L'illusione dell'io

Aperto da daniele75, 23 Aprile 2020, 06:49:30 AM

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daniele75

#45
Quando un sogno diventa realtà. Anche il pazzo ha una sua logica. Chi può intendere intenda.


https://youtu.be/lydTNFZiVwo


Vi lascio con un video che riassume i miei concetti

Phil

Citazione di: Ipazia il 26 Aprile 2020, 15:47:37 PM
Anche i più fondamentalisti sostenitori di un io illusorio basta pungerli perchè tutta la loro teoresi si sbricioli. E' la solita questione che già abbiamo dibattuto: lo spirito è radicato nella carne così come il soggetto identitario (io) che quello spirito cerca di sviare, senza mai riuscirvi.
Sostenere che «l'io è illusione» (con annessi cinque post di postille) non equivale a sostenere che «l'io non esiste» che non equivale a sostenere che «io non esisto».
La «puntura» e lo «spirito» non hanno quindi pertinenza con il (mio) discorso sul linguaggio, sulla concettualizzazione convenzionale e sul realismo "alogico" che prende spunto da Veda e zen.
Come previsto, se non sono in grado di spiegarlo parlandone, meglio tacerne (pur restando convinto che non sia una questione di intuizione, ma solo di riflessione e comprensione, al di là del concordare o meno).

Ipazia

In effetti qui siamo nella sezione spirituale e ognuno, Tony Parsons, Daniele75 e Phil ha il diritto di tenersi i suoi riferimenti ontologici. Phil afferma che, a questo livello di astrazione del reale, essi non sono ne dicibili ne confutabili. Ne prendo atto e continuo a considerare umani, atomi, energia e pavimenti nella loro differente oggettività e soggettività. Altri li potranno considerare, legittimamente e arbitrariamente, Uno. Che io altrettanto, legittimamente e arbitrariamente (riflettendoci su), considererò ancora più infondato dell'io, ego, self, me,... e della negazione di una distinzione del soggetto (io) da altri oggetti "reali".

A questo punto il parlarne diventa possibile solo in ambito filosofico e scientifico, dopo aver confrontato quel concetto ontologico ed epistemico che chiamiamo realtà. E averne tratto almeno un minimo livello comune di discussione.

pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Non ho parlato esattamente di livelli di astrazione del reale, semmai di un reale privo di astrazioni, dopo essersi "disillusi" da tutte le astrazioni, da intendere come modelli interpretativi che di fatto funzionano ed hanno ripercussioni empiricamente riscontrabili.
Chiaramente (spero) non concordo con chi crede nell'Uno:
Citazione di: Phil il 25 Aprile 2020, 12:33:19 PM
Risolvere la dualità e la molteplicità in un Uno assoluto, significa assecondare l'horror vacui e mettere un tappo, a cui appoggiarsi, per riempire tale vuoto; vuoto che tu stesso, corroborato da tutta la scienza contemporanea, hai rilevato
e non sono sicuro di negare la «distinzione fra soggetto (io) da altri oggetti "reali"»(cit.) per come la intendi tu (se non ho frainteso): il superamento della dualità a cui mi riferivo con
Citazione di: Phil il 24 Aprile 2020, 20:06:40 PM
Finché restiamo nella dualità serpente/corda, soggetto/mondo, etc. stiamo al gioco della realtà convenzionale; quando non vediamo più la dualità serpente/corda, allora non abbiamo più nemmeno un linguaggio per parlarne.
va letto alla luce del precedente
Citazione di: Phil il 24 Aprile 2020, 20:06:40 PM
c'è più pericolo nello scambiare la corda per il serpente oppure il serpente per la corda?
quindi il "vedere" (concordo che avrei dovuto usare le virgolette per esser più chiaro) a cui mi riferisco, non è "cecità" assoluta come "indifferenza cognitiva" (se così l'hai intesa) rispetto a ciò che viene chiamato (nel linguaggio) questo/quello, vicino/lontano, caldo/freddo, corpo-mio/spigolo, etc. l'assenza di dualismo, «il vuoto di parole» su cui ho insistito (con annesso comico paradosso), non è indiscriminazione percettiva (semmai sia possibile), ma "solo" concettuale; per questo ho citato lo zen (non teorie mistico-cosmiche).

