far tesoro anche del tuo pensiero, perché sulle mie sensibilità voglio esercitare anche critica.

Tutto questo non mi pare che sia irenismo, un accatastare insieme tutte le visioni, o il fare come quell'avvocato della barzelletta che dava ragione a tutti. Mi sembra piuttosto una visione in grado di indicare una strada ben precisa (lavoro di sintesi e di coltivazioni) e capace di istituire dialoghi fruttuosi. Per me è questo lavoro il senso di ciò che ho detto nel post iniziale, riguardo al fatto che il punto di arrivo, la mèta, è il camminare su strada.

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 08 Luglio 2017, 14:52:16 PM
Citazione di: Angelo Cannata il 08 Luglio 2017, 10:14:39 AMHo la vaga impressione che forse non fai distinzione tra le prospettive e quindi, piuttosto che confrontarle in un dialogo tra di esse ben organizzato, le mescoli, oppure ne usi ora una ora un'altra, senza renderti conto di questa cosa che fai. Ovviamente anche la mia è solo una prospettiva. Prendiamo per esempio la prima cosa che hai scritto: se ad esempio io "amo X" non posso al contempo pensare che "X" è un concetto illusorio dato ad una "cosa composta" Mi sembra che questa frase evidenzi bene ciò che ho detto: essa contiene il miscuglio di due prospettive non organizzate. Nella seconda parte della frase, in cui parli di concetto illusorio e di cosa composta, adotti una prospettiva analitica, cioè una visione della realtà che scende nei minimi particolari fino ad interpretare ogni cosa come il risultato di microelementi; insomma, è come un'analisi chimica della realtà, in cui si spiega che tante cose che vediamo non sono altro che il risultato di atomi e molecole che interagiscono. A questo fa pensare il parlare di "cosa composta". Anche quando parli di concetto illusorio, mi sembra che siamo ancora in una prospettiva di analisi chimica, che poi non è altro che la critica filosofica: la critica filosofica sminuzza ogni componente del discorso e delle idee, fino a metterne a nudo la profonda criticabilità. Invece dire "amo X" non è un discorso analitico, chimico, di indagine fine: esso è un discorso sintetico perché il verbo amare è un concentrato di significati ed esprime piuttosto l'istinto umano, i sentimenti; quando parliamo di umano parliamo di sintesi, perché stiamo parlando di come le cose vengono considerate dal nostro DNA, cioè dalle nostre emozioni, il nostro modo di essere, considerato globalmente. Le due prospettive messe insieme in un'unica frase ti portano ad individuare una difficoltà, un'inconciliabilità. A questo punto mi pare che il motivo sia chiaro: l'inconciliabilità è dovuta alla giustapposizione disorganizzata dei due punti di vista che ho descritto. Lo stesso vale per la questione centralità/illusione dell'identità: dire illusione significa fare critica filosofica, ridurre l'identità alle sue componenti chimico-fisiche. Dire centralità significa invece considerare l'identità dal punto di vista sintetico della sensazione globale che ne proviamo come esseri umani. A questo punto si potrebbero fare lunghi discorsi su come gestire o far dialogare queste due prospettive che ho descritto, ma ciò che conta è anzitutto accorgerci di queste cose che stiamo facendo con la mente quando ci mettiamo a riflettere o a parlare.
Non ti posso dar torto su quanto dici, però volevo semplicemente far notare il paradosso in questione. Il punto è che quello che sto cercando di ottenere è una "teoria" (non una verità, ma un modello...se vuoi provvisiorio) che riesca a conciliare le due visioni. Se ritengo che "Giorgio" (nome di una persona a caso) sia un semplice "ente convenzionale" nella mia testa "Giorgio" è una semplice illusione. E il punto è che nella filosofia orientale (meglio dire: quelle filosofie orientali che ho citato) questo discorso non è pura speculazione accademica come da noi ma è la "corretta" visione delle cose. D'altro canto nelle stesse filosofie i "realizzati" sono descritti come persone compassionevoli (compassione non intesa come "pietà"), rispettose ecc. Ma ad esempio il "rispetto" per quello che intendo io ritiene che "Giorgio" sia "reale", anzi "ben più reale" delle "parti" di cui è composto. Proprio grazie a questo io posso "rispettare" "Giorgio". Le filosofie orientali che ho citato invece suggeriscono che non solo le cose materiali siano "enti illusori" ma le persone stesse! Quindi abbiamo da un lato un'analisi ontologica della realtà che con le sue ragioni vede "Giorgio" come una "non-entità" mentre dall'altro abbiamo l'etica che ha senso solo ponendo "Giorgio" come una "entità" - anzi dal punto di vista etico le "persone" sono l'entità fondamentale. A mio giudizio la cosa non si risolve solamente dicendo: "sono due discorsi diversi". La cosa si risolve semmai capendo come queste due "verità" possano conciliarsi l'una con l'altra (in occidente se vuoi è analogo al problema etica-scienza: l'etica non può essere derivata dalla scienza...). Una possibile soluzione potrebbe essere la seguente: tutto il discorso del "non-sé" (o simili) in realtà è una sorta di "esercizio della mente" di modo da liberarla dall'avversione, dall'odio, dall'egosimo ecc. In questo modo hai che la "retta visione" di filosofie come il buddismo in realtà si riferisce non alla realtà ma al rapporto che il praticante ha con la realtà stessa. In questo modo puoi ancora rispettare/amare "Giorgio" in quanto "Giorgio" (e non in quanto "essere convenzionale"). In questo caso ti liberi anche della metafisica stessa e eviti di "pensare di aver conosciuto la realtà". D'altronde il Dhammapada dice "evitare il male, fare il bene, purificare la mente: questo è l'insegnamento dei Buddha". Ergo potrebbe essere che questo tipo di filosofie non indaghi l'esistenza o meno del sé ma semplicemente cercano il "miglior modo di vivere". In sostanza sarebbe pragmatismo puro che rinuncia a fare affermazioni sulla realtà. In ogni caso secondo me la contraddizione è evidente se entrambe le "visioni" vengono prese come "affermazioni sulla realtà". In tal caso sarebbero come dici tu "due prospettive" che non creano conflitto perchè non pretendono di fare una "teoria sulla realtà". Si può poi pensare che la realtà sia suddivisa in livelli... ci sto pensando però non riesco a trovare una soluzione convincente in questo senso.

