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L'illusione dell'io

Aperto da daniele75, 23 Aprile 2020, 06:49:30 AM

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daniele75

Ma può esistere un io originale? Privo di inquinamento culturale? Un io alieno che manifesti la sua concreta esistenza?

Ipazia

Citazione di: Phil il 28 Aprile 2020, 17:23:47 PM
Al minuto 43:03 Sini afferma:
«La filosofia non è più sufficiente per guardare il discorso, perché anch'essa è un discorso. Che ha relazioni molto forti con il tempo in cui è nata, che ha relazioni molto forti con il tipo di scrittura che ne è scaturito o da cui è scaturita. Perché... Hegel l'aveva capito benissimo: se tu scrivi con gli ideogrammi, non puoi fare filosofia; e aveva ragione. Ma questo vuol dire che la filosofia non dice la verità dell'uomo... ne dice una certa, una figura transeunte, transitante... alla fine: chi parla qui?».
Non me ne vogliano né Sini né la buon'anima di Hegel, ma sospetto non solo che si possa far filosofia a prescindere dalla scrittura, quindi oralmente (senza nemmeno porsi il problema di poterla poi segnificare in ideogrammi o lettere o geroglifici), ma inoltre che, in caso di scrittura differente da quella alfabetica, non si tratti di non poter fare filosofia (senza indugiare sulla possibile rigidità escludente insita nel termine), ma semmai di poter fare una filosofia strutturalmente differente dalla "nostra", con tutti gli annessi problemi di traduzione linguistico-concettuale.
Sulla domanda finale di Sini (che qui si traveste quasi da koan) «chi parla qui?», credo di essermi già sbilanciato adeguatamente in questo topic: essendo posta in pieno domandare logico-filosofico, essendo un "io" a porre la domanda, la risposta "da manuale" non può che essere (l')«io»; almeno finché decidiamo di "stare al gioco" (ludere) del nostro linguaggio prospettico e della nostra cultura (anche per risparmiarci il rischio di essere "inquadrati" come "cerchi" «non sani di mente», salvando così l'apparenza, per il quieto vivere e il quieto discutere).

Certo che è un koan, oserei dire fondativo del discorso filosofico; e la provocazione iniziale ha a che fare con il medesimo koan che riguarda anche la scienza che di quella risposta ha bisogno per credere nel lavoro che fa. Infatti poi Sini dà la sua risposta: l'io plurale che è la stratificazione ... etc. Finale in bellezza pure con lo spettacolo e i fuochi d'artificio. Perchè d'artificio si tratta, ma spettacolare.

Lo stesso spettacolo di uno scienziato filosofo rinascimentale cristiano e neoplatonico che ci raccontava l'universo. L'universo "fisico". La filosofia da sempre ci racconta l'universo antropologico. Quel racconto è il suo senso. E forse anche il nostro. The show go on.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

davintro

Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 09:40:47 AM
Secondo me si deve distinguere (mi rivolgo soprattutto a Davintro, ma mi sembra che anche altri lo seguano in questa che a mio parere é un' errata confusione) fra "intersoggettività" (termine che preferisco ad "oggettività" per ragioni che se spiegassi qui appesantirebbero troppo il discorso) e "realtà in sé" e fra "soggettività" e "realtà apparente o fenomenica" (e inoltre fra "meramente pensato" ed "effettivamente reale").

La materia (la res extensa) può essere postulata (non dimostrata) essere intersoggettiva, cioé in linea di principio interverificabile fra qualsiasi soggetto di esperienza cosciente: chiunque (salvo patologie egregiamente spiegabili), recandosi a Courtmayeur e guardando circa a nordovest in una giornata di cielo sereno, può vedere il monte Bianco.

Il pensiero (la res cogitans) no: i pensieri, sentimenti, "stati d' animo", ecc. di ciascun soggetto di esperienza cosciente possono essere verificati empiricamente solo ed esclusivamente da lui stesso, e gli altri possono credere esistano solo per fede nelle sue parole: "quando c' ho il mal di stomaco ce l' ho io, mica te, o no? Ce l' ho io, mica te, o no?" (Vasco Rossi).

Ma entrambe le cose, i fenomeni materiali e i fenomeni mentali, la res extensa e la res cogitans, sono reali solo e unicamente in quanto tali: fenomeni ovvero insiemi e successioni di sensazioni coscienti, realmente accadenti solo e unicamente nell' ambito di un' esperienza fenomenica cosciente "e basta"; quando non accadono non ci sono (ancora o più)


Un' ulteriore realtà in sé, persistentemente reale anche in assenza di fenomeni o sensazioni coscienti é bensì postulabile, credibile esserci (e ci sono "buoni motivi" per essere propensi a credere che ci sia) ma non é dimostrabile: l' ipotesi che non ci sia non é autocontraddittoria o insensata; né tantomeno, per definizione, é empiricamente verificabile. Ergo: in teoria potrebbe benissimo darsi sia reale.


Ma sia gli oggetti delle sensazioni "esteriori" o materiali, sia l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali, se realmente esistenti, sono (intesi essere come) cose in sé, per l' appunto reali anche allorché (anche se e quando) non sensibilmente, fenomenicamente percepite.

E l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali é quel che solitamente si definisce con il nominativo del pronome personale della prima persona singolare (io) o con l' accusativo di quello della terza (sé) a seconda dei casi.
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).