P.s.
Non scommetterei di essermi spiegato meglio, ma forse ho potuto darti qualche indizio almeno sulle differenze rispetto a Daniele75 e Tony Parsons (se così non fosse, lascia pure scorrere, non ti perdi niente di speciale, parola mia).

Ipazia

@phill
Ho capito che tu la vedevi diversamente, altrimenti non avresti posto il "paradosso comico del discorso" o "paradosso del discorso comico" come è altrettanto interpretabile la contraddizione implicita nel soggetto della discussione. Sullo zen so che insiste sul controllo della psiche attraverso la meditazione, ma questo è finalizzato a rimuovere certe parassiterie incrostazioni della stessa, non a ritenerla illusoria. Alla fine, anche per lo zen, è sempre un io che pensa. Si tratta di dargli strumenti per pensare meglio, più consapevolmente. Non di superimporvi uno spirito trascendente unificante che liberi dalla presupposta illusione.
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

Phil

Confermo che per lo zen in generale (e per me nello specifico) non vi sia uno «spirito trascendente unificante»; sull'illusione dell'io nello zen, probabilmente ci rifacciamo a due "scuole" differenti; la "mia" (seppur personalizzata, da buon postmoderno), a suon di anatta e koan, suggerisce una certa illusorietà dell'io pensante (illusorietà di cui è appunto meglio tacere).

daniele75

Citazione di: Phil il 27 Aprile 2020, 00:20:13 AM
Confermo che per lo zen in generale (e per me nello specifico) non vi sia uno «spirito trascendente unificante»; sull'illusione dell'io nello zen, probabilmente ci rifacciamo a due "scuole" differenti; la "mia" (seppur personalizzata, da buon postmoderno), a suon di anatta e koan, suggerisce una certa illusorietà dell'io pensante (illusorietà di cui è appunto meglio tacere).


Scusa Phil, puoi darmi una definizione dell io nella cultura zen? A parole tue, so che è difficile, ma mi sarebbe d'aiuto

Ipazia

Citazione di: Phil il 27 Aprile 2020, 00:20:13 AM
Confermo che per lo zen in generale (e per me nello specifico) non vi sia uno «spirito trascendente unificante»; sull'illusione dell'io nello zen, probabilmente ci rifacciamo a due "scuole" differenti; la "mia" (seppur personalizzata, da buon postmoderno), a suon di anatta e koan, suggerisce una certa illusorietà dell'io pensante (illusorietà di cui è appunto meglio tacere).

Qui ne parla. Ne illustra la grammatica. Non dà ragione dell'illusorietà dell'io e della verità del sè, ma ovviamente si tratta di un bignami che rimanda ad altro. Penso che anche Freud, per vie occidentali, cercasse il sè nell'io, per cui si ritorna da capo al discorso della verità del soggetto: reale fondata o illusoria ?
pacata posse omnia mente tueri (Lucrezio)
simplex sigillum veri

daniele75

Citazione di: Ipazia il 27 Aprile 2020, 09:52:21 AM
Citazione di: Phil il 27 Aprile 2020, 00:20:13 AM
Confermo che per lo zen in generale (e per me nello specifico) non vi sia uno «spirito trascendente unificante»; sull'illusione dell'io nello zen, probabilmente ci rifacciamo a due "scuole" differenti; la "mia" (seppur personalizzata, da buon postmoderno), a suon di anatta e koan, suggerisce una certa illusorietà dell'io pensante (illusorietà di cui è appunto meglio tacere).

Qui ne parla. Ne illustra la grammatica. Non dà ragione dell'illusorietà dell'io e della verità del sè, ma ovviamente si tratta di un bignami che rimanda ad altro. Penso che anche Freud, per vie occidentali, cercasse il sè nell'io, per cui si ritorna da capo al discorso della verità del soggetto: reale fondata o illusoria ?