Apeiron, solo se comprendo l'unità indissolubile dell'impermanenza con quella del non-sé posso superare quelle che all'intelletto paiono difficoltà insormontabili. Quando Buddha parla di non-sé lo lega sempre con il divenire, con il mutare incessante , il trasformarsi di ogni cosa e persona. "Giorgio" certamente esiste ma , essendo un aggregato di elementi in dipendenza uno dall'altro, non se ne può stabilire una realtà in senso ultimo ( appunto come qualcosa di sostanziale, che ha una vita autonoma dai propri aggregati): "Giorgio" è una designazione mentale, che esiste in dipendenza da ciò che lo costituisce, da quel flusso di percezioni, sensazioni, emozioni, sentimenti e pensieri passeggeri. Dov'è il Giorgio neonato? Il Giorgio adolescente? Il Giorgio adulto? C'è un Giorgio immutabile che semplicemente osserva il mutare di tutto ciò che è esterno e di tutto ciò che ritiene come interno? Non è dato trovare nulla di simile. Osserviamo quanto velocemente sorgono e muoiono i nostri stessi pensieri ( spesso , quasi sempre, si fa fatica a terminarne uno che già un altro lo sopprime) e così le emozioni, rabbia e tenerezza si alternano con gioia e depressione: tutto in movimento, tutto in perenne mutamento. Allora tu dici: se "Giorgio" è una semplice designazione mentale per un flusso in perenne mutamento, come posso rispettarlo? Avere un atteggiamento etico nei riguardi di questo "flusso"? Se è così... non vale niente!"...
Adesso però proviamo a pensare "Giorgio" come un vaso vuoto. C'è sempre questo flusso che chiamiamo convenzionalmente "Giorgio", che muta incessantemente, ma...al suo centro ( al centro del vaso)...non c'è niente (non c'è un ego o io autonomo, chiamalo come vuoi...), che succede? Quando non mi vedo più come un' "entità" che succede? Disperazione?...No, Liberazione! 
Quando, nel centro del flusso, lasciato libero dal "Giorgio"...questo spazio vuoto che è colmo del nostro più profondo dolore (Anicca-dukkha-anatta ricordi?)...non più aggrappato all'idea che sono "Giorgio"...allora, forse, viene ciò che nobilita questo misero flusso, ciò che è veramente degno di rispetto...non Sari,  Apeiron o Angelo hanno valore  ma questo ha valore. Questo che non siamo noi ma non può vivere che in noi ( i confini del samsara , sono i confini del Nirvana). Perché devo rispettare "Giorgio"? Perché quel povero flusso che chiamiamo, per intenderci tra noi, "Giorgio" , anche se non lo sa, contiene ciò che non si può contenere nel pensiero ( e nemmeno in queste mie stupide parole)... :) :-[
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Angelo Cannata

Leggendo un articoletto sul Buddhismo (Garzantina sulle religioni) ho trovato quest'affermazione interessante: 

Nello Zen non c'è meta o meglio l'esercizio spirituale, cioè la via, coincide con la meta.

Proprio ciò che dicevo nel post inziale di questa discussione!

InVerno

Riflessione interessante ma.. In tutto questo la meta escatologica che fine fa?
Non ci si salva da un inferno, sposandone un altro. Ipazia

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