la necessità di un passaggio logico verso il riconoscimento di una realtà extrafenomenica sta proprio nella definizione di "fenomeno", cioè "ciò che si manifesta". "Ciò che si manifesta implica l'esistenza di un soggetto dotato di coscienza che riceve la manifestazione (come si può parlare di manifestazione senza nessuno a cui la manifestazione è data?), avente una propria realtà sostanziale. Nessun fenomeno sussiste di per sé, come sostanza reale, ma solo come accadimento,evento psichico il cui essere è tale come interno alla coscienza, non trascendente questa. Per negare la necessità logica della realtà extrafenomenica, dovremmo ammettere come sensata l'ipotesi che il complesso dei fenomeni abbia in se stesso la sua ragion d'essere, la sua causa come immanente ad esso, senza bisogno di postulare una realtà ulteriore ad essi che sia la causa che li produce. Ma se accettassimo questo autofondarsi dei fenomeni, dovremmo escludere in assoluto proprio la possibilità dell'illusione, dell'inganno, di fenomeni che non corrispondono al reale, come nel caso dell'allucinazione o del daltonismo. Essendo i fenomeni l'unica realtà possibile, il loro coincidere con la verità sarebbe una proprietà essenziale ad essi, senza possibilità di deviazioni, dato che un giudizio vero è definito come quello che predica un contenuto fenomenico corrispondente alla realtà oggettiva. Ogni fenomeno, come tale esprimerebbe sempre il vero. Questa ipotesi è assurda, dato che resta sempre la possibilità di immagini sulla realtà tra loro contrastanti, che non possono dunque tutte essere vere, ma che dovrebbero porsi a diversi livelli di distanza rispetto a un riferimento extrafenomenico, in relazione a cui le idee (fenomeni) sarebbero più o meno rispecchianti la verità. Inoltre, lo stesso Giopap (come chiunque altra/o) ogniqualvolta esprime una sua opinione, come in questa discussione, in opposizione ad altre considerate erronee, sta implicitamente e necessariamente affermando questa realtà extrafenomenica, come criterio regolativo in relazione a cui la sua opinione sarebbe vera, cioè aderente ad esso, mentre le opposte, essendo nel torto, divergerebbero. Negando questa trascendenza del reale rispetto ai fenomeni, anche solo a livello generico-formale, questi rimarrebbero l'unica realtà possibile e avrebbero in se stessi, nelle coscienze di cui sono il contenuto, in quanti tali il criterio di verità, rendendo impossibile che alcuni possano contravvenire al criterio, scadendo nel torto, o anche ad un livello di verità inferiore o meno "centrata" rispetto ad altri. La possibilità dell'illusione, dell'errore è ciò che dimostra che il criterio di verità dei fenomeni non è ad essi immanenti, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza, ma sempre in relazione a un principio non da essi posto

daniele75

E se fossimo tutti connessi tramite filamenti di energia invisibile all'occhio umano? E se l'io esiste come consapevolezza, il suo scopo è quello di esaminare le istruzioni culturali per poter competere e sopravvivere? L'io in che percentuale gestisce la psiche in maniera completamente libero da pregiudizi?

giopap

Citazione di: Phil il 28 Aprile 2020, 17:23:47 PM
Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 09:40:47 AM
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).
Più che «per fede» (senza offesa per la sezione in cui siamo), essendo coinvolta comunque anche una certa autopercezione (con tutto il paradosso interpretativo che si porta dietro) direi per cultura e, più pragmaticamente, anche per linguaggio (che è sempre in rapporto dialettico con la cultura). Se si ragiona usando il linguaggio o le categorie del linguaggio (concordo con l'idea di fondo della tesi Sapir-Whorf, ma senza radicalizzarla), non può essere totalmente irrilevante se, ad esempio, l'arabo ha due forme per il «tu», una maschile, una femminile, per il «voi» e il «loro» ben tre (una maschile, una femminile, una generica, o meglio, di entrambi i generi), nel senso che, ad esempio, il dibattito sulle teorie gender tenderà a scontrersi con la tradizione (cultural-)linguistica araba anche linguisticamente più di quanto avvenga per i parlanti italiani (che discrimina solo «lui/lei», considerando «essi/esse» un po' desueto). Chiaramente, fra tante criticità del dibattito sulle teorie di gender, la questione strettamente linguistica non è certo la più condizionante o cruciale (non si modificano imprinting culturali retroattivamente semplicemente mettendo un asterisco al posto di un suffisso di genere). Parimenti, il fatto che Giapponesi e Vietnamiti abbiano una gestione "plurale" della prima persona singolare piuttosto differente dalla nostra (link), non può che rappresentare una interessante risorsa di senso già preinstallata nella lingua, che probabilmente paga dazio in una traducibilità che sacrifica, come quasi sempre, qualcosa del senso originario/originale in nome della comprensibilità.


Pur non negando di certo l' importanza della cultura e anche della lingua e perfino in particolare qualche influenza più o meno "indiretta" sul trattamento della questione dell' "io" o del "sè" ( influenze in genere difficilmente definibili, oltre che non generalizzabili ma invece variabili da soggetto pensante -filosofo de facto- a soggetto pensante), ritengo che la grammatica delle diverse lingue non sia determinante nel raggiungere le varie soluzioni possibili.
Anche perché ritengo che le diverse lingue, con un po' di buona volontà siano intertraducibili soddisfacentemente, cioé con buona possibilità di comprensione reciproca (che non può mai essere integrale e assoluta nemmeno fra parlanti la medesima lingua).


(Naturalmente il fatto che parli di "soggetti pensanti", che necessariamente sono pure "senzienti", e dunque che creda alla loro esistenza reale, non é minimamente in contrasto con la da me affermata indimostrabilità di tale esistenza reale; ma comunque credibilità per fede, sostanzialmente indipendente a mio parere dalle diverse influenze che culture e lingue possono esercitare in proposito).