Io concluderò accettando i due opposti. Il primo in parte l'illusorieta di un io vittima Delle credenze altrui. Dall'altra la reale presenza di un libero arbitrio, atto a scindere cosa è giusto e sbagliato. L'io psicologico, una scintilla di energia che vaga nella memoria scritta a cercare soluzioni. Questo potrebbe essere un punto di incontro.

Phil

Citazione di: daniele75 il 27 Aprile 2020, 08:04:05 AM
Scusa Phil, puoi darmi una definizione dell io nella cultura zen? A parole tue, so che è difficile, ma mi sarebbe d'aiuto
Ci sono testi (come l'Abhidhamma) che scandagliano in dettaglio la concezione dell'io (e dintorni) nel buddhismo classico; nello zen ci sono poi differenti scuole (Soto, Rinzai, etc.) che ne riprendono alcune parti e ne tralasciano altre; ogni maestro è a suo modo un ermeneuta. Sarebbe onestamente il colmo se mi mettessi a dare spiegazioni sullo zen (ho già commesso in precedenza la leggerezza, citandolo, di trattarlo troppo generalisticamente), andremmo ben oltre la comicità, vista la mia impreparazione... tuttavia cosa intendo personalmente per «illusione dell'io» credo di averlo accennato nei post precedenti: (auto)identificazione convenzionale, modello interpretativo che funziona socialmente, narrazione logica delle esperienze corporee e dei vissuti, etc.
Ribadisco che considero lo zen in modo personalizzato (eterodosso, anzi, "eretico"): sicuramente non sono buddista, ma non posso negare l'influsso che alcune letture hanno avuto sulla mia visione del mondo (per questo ogni tanto cito lo zen, seppur senza scendere in dettagli che eccedono la mia competenza in materia).


Citazione di: Ipazia il 27 Aprile 2020, 09:52:21 AM
Qui ne parla. Ne illustra la grammatica.
Non mi convince troppo nemmeno come "grammatica di base": sono un po' più all'antica per quanto riguarda lo zen, ma al contempo non lo prendo alla lettera e ne tralascio molti aspetti. Lo vedo all'antica, nel senso che non concordo con la sua ricezione all'occidentale, "esegeticamente liberale" e psicologistica, perché lo intendo come derivazione stretta del buddismo, a cui rimanda ancora nei suoi concetti cardine. Passi pure che nel link si parli del koan come un «porsi un quesito che non ha una risposta» (e già qui c'è da storcere il naso), ma che dukkha sia la prospettiva secondo cui «si può giungere al Nirvana attraverso un percorso di dolore fisico e spirituale» mi pare davvero un'interpretazione che rischia di essere fraintesa malamente, ai limiti della manomissione dell'essenza della dottrina (ad esempio delle «quattro nobili verità»).

Citazione di: Ipazia il 27 Aprile 2020, 09:52:21 AM
Penso che anche Freud, per vie occidentali, cercasse il sè nell'io, per cui si ritorna da capo al discorso della verità del soggetto: reale fondata o illusoria ?
Domanda che ha (forse) senso per Freud, ma il «sé» di cui parla (molto ambiguamente) quell'articolo, non è il sé psicoanalitico all'occidentale (più plausibilmente si allude alla natura buddhica). Ne deriva che la domanda sulla "verità del soggetto", nello zen, per come lo intendo, ha due esiti: una bastonata o un koan (anzi, avendo usato la parola «verità», forse servirebbe una doppia dose...). In entrambi i casi, non si concettualizza nulla, restando un passo fuori dall'illusione, dal razionalismo logico, dall'attaccamento, etc.
Risposta che suona deludente e disillusa? Allora, forse, è già una buona "risposta zen".

davintro

quando si parla di illusione dell'Io andrebbe preliminarmente chiarito di quale Io si sta parlando, o meglio, in quale accezione intenderlo. Lo si può intendere in senso reale-empirico, Io inteso come individuo esistente "in carne e ossa", inserito nel mondo dei fatti e in un complesso di relazioni di causa-effetto con altri enti costituenti il suo ambiente. Inteso in questo senso, consiste in una realtà che presume di esistere come extramentale, trascendente rispetto alla coscienza che ne si ha, oggettivo. Solo intendendolo in questo senso si può parlare di "illusione", la possibilità dell'illusione è data dalla mancanza di identità necessaria tra pensiero e cosa, di fronte alla pretesa di attribuzione di realtà di qualcosa di ulteriore rispetto alla coscienza che ne si ha. La possibilità dell' illusione dell'Io riguarda tutte quelle proprietà del soggetto che si presume reali al di là del loro essere contenuto fenomenico, riguarda ad esempio l'effettiva realtà del mio essere davvero nato in Italia, la misura della mia altezza, del mio peso, anche certi meccanismi psichici che colloco ad un livello psicologico al di là di ciò che l'autocoscienza registrerebbe (come l'inconscio della psicanalisi), non riguarda invece l'ambito rigidamente trascendentale e fenomenologico. Intendendo l'Io come ciò che l'autocoscienza rivela come suo contenuto, al di là della pretesa di far corrispondere questo contenuto con una realtà extramentale, non sussiste possibilità di illusione o di inganno. Se rifletto su me stesso e sulla possibilità che ciò che di me si riferirebbe a una realtà oggettiva (non inganni l'abituale, secondo me erronea, identificazione che spesso si fa "oggettività" ed "esteriorità": oggettivo può anche riferirsi alla propria realtà personale da indagare tramite introspezione, l'oggettività comprende qualunque cosa si ponga come reale, foss'anche interiore e psichica, comunque reale indipendentemente rispetto la coscienza che ne si ha, la complessità del Sé, che non coincide necessariamente con l'Io, intesa come insieme di fattori psichici reali in quanto dotati di potere causale performante, tale al di là del fatto di essere pensata, rientra nell'oggettività non meno che gli oggetti fisici che riconosco nel mondo esterno) sia un'illusione, riconosco sempre implicitamente il mio atto di riflessione, come eventualmente vittima di illusione, ma che comunque esisterebbe come soggetto che si illude. Esiste dunque un livello dell'Io, che resta in atto, al di là che si illuda o meno rispetto alla realtà del contenuto fenomenico che recepisce, e questo restare in atto è una certezza al di là di ogni inganno. Non ha senso parlare di "illusione dell'Io", intendendo l'Io come punto di scaturigine di atti coscienti di esperienza vissuta, che, anche ammesso non rispecchiano la realtà oggettiva, esistono certamente come contenuti di un soggetto, che, anche riconoscendosi come potenzialmente illuso, si riconosce comunque come esistente, per quanto fallibile. La possibilità dell'illusione cade nel momento in cui si parla di un ente il cui essere coincide per definizione con la stessa esperienza  vissuta che si ha di esso, questo ente è l'autocoscienza, da non confondersi con l'introspezione psicologica, che invece è in atto mirando a illuminare livelli empirici di soggettività che esistano come indipendenti dalla coscienza

Phil

Con una probabile (auto)suggestione interpretativa, ho trovato una tanto inattesa quanto tempestiva risonanza con una citazione di Nietzsche postata oggi in altro topic:
Citazione di: Lou il 27 Aprile 2020, 14:52:50 PM
105. [...] Ma in ciò si ingannano: l'atomo che essi postulano è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva. [...] [I fisici] hanno tralasciato qualcosa nella costellazione senza saperlo: appunto il necessario prospettivismo, in virtù del quale ogni centro di forza – e non solo l'uomo – costruisce tutto il resto del mondo a partire da se stesso, cioè lo misura, lo modella, lo forma secondo la sua forza... Hanno dimenticato di calcolare nell' «essere vero» questa forza che pone prospettive... [...]