giopap

#65
Citazione di: davintro il 28 Aprile 2020, 17:56:30 PM

la necessità di un passaggio logico verso il riconoscimento di una realtà extrafenomenica sta proprio nella definizione di "fenomeno", cioè "ciò che si manifesta". "Ciò che si manifesta implica l'esistenza di un soggetto dotato di coscienza che riceve la manifestazione (come si può parlare di manifestazione senza nessuno a cui la manifestazione è data?), avente una propria realtà sostanziale. Nessun fenomeno sussiste di per sé, come sostanza reale, ma solo come accadimento,evento psichico il cui essere è tale come interno alla coscienza, non trascendente questa. Per negare la necessità logica della realtà extrafenomenica, dovremmo ammettere come sensata l'ipotesi che il complesso dei fenomeni abbia in se stesso la sua ragion d'essere, la sua causa come immanente ad esso, senza bisogno di postulare una realtà ulteriore ad essi che sia la causa che li produce. Ma se accettassimo questo autofondarsi dei fenomeni, dovremmo escludere in assoluto proprio la possibilità dell'illusione, dell'inganno, di fenomeni che non corrispondono al reale, come nel caso dell'allucinazione o del daltonismo. Essendo i fenomeni l'unica realtà possibile, il loro coincidere con la verità sarebbe una proprietà essenziale ad essi, senza possibilità di deviazioni, dato che un giudizio vero è definito come quello che predica un contenuto fenomenico corrispondente alla realtà oggettiva. Ogni fenomeno, come tale esprimerebbe sempre il vero. Questa ipotesi è assurda, dato che resta sempre la possibilità di immagini sulla realtà tra loro contrastanti, che non possono dunque tutte essere vere, ma che dovrebbero porsi a diversi livelli di distanza rispetto a un riferimento extrafenomenico, in relazione a cui le idee (fenomeni) sarebbero più o meno rispecchianti la verità. Inoltre, lo stesso Giopap (come chiunque altra/o) ogniqualvolta esprime una sua opinione, come in questa discussione, in opposizione ad altre considerate erronee, sta implicitamente e necessariamente affermando questa realtà extrafenomenica, come criterio regolativo in relazione a cui la sua opinione sarebbe vera, cioè aderente ad esso, mentre le opposte, essendo nel torto, divergerebbero. Negando questa trascendenza del reale rispetto ai fenomeni, anche solo a livello generico-formale, questi rimarrebbero l'unica realtà possibile e avrebbero in se stessi, nelle coscienze di cui sono il contenuto, in quanti tali il criterio di verità, rendendo impossibile che alcuni possano contravvenire al criterio, scadendo nel torto, o anche ad un livello di verità inferiore o meno "centrata" rispetto ad altri. La possibilità dell'illusione, dell'errore è ciò che dimostra che il criterio di verità dei fenomeni non è ad essi immanenti, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza, ma sempre in relazione a un principio non da essi posto


Secondo me il fenomeno ("ciò che appare", "ciò il cui essere reale consiste nell' apparire") non necessita necessariamente, oltre all' esperienza cosciente di cui fa parte, nell' ambito della quale accade, di un ulteriore suo soggetto: l' ipotesi che solo i dati sensibili ("ciò che appare e basta") e null' altro di ulteriormente persistente anche in loro mancanza, sia reale non é logicamente scorretta, contraddittoria, insensata; dunque ciò cui allude può ben realmente darsi.
La questione del parlare di "manifestazione -sottinteso: a qualcuno- senza nessuno cui la manifestazione sia data" é puramente "tecnica linguistica": la forma personale si può benissimo sostituire con quella impersonale, "apparenza" come accadimento integrale in se stesso, non bisognoso di alcunché di ulteriore per darsi realmente.

Pretendere che una coscienza sia necessariamente le coscienza di qualcuno (di qualche soggetto) é pretendere che quanto sarebbe da dimostrare sia dimostrato (una petizione di principio).

La questione delle allucinazioni, sogni, ecc. si pone solo una volta ammesso (per fede, indimostrabilmente) l' esistenza di "cose in sé" indipendenti dalle percezioni fenomeniche coscienti.
Infatti un' allucinazione o un sogno non si distingue in alcun modo da un' esperienza "autentica" in sé e per sé (prescindendo da qualsiasi altra considerazione), ma invece solo presupponendo l' esistenza di cose in sé reali che nelle sensazioni fenomeniche, di cui sono "oggetti", si "manifestano" ad altre (o riflessivamente a sé medesime a seconda dei casi), che ne sono soggetti; e in particolare:
ammettendo (indimostrabilmente, per fede) l' esistenza di se stessi come soggetti di esperienza cosciente, di altri soggetti da se stessi diversi e di ulteriori cose in sé che delle esperienze coscienti sono oggetti;
ed accettando per vero (indimostrabilmente, per fede) il carattere autenticamente linguistico di quanto (ci) dicono altri parlanti (fenomenicamente constatabili) e in generale, "di norma" la loro sincerità o veridicità;
date le quali premesse indimostrabili si può verificare empiricamente se i fenomeni miei sono meramente soggettivi (solo io li provo: allucinazioni o sogni), oppure intersoggettivi (analogamente presenti, in condizioni di osservazione appropriate, nell' abito anche di qualsiasi altro soggetto di esperienza fenomenica cosciente oltre a me) in quanto considerabili manifestazioni fenomeniche delle medesime cose in sé, che ne sono oggetti, a qualsiasi soggetto (li può provare chiunque: esperienze "autentiche").

Dunque concordo che "il criterio di verità [mi sembra più corretto dire "autenticità", riservando quello di "verità" a quei peculiari fenomeni che sono le proposizioni o giudizi"] dei fenomeni non è ad essi immanente, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza"; solo che penso che non lo si possa dimostrare.

Per me i fenomeni non sono l' unica realtà possibile, ma ' unica realtà empiricamente verificabile, di cui può darsi certezza per immediata constatazione empirica (infatti non ho mai negato l' esistenza reale di me come soggetto né di altre cose come oggetti della mia esperienza cosciente, in certi casi a loro volta soggetti di altre).
Altre realtà extrafenomeniche credo pertanto esistano; solo mi rendo anche conto criticamente che questa credenza é "fideistica", indimostrabile empiricamente né logicamente.