Passo tratto da i Frammenti Postumi. (italic mio)

Ebbene, salpando da questa citazione per andare lontano dal suo autore (che logicamente pone per vera la «forza che pone prospettive»), se il fulcro di tale prospettivismo è l'uomo, nel momento in cui tale prospettivismo si rivolge all'autocomprensione, l'idea che l'uomo si fa di sé stesso sarà a sua volta prospettica, ovvero una «finzione soggettiva» del soggetto che si guarda allo specchio e si identifica come tale (soggetto, io, etc.).
Al netto del concedere o meno una certa sfumatura tangente fra «finzione» e «illusione», non si ottiene forse una metafinzione in cui il soggetto stesso, nel vedersi prospetticamente come tale (soggetto, io, etc.) è inevitabilmente a sua volta una sua «finzione soggettiva»?
Da dove origina tale prospettiva, nel momento in cui si autoidentifica? Non può originare dall'io, dal soggetto, etc. perché essi sono il risultato prospettico della «finzione soggettiva». Che origini allora da uno "sguardo" non ancora soggettivizzato, ovvero privo di (auto)concettualizzazione, ovvero spontaneamente prelogico e senza identità? Tale sguardo potrebbe suggerire, non dimostrare, che l'io è un'illusione o, per dirla con Nietzche, che la finzione soggettiva non risparmia il soggetto stesso quando questi si pone nel suo stesso sguardo, inevitabilmente prospettico.


P.s.
Con questo spunto "rubato" a Nietzsche non intendo certo farne un alfiere della mia... prospettiva (appunto); anche perché notoriamente il suo pensiero presenta altrove impostazioni ben differenti dall'"illusorietà dell'io": volontà di potenza, oltre-uomo, etc. ho solo preso la palla al balzo, ma non voglio "tirare per i baffi" in questo discorso un autore che probabilmente non vorrebbe affatto entrarci e che, se non erro, non si è occupato di questa tematica.

P.p.s
@davintro
Concordo con il monito cartesiano, avevo infatti specificato che
Citazione di: Phil il 26 Aprile 2020, 17:06:31 PM
Sostenere che «l'io è illusione» [...] non equivale a sostenere che «l'io non esiste» che non equivale a sostenere che «io non esisto».
Per scorgere l'"illusione dell'io", come ben si addice alla sezione inerente la spiritualità, bisogna fare un passo indietro rispetto alla razionalità logica, come ci invita a fare il suddetto zen (rieccolo).

Lou

#57
Citazione di: Phil il 27 Aprile 2020, 16:14:29 PM
Con una probabile (auto)suggestione interpretativa, ho trovato una tanto inattesa quanto tempestiva risonanza con una citazione di Nietzsche postata oggi in altro topic:
Citazione di: Lou il 27 Aprile 2020, 14:52:50 PM
105. [...] Ma in ciò si ingannano: l'atomo che essi postulano è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva. [...] [I fisici] hanno tralasciato qualcosa nella costellazione senza saperlo: appunto il necessario prospettivismo, in virtù del quale ogni centro di forza – e non solo l'uomo – costruisce tutto il resto del mondo a partire da se stesso, cioè lo misura, lo modella, lo forma secondo la sua forza... Hanno dimenticato di calcolare nell' «essere vero» questa forza che pone prospettive... [...]

Passo tratto da i Frammenti Postumi. (italic mio)

Ebbene, salpando da questa citazione per andare lontano dal suo autore (che logicamente pone per vera la «forza che pone prospettive»), se il fulcro di tale prospettivismo è l'uomo, nel momento in cui tale prospettivismo si rivolge all'autocomprensione, l'idea che l'uomo si fa di sé stesso sarà a sua volta prospettica, ovvero una «finzione soggettiva» del soggetto che si guarda allo specchio e si identifica come tale (soggetto, io, etc.).
Al netto del concedere o meno una certa sfumatura tangente fra «finzione» e «illusione», non si ottiene forse una metafinzione in cui il soggetto stesso, nel vedersi prospetticamente come tale (soggetto, io, etc.) è inevitabilmente a sua volta una sua «finzione soggettiva»?
Da dove origina tale prospettiva, nel momento in cui si autoidentifica? Non può originare dall'io, dal soggetto, etc. perché essi sono il risultato prospettico della «finzione soggettiva». Che origini allora da uno "sguardo" non ancora soggettivizzato, ovvero privo di (auto)concettualizzazione, ovvero spontaneamente prelogico e senza identità? Tale sguardo potrebbe suggerire, non dimostrare, che l'io è un'illusione o, per dirla con Nietzche, che la finzione soggettiva non risparmia il soggetto stesso quando questi si pone nel suo stesso sguardo, inevitabilmente prospettico.

Beh direi che sono le stesse conclusioni a cui giunge Nietzsche, in una sua critica al "pensare" (credo abbia in mente Cartesio):

"[..]l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti - e probabilmente pura immaginazione. [..] Non si verifica mai un "pensare" come lo presuppongono i teorici della conoscenza: questo è una finzione affatto arbitraria, conseguita con l'isolamento dal processo di un unico elemento e con la sottrazione di tutti i rimanenti, una costruzione volta a permettere la comprensione...Lo "spirito": qualcosa, che pensa: [...]questa concezione è una seconda conseguenza derivata da una falsa osservazione di sé, che crede nel "pensiero": innanzitutto qui viene immaginato un atto, che non si verifica affatto, "il pensare" e in secondo luogo viene immaginato un soggetto-sostrato nel quale trova la propria origine ogni atto di questo pensare e nient'altro: cioè tanto l'azione quanto l'autore sono fittizi."

Un non atto di un non soggetto, è la frontiera del prospettivismo.

(grassetti miei)
"La verità è brutta. Noi abbiamo l'arte per non perire a causa della verità." F. Nietzsche

giopap

Secondo me si deve distinguere (mi rivolgo soprattutto a Davintro, ma mi sembra che anche altri lo seguano in questa che a mio parere é un' errata confusione) fra "intersoggettività" (termine che preferisco ad "oggettività" per ragioni che se spiegassi qui appesantirebbero troppo il discorso) e "realtà in sé" e fra "soggettività" e "realtà apparente o fenomenica" (e inoltre fra "meramente pensato" ed "effettivamente reale").

La materia (la res extensa) può essere postulata (non dimostrata) essere intersoggettiva, cioé in linea di principio interverificabile fra qualsiasi soggetto di esperienza cosciente: chiunque (salvo patologie egregiamente spiegabili), recandosi a Courtmayeur e guardando circa a nordovest in una giornata di cielo sereno, può vedere il monte Bianco.

Il pensiero (la res cogitans) no: i pensieri, sentimenti, "stati d' animo", ecc. di ciascun soggetto di esperienza cosciente possono essere verificati empiricamente solo ed esclusivamente da lui stesso, e gli altri possono credere esistano solo per fede nelle sue parole: "quando c' ho il mal di stomaco ce l' ho io, mica te, o no? Ce l' ho io, mica te, o no?" (Vasco Rossi).

Ma entrambe le cose, i fenomeni materiali e i fenomeni mentali, la res extensa e la res cogitans, sono reali solo e unicamente in quanto tali: fenomeni ovvero insiemi e successioni di sensazioni coscienti, realmente accadenti solo e unicamente nell' ambito di un' esperienza fenomenica cosciente "e basta"; quando non accadono non ci sono (ancora o più)


Un' ulteriore realtà in sé, persistentemente reale anche in assenza di fenomeni o sensazioni coscienti é bensì postulabile, credibile esserci (e ci sono "buoni motivi" per essere propensi a credere che ci sia) ma non é dimostrabile: l' ipotesi che non ci sia non é autocontraddittoria o insensata; né tantomeno, per definizione, é empiricamente verificabile. Ergo: in teoria potrebbe benissimo darsi sia reale.


Ma sia gli oggetti delle sensazioni "esteriori" o materiali, sia l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali, se realmente esistenti, sono (intesi essere come) cose in sé, per l' appunto reali anche allorché (anche se e quando) non sensibilmente, fenomenicamente percepite.

E l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali é quel che solitamente si definisce con il nominativo del pronome personale della prima persona singolare (io) o con l' accusativo di quello della terza (sé) a seconda dei casi.
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).