daniele75

L'uomo ha due 'io': l'Io Reale immortale detto [/size]Atman[/size][/color] o [/size]Purusha[/font][/size][/color] e l'Io relativo, effimero, falso, [/size]ahamkara[/font][/size][/color]. In tenera età, quando le impressioni e l'ambiente non hanno ancora messo su di noi l'impronta impura, il piccolo diffonde a volte attorno a sé bagliori del Sé Reale Assoluto; ma man mano che avanza nella conoscenza delle vie del mondo, dove le azioni e il comportamento influenzano l'appetito e i desideri, il confort e il progresso, egli inizia a tessere un vestito chiamato personalità, con il quale il mondo lo conosce. L'ordito illusorio, effimero, la tessitura e il filo di questo abito sono fatti dalle abitudini, dai pregiudizi, dalle emozioni, dai modi di pensare e di agire, dai desideri e dalle ambizioni. Una forte personalità può essere utile, fino ad un certo punto, per spianare il cammino di vita e per permetterci di realizzare le ambizioni, ma non anche per la rivelazione del Vero Io. L'aspirante autentico allo stato di [/size]Yoga[/font][/size][/color] diventa meno interessato al suo impatto sul mondo e cerca con ardore la piena rivelazione del suo Io Reale Divino.[/size]Attraverso la meditazione profonda egli impara a distinguere ciò che è veramente Reale da ciò che non è valoroso e degno di considerazione, e si domanda: "Chi e che cosa sono Io in essenza?" Lui analizza e conosce Se stesso, domanda, apre la porta dell'intuizione e della percezione spirituale, penetrando così sulla via che porta al SAMADHI. Secondo la filosofia Yoga, il Sé non esiste assolutamente nel senso di essere parte del mondo manifestato, oggettivo o soggettivo; esso è eterno, non nato, non cresce, resiste ad ogni cambiamento, non decade (non si altera) mai e non muore, essendo onnipotente ed immortale.Nell'essere, il SE' è l'espressione della VERITA' ULTIMA. La BHAGAVAD GITA afferma che il SE' DIVINO (Atman) si trova nei cuori di tutti gli uomini ed è il nostro Io eterno, interiore, più profondo. Solo quando realizziamo, attraverso la rivelazione, questo SE' ETERNO e conquistiamo noi stessi, possiamo unificarci con il Supremo Infinito (DIO).

davintro

Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 19:06:24 PM
Citazione di: davintro il 28 Aprile 2020, 17:56:30 PM

la necessità di un passaggio logico verso il riconoscimento di una realtà extrafenomenica sta proprio nella definizione di "fenomeno", cioè "ciò che si manifesta". "Ciò che si manifesta implica l'esistenza di un soggetto dotato di coscienza che riceve la manifestazione (come si può parlare di manifestazione senza nessuno a cui la manifestazione è data?), avente una propria realtà sostanziale. Nessun fenomeno sussiste di per sé, come sostanza reale, ma solo come accadimento,evento psichico il cui essere è tale come interno alla coscienza, non trascendente questa. Per negare la necessità logica della realtà extrafenomenica, dovremmo ammettere come sensata l'ipotesi che il complesso dei fenomeni abbia in se stesso la sua ragion d'essere, la sua causa come immanente ad esso, senza bisogno di postulare una realtà ulteriore ad essi che sia la causa che li produce. Ma se accettassimo questo autofondarsi dei fenomeni, dovremmo escludere in assoluto proprio la possibilità dell'illusione, dell'inganno, di fenomeni che non corrispondono al reale, come nel caso dell'allucinazione o del daltonismo. Essendo i fenomeni l'unica realtà possibile, il loro coincidere con la verità sarebbe una proprietà essenziale ad essi, senza possibilità di deviazioni, dato che un giudizio vero è definito come quello che predica un contenuto fenomenico corrispondente alla realtà oggettiva. Ogni fenomeno, come tale esprimerebbe sempre il vero. Questa ipotesi è assurda, dato che resta sempre la possibilità di immagini sulla realtà tra loro contrastanti, che non possono dunque tutte essere vere, ma che dovrebbero porsi a diversi livelli di distanza rispetto a un riferimento extrafenomenico, in relazione a cui le idee (fenomeni) sarebbero più o meno rispecchianti la verità. Inoltre, lo stesso Giopap (come chiunque altra/o) ogniqualvolta esprime una sua opinione, come in questa discussione, in opposizione ad altre considerate erronee, sta implicitamente e necessariamente affermando questa realtà extrafenomenica, come criterio regolativo in relazione a cui la sua opinione sarebbe vera, cioè aderente ad esso, mentre le opposte, essendo nel torto, divergerebbero. Negando questa trascendenza del reale rispetto ai fenomeni, anche solo a livello generico-formale, questi rimarrebbero l'unica realtà possibile e avrebbero in se stessi, nelle coscienze di cui sono il contenuto, in quanti tali il criterio di verità, rendendo impossibile che alcuni possano contravvenire al criterio, scadendo nel torto, o anche ad un livello di verità inferiore o meno "centrata" rispetto ad altri. La possibilità dell'illusione, dell'errore è ciò che dimostra che il criterio di verità dei fenomeni non è ad essi immanenti, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza, ma sempre in relazione a un principio non da essi posto


Secondo me il fenomeno ("ciò che appare", "ciò il cui essere reale consiste nell' apparire") non necessita necessariamente, oltre all' esperienza cosciente di cui fa parte, nell' ambito della quale accade, di un ulteriore suo soggetto: l' ipotesi che solo i dati sensibili ("ciò che appare e basta") e null' altro di ulteriormente persistente anche in loro mancanza, sia reale non é logicamente scorretta, contraddittoria, insensata; dunque ciò cui allude può ben realmente darsi.
La questione del parlare di "manifestazione -sottinteso: a qualcuno- senza nessuno cui la manifestazione sia data" é puramente "tecnica linguistica": la forma personale si può benissimo sostituire con quella impersonale, "apparenza" come accadimento integrale in se stesso, non bisognoso di alcunché di ulteriore per darsi realmente.

Pretendere che una coscienza sia necessariamente le coscienza di qualcuno (di qualche soggetto) é pretendere che quanto sarebbe da dimostrare sia dimostrato (una petizione di principio).

La questione delle allucinazioni, sogni, ecc. si pone solo una volta ammesso (per fede, indimostrabilmente) l' esistenza di "cose in sé" indipendenti dalle percezioni fenomeniche coscienti.
Infatti un' allucinazione o un sogno non si distingue in alcun modo da un' esperienza "autentica" in sé e per sé (prescindendo da qualsiasi altra considerazione), ma invece solo presupponendo l' esistenza di cose in sé reali che nelle sensazioni fenomeniche, di cui sono "oggetti", si "manifestano" ad altre (o riflessivamente a sé medesime a seconda dei casi), che ne sono soggetti; e in particolare:
ammettendo (indimostrabilmente, per fede) l' esistenza di se stessi come soggetti di esperienza cosciente, di altri soggetti da se stessi diversi e di ulteriori cose in sé che delle esperienze coscienti sono oggetti;
ed accettando per vero (indimostrabilmente, per fede) il carattere autenticamente linguistico di quanto (ci) dicono altri parlanti (fenomenicamente constatabili) e in generale, "di norma" la loro sincerità o veridicità;
date le quali premesse indimostrabili si può verificare empiricamente se i fenomeni miei sono meramente soggettivi (solo io li provo: allucinazioni o sogni), oppure intersoggettivi (analogamente presenti, in condizioni di osservazione appropriate, nell' abito anche di qualsiasi altro soggetto di esperienza fenomenica cosciente oltre a me) in quanto considerabili manifestazioni fenomeniche delle medesime cose in sé, che ne sono oggetti, a qualsiasi soggetto (li può provare chiunque: esperienze "autentiche").

Dunque concordo che "il criterio di verità [mi sembra più corretto dire "autenticità", riservando quello di "verità" a quei peculiari fenomeni che sono le proposizioni o giudizi"] dei fenomeni non è ad essi immanente, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza"; solo che penso che non lo si possa dimostrare.

Per me i fenomeni non sono l' unica realtà possibile, ma ' unica realtà empiricamente verificabile, di cui può darsi certezza per immediata constatazione empirica (infatti non ho mai negato l' esistenza reale di me come soggetto né di altre cose come oggetti della mia esperienza cosciente, in certi casi a loro volta soggetti di altre).
Altre realtà extrafenomeniche credo pertanto esistano; solo mi rendo anche conto criticamente che questa credenza é "fideistica", indimostrabile empiricamente né logicamente.





concordo con il fatto che "autenticità" sia un termine più appropriato di "verità" riguardo i fenomeni. Avevo provato a chiarire che quando scrivevo di "verità dei fenomeni", la intendevo nel senso di vedere i fenomeni come già contenuti dei giudizi, già logicamente correlati, e non nella loro datità immediata con cui manifestano, prima di trattarli come qualcosa su cui si possono formulare giudizi oggettivi. Comunque la tua è una precisazione molto opportuna.


c'è un implicazione logica necessaria tra illusorietà dei fenomeni e posizione di una realtà extrafenomenica, ma non nel senso che quest'ultima sia un pregiudizio arbitrario già contenuta nel riconoscimento della possibile illusorietà dei fenomeni, condizione che porterebbe a un circolo vizioso, ma nel senso, se si vuole, inverso, che è la possibile illusorietà dei fenomeni la base da cui dedurre l'esistenza della realtà extrafenomenica, in quanto se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile, sarebbe impossibile concepire torti e ragioni, dato che non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare un'opinione corretta o scorretta, e dunque la stessa opinione per la quale non esiste alcuna realtà extrafenomenica, cioè extrasoggettiva, dovrebbe autoinvalidarsi, mancando del riconoscimento del principio logico che ne garantirebbe la correttezza e di converso sancirebbe l'illusorietà della tesi opposta. Resterebbe, a sua volta un fenomeno, un'impressione, non un giudizio in senso stretto, come invece si presenta. E, come logica insegna, se una tesi è autocontraddittoria, cioè falsa, necessariamente sarà vera l'opposta, cioè "esiste una realtà extrafenomenica". Quindi, se i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente (ma io non parlerei di "realtà", ma di vissuti, manifestazioni, i fenomeni sono per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe), la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio

Phil

Citazione di: daniele75 il 29 Aprile 2020, 07:36:06 AM
L'uomo ha due 'io': l'Io Reale immortale detto [/size]Atman[/size] o [/size]Purusha[/size] e l'Io relativo, effimero, falso, [/size]ahamkara[/size].
Suggerirei di riprendere tale dualismo (struttura che ben si addice al discorso logico), per scendere sotto il manto cultuale e "populista" addobbato di varie divinità, trascendenze, verità ultime, assoluti, etc. e partendo da Nagarjuna (anche nel senso di allontanarsene) e la sua distinzione fra «realtà convenzionale-relativa» e «realtà ultima» (nel senso che non se ne vede una ulteriore; questione più di "topologia" che di mistica), ragionare secondo un "realismo alogico" che considera il concetto di sunyata (vuoto come indeterminazione logica, non come nulla ontologico) "pervasivo" di quello di svabhava (essenza dell'ente, identità), senza tuttavia indulgere nelle velleità e promesse soteriologiche tipiche di una dottrina spiritual-religiosa.
Questa stessa concezione del concetto di sunyata, come disillusione dalla convenzionalità logico-culturale, è a sua volta "vuota" o "piena"? Essendo formulata secondo il linguaggio logico-convenzionale non può che esser "piena" di un senso, sebbene il suo referente, ciò a cui rimanda, è un vuoto di senso. Una prospettiva che quindi indica (non «è») la soglia del valico dell'illusione convenzionale; il che significa capire e farsi carico della funzione condizionante del prospettivismo nietzchiano, dell'"illusione dell'io", del pensiero logico-calcolante, del Samsara (che, per alcuni, è il Nirvana pensato e identificato "fuori" dalla sua vacuità), etc.

Similmente, riflettendo sulle dimensioni e la funzione di una tenaglia normale (convenzionale), si capisce (non «intuisce») che non ci si può prendere né il tronco di un albero né la punta di un capello. Non c'è nulla di mistico o spirituale, solo consapevolezza del ruolo (e dei limiti strutturali) dello strumento, del medium. Ciò non significa che lo strumento non possa ottenere dei risultati concreti: infatti la tenaglia ben stringe e svita bulloni (v. la famosa abilità tecno-scientifica di mandare sonde nello spazio), semplicemente c'è anche qualcosa che tale strumento non può cogliere, anche se questo non ne inficia comunque la funzionalità. Cos'è che sfugge alla tenaglia? Anzitutto, la possibilità di afferrare il suo stesso perno o il suo stesso manico, ovvero di (com)prendere se stessa. D'altronde, una tenaglia "vede" il mondo circostante classificato secondo la sua dicotomia prospettica di prendibile/non-prendibile; sebbene, al di là dell'aporia del non poter prendere sé stessa (aporia che è connaturata al suo stesso esser tenaglia e quindi ne fonda la funzionalità), c'è stata anche qualche tenaglia che ha osservato, fenomenologicamente, che è proprio la sua stessa interazione con il mondo circostante a farlo sembrare tutta una questione di prendibile/non-prendibile (vero/falso, giusto/sbagliato, etc.). Nel momento in cui si è consapevoli di come si funziona in quanto tenaglia, è spontaneo capire che la (com)prensibilità del mondo è una prospettiva convenzionale da tenaglie, una mappatura sovrastrutturale che le tenaglie impongono sul mondo (nel loro interagire empirico con esso); e in fondo non potrebbero fare altrimenti... almeno finché si adoperano "solo" a prendere/non-prendere (attività non certo scevra da difficoltà e rischi) o, come si direbbe più ad oriente, attaccarsi/non-attaccarsi.