Phil

Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 09:40:47 AM
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).
Più che «per fede» (senza offesa per la sezione in cui siamo), essendo coinvolta comunque anche una certa autopercezione (con tutto il paradosso interpretativo che si porta dietro) direi per cultura e, più pragmaticamente, anche per linguaggio (che è sempre in rapporto dialettico con la cultura). Se si ragiona usando il linguaggio o le categorie del linguaggio (concordo con l'idea di fondo della tesi Sapir-Whorf, ma senza radicalizzarla), non può essere totalmente irrilevante se, ad esempio, l'arabo ha due forme per il «tu», una maschile, una femminile, per il «voi» e il «loro» ben tre (una maschile, una femminile, una generica, o meglio, di entrambi i generi), nel senso che, ad esempio, il dibattito sulle teorie gender tenderà a scontrersi con la tradizione (cultural-)linguistica araba anche linguisticamente più di quanto avvenga per i parlanti italiani (che discrimina solo «lui/lei», considerando «essi/esse» un po' desueto). Chiaramente, fra tante criticità del dibattito sulle teorie di gender, la questione strettamente linguistica non è certo la più condizionante o cruciale (non si modificano imprinting culturali retroattivamente semplicemente mettendo un asterisco al posto di un suffisso di genere). Parimenti, il fatto che Giapponesi e Vietnamiti abbiano una gestione "plurale" della prima persona singolare piuttosto differente dalla nostra (link), non può che rappresentare una interessante risorsa di senso già preinstallata nella lingua, che probabilmente paga dazio in una traducibilità che sacrifica, come quasi sempre, qualcosa del senso originario/originale in nome della comprensibilità.
Ripesco in merito una citazione da un video già richiamato da Ipazia:
Citazione di: Ipazia il 23 Aprile 2020, 11:21:42 AM
Carlo Sini ci convive bene con questa "illusione" e, un tantino sogghignante, ce la spiega con parole alate (...l'infinito spettacolo... la stratificazione... corpi, strumenti, discorsi...) qui dal minuto 43,30 al 45,30.
Al minuto 43:03 Sini afferma:
«La filosofia non è più sufficiente per guardare il discorso, perché anch'essa è un discorso. Che ha relazioni molto forti con il tempo in cui è nata, che ha relazioni molto forti con il tipo di scrittura che ne è scaturito o da cui è scaturita. Perché... Hegel l'aveva capito benissimo: se tu scrivi con gli ideogrammi, non puoi fare filosofia; e aveva ragione. Ma questo vuol dire che la filosofia non dice la verità dell'uomo... ne dice una certa, una figura transeunte, transitante... alla fine: chi parla qui?».
Non me ne vogliano né Sini né la buon'anima di Hegel, ma sospetto non solo che si possa far filosofia a prescindere dalla scrittura, quindi oralmente (senza nemmeno porsi il problema di poterla poi segnificare in ideogrammi o lettere o geroglifici), ma inoltre che, in caso di scrittura differente da quella alfabetica, non si tratti di non poter fare filosofia (senza indugiare sulla possibile rigidità escludente insita nel termine), ma semmai di poter fare una filosofia strutturalmente differente dalla "nostra", con tutti gli annessi problemi di traduzione linguistico-concettuale.
Sulla domanda finale di Sini (che qui si traveste quasi da koan) «chi parla qui?», credo di essermi già sbilanciato adeguatamente in questo topic: essendo posta in pieno domandare logico-filosofico, essendo un "io" a porre la domanda, la risposta "da manuale" non può che essere (l')«io»; almeno finché decidiamo di "stare al gioco" (ludere) del nostro linguaggio prospettico e della nostra cultura (anche per risparmiarci il rischio di essere "inquadrati" come "cerchi" «non sani di mente», salvando così l'apparenza, per il quieto vivere e il quieto discutere).


P.s.
@Lou
Grazie per aver riportato anche la seconda citazione di Nietzsche: conoscendolo poco, non mi aspettavo una sua schiettezza così coerentemente logica con la premessa posta dal prospettivismo; anche se, come sempre, suppongo che i suoi scritti frammentari non possano essere presi semplicemente alla lettera (quindi non mi arrischio a farlo).