P.s.
In rete ho pescato il Mulamadhyamakakarika (testo integrale seguito da un commentario) purtroppo solo in inglese, qui.

giopap

Citazione di: davintro il 29 Aprile 2020, 19:05:38 PM

c'è un implicazione logica necessaria tra illusorietà dei fenomeni e posizione di una realtà extrafenomenica, ma non nel senso che quest'ultima sia un pregiudizio arbitrario già contenuta nel riconoscimento della possibile illusorietà dei fenomeni, condizione che porterebbe a un circolo vizioso, ma nel senso, se si vuole, inverso, che è la possibile illusorietà dei fenomeni la base da cui dedurre l'esistenza della realtà extrafenomenica, in quanto se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile, sarebbe impossibile concepire torti e ragioni, dato che non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare un'opinione corretta o scorretta, e dunque la stessa opinione per la quale non esiste alcuna realtà extrafenomenica, cioè extrasoggettiva, dovrebbe autoinvalidarsi, mancando del riconoscimento del principio logico che ne garantirebbe la correttezza e di converso sancirebbe l'illusorietà della tesi opposta. Resterebbe, a sua volta un fenomeno, un'impressione, non un giudizio in senso stretto, come invece si presenta. E, come logica insegna, se una tesi è autocontraddittoria, cioè falsa, necessariamente sarà vera l'opposta, cioè "esiste una realtà extrafenomenica". Quindi, se i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente (ma io non parlerei di "realtà", ma di vissuti, manifestazioni, i fenomeni sono per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe), la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio

Dal fatto che se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare la natura illusoria-onirica (cioé meramente soggettiva, constatabile unicamente nella singola esperienza postulabile essere propria di ciascun unico soggetto) oppure non fittizia (cioé postulabile essere constatabile in linea di principio nell' ambito di qualsiasi esperienza propria di qualsiasi soggetto) dell' esperienza dei fenomeni stessi consegue non che esiste la realtà in sé oltre ai fenomeni, ma che l' esistenza (comunque indimostrabile né tantomeno -per definizione- empiricamente provabile) della realtà in sé deve necessariamente essere creduta (sempre e comunque per fede) se si crede alla possibilità di compiere veracemente questa distinzione fra esperienza fenomenica non fittizia (intersoggettiva) e fittizia (meramente soggettiva) e si vuole essere logicamente coerenti, evitando di cadere in contraddizione.
Dunque il carattere non illusorio delle esperienze non fittizie non é perciò garantito con certezza, otlre ogni possibile dubbio dall' esistenza delle cose in sé, anche se ne ha bisogno; si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente.

Nella tua affermazione finale [che per parte mia correggerei solo marginalmente in questo modo: Quindi, ***se*** i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente in quanto vissuti, manifestazioni, i fenomeni essendo per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe, la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio] per quanto mi riguarda evidenzierei fortemente il "se": non é certo che così stiano le cose, ma devono stare così qualora questo criterio di valutazione fonata circa i fenomeni fosse (come credo per fede) effettivamente possibile (a rigore grammaticalmente é un periodo ipotetico della possibilità, non della realtà).

Ipazia

Citazione di: Phil il 29 Aprile 2020, 21:14:33 PM
Similmente, riflettendo sulle dimensioni e la funzione di una tenaglia normale (convenzionale), si capisce (non «intuisce») che non ci si può prendere né il tronco di un albero né la punta di un capello. Non c'è nulla di mistico o spirituale, solo consapevolezza del ruolo (e dei limiti strutturali) dello strumento, del medium. Ciò non significa che lo strumento non possa ottenere dei risultati concreti: infatti la tenaglia ben stringe e svita bulloni (v. la famosa abilità tecno-scientifica di mandare sonde nello spazio), semplicemente c'è anche qualcosa che tale strumento non può cogliere, anche se questo non ne inficia comunque la funzionalità. Cos'è che sfugge alla tenaglia? Anzitutto, la possibilità di afferrare il suo stesso perno o il suo stesso manico, ovvero di (com)prendere se stessa. D'altronde, una tenaglia "vede" il mondo circostante classificato secondo la sua dicotomia prospettica di prendibile/non-prendibile; sebbene, al di là dell'aporia del non poter prendere sé stessa (aporia che è connaturata al suo stesso esser tenaglia e quindi ne fonda la funzionalità), c'è stata anche qualche tenaglia che ha osservato, fenomenologicamente, che è proprio la sua stessa interazione con il mondo circostante a farlo sembrare tutta una questione di prendibile/non-prendibile (vero/falso, giusto/sbagliato, etc.). Nel momento in cui si è consapevoli di come si funziona in quanto tenaglia, è spontaneo capire che la (com)prensibilità del mondo è una prospettiva convenzionale da tenaglie, una mappatura sovrastrutturale che le tenaglie impongono sul mondo (nel loro interagire empirico con esso); e in fondo non potrebbero fare altrimenti... almeno finché si adoperano "solo" a prendere/non-prendere (attività non certo scevra da difficoltà e rischi) o, come si direbbe più ad oriente, attaccarsi/non-attaccarsi.

Mettendomi nei panni dell'umile tenaglia, evidenzio la sua memoria di essere stata essa stessa presa e forgiata da altre tenaglie e da un maglio che le ha dato la forma in cui potersi manifestare nella sua prensile natura. Non del tutta avulsa da una sua capacità speculativa nel vedere agire altre tenaglie simili a lei per funzione e sostanza. Autocoscientemente maturando la consapevolezza della sua insostituibilità ogni volta che il mondo incappa in qualche bullone da avvitare o svitare. E trovando alfine la sua gloria nel canto di chi, nella "chiave a stella", ne colse e narrò la grande bellezza siderea.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Mettendomi nei panni dell'umile tenaglia, evidenzio la sua memoria di essere stata essa stessa presa e forgiata da altre tenaglie e da un maglio che le ha dato la forma in cui potersi manifestare nella sua prensile natura. Non del tutta avulsa da una sua capacità speculativa nel vedere agire altre tenaglie simili a lei per funzione e sostanza.
Concordo, questa è esattamente la civiltà della specie "tenaglia sapiens": accomunate per sostanza, per range di capacità operative, per struttura materiale, per modalità di interazione con il mondo secondo il dualismo prendibile/non-prendibile, per storia evolutiva delle tenaglie, per rivoluzione delle tecniche di prensione, etc. e ne ha costruite molte di opere mirabili, questa stirpe di tenaglie («canaglie» tuonerebbe forse Madre Natura, ma meglio non accavallare troppo le metafore).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
Autocoscientemente maturando la consapevolezza della sua insostituibilità ogni volta che il mondo incappa in qualche bullone da avvitare o svitare.
Qui la relazione disillusa che proponevo è invece rovesciata: non è il mondo ad incappare in bulloni da svitare, ma è la tenaglia, in quanto tale, a vedere nel mondo bulloni da girare; un pennello vedrebbe bulloni da dipingere (e magari non li chiamerebbe nemmeno «bulloni»); ognuno secondo la sua naturale prospettiva.

Come detto, l'esser consapevoli del proprio esser-tenaglia è il punto di partenza per disilludersi che il mondo sia solo una questione di girar bulloni, anche se così facendo si è storicamente costruito già molto. Lasciarsi attanagliare dal dubbio che tutto ci paia prensibile/non-prensibile solo perché siamo tenaglie, può aiutarci a capire l'illusione che la (com)prensibilità, che la nostra prospettiva impone al mondo, coincida con la realtà assoluta del mondo: come suggerito, ibridando Nagarjuna con Husserl, la "realtà ultima" (invalicabile, fino a prova contraria) è probabilmente quella in cui, lasciando fenomenologicamente tra parentesi il nostro esser tenaglia e il connaturato criterio di (com)prensibilità, non c'è nulla da (com)prendere e, a ben vedere, nemmeno nessuna "tenaglia" (intesa come identità convenzionale e permanente).
In breve, sunyata zen demistificato, realismo alogico (il termine etimologicamente esatto sarebbe «nichilismo», se non fosse già così stracarico di storia, concettualizzazioni, pregiudizi, etc.).

Citazione di: Ipazia il 30 Aprile 2020, 09:46:52 AM
E trovando alfine la sua gloria nel canto di chi, nella "chiave a stella", ne colse e narrò la grande bellezza siderea.
Per me, più che nella decodifica siderale, la (vana)gloria delle tenaglie è forgiata nella fucina di Efesto: "gloria operaia" del formicaio di industriose (ed industriali) creature, che risolvono con la "tecnica della complessità" il complesso di inferiorità verso gli altri animali. Naturalmente, più vogliono esser prime per pienezza di conoscenza, più si allontanano dalla vacuità della realtà ultima.

daniele75

Tutti nasciamo con un pacchetto hardware preinstallato, con dei codici primari, gli istinti. Questo è quello che c'è di reale. Tutti hanno questo pacchetto, diverso per ogni specie. Poi nasce l'esperienza, subiamo l'insegnamento. La memoria comincia a memorizzare dati su dati, sino a concepire una realtà illusoria basata sulla concettualizzazione e sui sensi, qui nasce l'io, esso è un miraggio, che gestisce l'altro miraggio che è l'esperienza degli insegnamenti ricevuti, ecco che la suddivisione ha inizio, siamo divisi dal resto degli esseri, dalla natura. Il pacchetto iniziale continuerà a dirigere le giostre, sotto forma di pulsioni e codici. Ogni uomo può essere chiunque, dipende dalle credenze installate, in realtà abbiamo un io generato dalle credenze, esso ha la facoltà di decidere in parte come muoverci, come agire. Ma ricordiamoci che è solo il pacchetto iniziale ad essere eterno e reale, comune a tutti, diverso a seconda della razza. Il resto è illusorio come un miraggio, è una costruzione, un puzzle costruito dalla cultura. L'essere consapevole di questo dimostra che l'uomo è immortale, se si considera il pacchetto iniziale, sprovvisto di un io e di una memoria scritta, le esperienze. Siamo un tutt'uno all'inizio.

giopap

Citazione di: giopap il 30 Aprile 2020, 09:30:18 AM
Citazione di: davintro il 29 Aprile 2020, 19:05:38 PM

c'è un implicazione logica necessaria tra illusorietà dei fenomeni e posizione di una realtà extrafenomenica, ma non nel senso che quest'ultima sia un pregiudizio arbitrario già contenuta nel riconoscimento della possibile illusorietà dei fenomeni, condizione che porterebbe a un circolo vizioso, ma nel senso, se si vuole, inverso, che è la possibile illusorietà dei fenomeni la base da cui dedurre l'esistenza della realtà extrafenomenica, in quanto se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile, sarebbe impossibile concepire torti e ragioni, dato che non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare un'opinione corretta o scorretta, e dunque la stessa opinione per la quale non esiste alcuna realtà extrafenomenica, cioè extrasoggettiva, dovrebbe autoinvalidarsi, mancando del riconoscimento del principio logico che ne garantirebbe la correttezza e di converso sancirebbe l'illusorietà della tesi opposta. Resterebbe, a sua volta un fenomeno, un'impressione, non un giudizio in senso stretto, come invece si presenta. E, come logica insegna, se una tesi è autocontraddittoria, cioè falsa, necessariamente sarà vera l'opposta, cioè "esiste una realtà extrafenomenica". Quindi, se i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente (ma io non parlerei di "realtà", ma di vissuti, manifestazioni, i fenomeni sono per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe), la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio

Dal fatto che se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare la natura illusoria-onirica (cioé meramente soggettiva, constatabile unicamente nella singola esperienza postulabile essere propria di ciascun unico soggetto) oppure non fittizia (cioé postulabile essere constatabile in linea di principio nell' ambito di qualsiasi esperienza propria di qualsiasi soggetto) dell' esperienza dei fenomeni stessi consegue non che esiste la realtà in sé oltre ai fenomeni, ma che l' esistenza (comunque indimostrabile né tantomeno -per definizione- empiricamente provabile) della realtà in sé deve necessariamente essere creduta (sempre e comunque per fede) se si crede alla possibilità di compiere veracemente questa distinzione fra esperienza fenomenica non fittizia (intersoggettiva) e fittizia (meramente soggettiva) e si vuole essere logicamente coerenti, evitando di cadere in contraddizione.
Dunque il carattere non illusorio delle esperienze non fittizie non é perciò garantito con certezza, otlre ogni possibile dubbio dall' esistenza delle cose in sé, anche se ne ha bisogno; si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente.

Nella tua affermazione finale [che per parte mia correggerei solo marginalmente in questo modo: Quindi, ***se*** i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente in quanto vissuti, manifestazioni, i fenomeni essendo per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe, la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio] per quanto mi riguarda evidenzierei fortemente il "se": non é certo che così stiano le cose, ma devono stare così qualora questo criterio di valutazione fonata circa i fenomeni fosse (come credo per fede) effettivamente possibile (a rigore grammaticalmente é un periodo ipotetico della possibilità, non della realtà).


Devo correggermi, richiamando in articolare l' attenzione di Davintro, discutendo con il quale avevo sostenuto queste affermazioni che ritenendo errate e false.

Infatti a pensarci bene non ritengo vero che:


il carattere non illusorio delle esperienze non fittizie non é perciò garantito con certezza, oltre ogni possibile dubbio dall' esistenza delle cose in sé; e nemmeno ne ha necessariamente bisogno; si tratta di una condizione non sufficiente ma nemmeno, a ben considerare la questione, in modo logicamente corretto, necessaria.


Ovvero che:


Dal fatto che se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare la natura illusoria-onirica (cioé meramente soggettiva, constatabile unicamente nella singola esperienza postulabile essere propria di ciascun unico soggetto) oppure non fittizia (cioé postulabile essere constatabile in linea di principio nell' ambito di qualsiasi esperienza propria di qualsiasi soggetto) dell' esperienza dei fenomeni stessi consegue non che esiste la realtà in sé oltre ai fenomeni; ma nemmeno che l' esistenza (comunque indimostrabile né tantomeno -per definizione- empiricamente provabile) della realtà in sé deve necessariamente essere creduta (sempre e comunque per fede) se si crede alla possibilità di compiere veracemente questa distinzione fra esperienza fenomenica non fittizia (intersoggettiva) e fittizia (meramente soggettiva) e si vuole essere logicamente coerenti, evitando di cadere in contraddizione.


Al contrario ritengo sensata, ed indimostrabile sia essere vera sia essere falsa, e che dunque potrebbe tanto darsi quanto non darsi in realtà, anche l' ipotesi di una corrispondenza intersoggettiva di fatto di tutte le esperienze non fittizie (nel solo ambito di quelle esteriori o materiali e non mai comunque nel caso di le interiori o di res cogitans) anche in assenza di cose in sé.


Cioé una perfetta corrispondenza fra tutte le esperienze materiali non fittizie, secondo quanto raccontatoci dagli altri uomini (indimostrabilmente ammettendone la autentica natura linguistica e la verità in generale, salvo eccezioni, e comunque in linea di principio appurabile), potrebbe anche darsi (il pensarlo essendo logicamente corretto, non contraddittorio, sensato) anche in assenza di realtà in sé, per pura e semplice "coordinazione dell diverse esperienze coscienti, eventualmente anche qualora queste esaurissero integralmente la realtà in toto, ovvero in assenza di loro oggetti e soggetti in sé.



Questo per portare conseguentemente fino in fondo la critica razionale delle nostre convinzioni o credenze (e non per negarla o per pretendere impossibilmente di dimostrarla falsa), evidenziandone ogni possibile aspetto di indubilitabilità, di incertezza teorica.




davintro

personalmente faccio una netta distinzione tra oggettività (che indica il non essere fittizio dei fenomeni, cioè l'essere corrispondenti alla realtà in sè) e intersoggettività, indicante la concordanza dei fenomeni, ma da cui non si può dedurre con certezza la corrispondenza di questi circa la realtà oggettiva. L'autenticità, il non essere fittizio, dei fenomeni dipende dall'efficienza qualitativa dei nostri strumenti percettivi, la loro capacità di ricavare dati dalla realtà per come è, senza distorsioni. Questa efficienza è una condizione inerente la qualità dei singoli soggetti, non è qualcosa determinato quantitativamente dalla condivisione intersoggettiva dei fenomeni. Se un'eventuale stato di inefficienza degli apparati percettivi fosse un dato comune alla specie umana, tutti i fenomeni vissuti dai soggetti sarebbero fittizi. Sintetizzando, la verità non è democratica, non è data dalla frequenza quantitativa con cui i fenomeni sono vissuti da più soggetti, ma dall'efficienza qualitativa, che può essere tale indipendentemente dal riferirsi a singoli soggetti, minoranze o maggioranze. Per quanto riguarda il punto di dissenso con Giopap riguarda l'impossibilità di una realtà coincidente con i fenomeni soggettivi, senza alcun necessario riferimento a cose in sè, penso che, forse, potrebbe derivare da differenti impieghi della terminologia, in particolare riguardo la definizione di "realtà". Per me reale è ciò che esiste indipendentemente dall'essere pensato (quantomeno pensato attualmente da qualche mente, sull'indipendenza riguardo la pensabilità della cosa come potenzialità in generale, vorrei rifletterci meglio...), e dunque va da sè che i fenomeni, in quanto contenuti del pensiero, dunque dipendenti da esso, non possano essere identificati con la realtà. Ma chiaramente, mutando le definizioni sarebbe possibile esporre discorsi diversi, non più insensati