il paradosso della teologia negativa

Aperto da davintro, 21 Aprile 2018, 16:30:54 PM

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davintro

La teologia negativa nel contesto del cristianesimo occidentale (da intendersi ora nei suoi aspetti generici, al di là delle differenti sfumature in cui è stata storicamente concepita) si base sulla contestazione alla positiva, accusata di ridurre Dio alla limitatezza della mente umana, pretendendo di applicare a Dio dei concetti tipicamente umani come "sapienza, "bontà" ecc. Di fatto la accusa di una mentalità antropocentrica che pretenderebbe di innalzare l'uomo al livello divino, annullando l'infinita distanza che li separa. Ma a mio avviso, nel considerare questi concetti come solo "tipicamente umani", la teologia negativa non si accorge di cadere nello stesso errore che imputa a quella positiva: l'antropocentrismo. Perché se i concetti con cui quest'ultima cerca di descrivere Dio fossero inappropriati perché "tipicamente umani" allora vorrebbe dire che l'uomo è in fondo il criterio assoluto di senso dei concetti che utilizza, cioè questi concetti al di là della sfera dell'esperienza umana non avrebbero senso, e quest'esperienza umana verrebbe assolutizzata, posta come unico ambito possibile entro cui questi concetti manterrebbero il loro significato. Ecco cancellata la distanza ontologica Dio-uomo, proprio sulla base delle premesse della teologia negativa! Se invece, contrariamente a tali premesse, i concetti con cui l'uomo parla di Dio avessero un significato che resta tale al di là della differenza tra sfera umana e divina, ecco che le cose cambiano. Dire che "Dio è buono" non sarebbe più un assoggettare l'idea di Dio a un concetto "tipicamente umano", ma una possibilità legittima, data dall'universalità del significato della "bontà" che resta qualitativamente lo stesso, che si parli di Dio o dell'uomo, anche se cambiano le proporzioni quantitative in cui la bontà è più o meno presente. Nell'utilizzare i concetti con cui descrivere Dio, la mente umana non pretenderebbe di esserne l'origine, assolutizzandosi, ma esprimerebbe la partecipazione all'ordine divino da cui deriverebbe la possibilità di usare concetti riferiti a qualità comuni a Dio e all'uomo. Ciò in quanto i concetti che utilizza non avrebbero la loro ragion d'essere da un' indipendente attività concettualizzatrice che si realizza storicamente,  ma da un legame di dipendenza con cui la mente e i concetti umani parteciperebbero in qualche misura con la mente divina, causa ultima della possibilità del pensare umane (poi le varie correnti interne alla teologia cristiana "positiva" si sbizzarriscono nel descrivere tale rapporto di dipendenza, dall'illuminazione interiore agostiniana, all'azione dell'Intelletto agente divino tomista, all'intermediazione dell'Idea dell'Essere rosminiana tra mente umana e Dio ecc.) E da tale partecipazione deriverebbe quel rapporto di proporzione e analogia (analogia, non identità), che rende possibile un discorso teologico POSITIVO, seppur limitato e imperfetto, dunque rispettante lo scarto Dio-uomo. Insomma, la teologia negativa sembra in un certo senso fondarsi su una polemica che, fosse seguita rigorosamente e coerentemente, dovrebbe anzitutto rivolgere contro se stessa, da qui il rilievo di una sua certa paradossalità. Concluderei per ora precisando che in questo contesto non mi interessa tanto considerare le eventuali ragioni o torti della teologia positiva nell'elaborazione delle soluzioni con cui intuisce il legame tra mente umana e Dio, ma più che altro la ragion d'essere di questa autocontraddizione che rilevo all'interno della critica che queste soluzioni subiscono da parte della teologia negativa.

Angelo Cannata

Credo che tu veda questo paradosso perché attribuisci alla teologia negativa la pretesa di risultare appropriata, rispetto a quella positiva, che risulterebbe inappropriata. La questione, così come l'hai impostata, viene inoltre a risultare viziata, perché fonda l'esprimibilità di Dio su concetti filosofici.

L'esprimibilità di Dio non si fonda né sul concetto di partecipazione, né sull'illuminazione interiore, né sull'intermediazione dell'idea di essere. Si fonda piuttosto sull'evento della rivelazione, che è iniziativa di Dio. Cioè, è stato Dio a decidere di rendersi esprimibile con parole umane sin da quando creò l'uomo; il culmine di questa decisione divina di rendersi raggiungibile dalla comprensione umana si è poi avuto nell'evento dell'incarnazione in Gesù Cristo. Ciò crea una differenza sostanziale: qualsiasi fondamento filosofico dell'esprimibilità di Dio può essere criticato, demolito, ma la decisione presa da Dio di rendersi comprensibile non può essere criticata, perché non si tratta di un concetto, un'idea, ma di un evento, un fatto accaduto.

Da ciò consegue ciò che ho detto all'inizio: la teologia negativa non può criticare quella positiva, perché quella positiva non si basa su idee, ma sulla decisione di Dio di rendersi comprensibile.

Difatti, ciò che fa la teologia negativa non è un autopresentarsi come più appropriata, accusando quella positiva di inadeguatezza. Ciò che fa la teologia negativa è piuttosto un recupero della memoria della trascendenza di Dio. Cioè dire, il fatto che Dio si sia incarnato in Gesù Cristo non implica che Dio abbia infine rinunciato alla propria trascendenza. Il fatto che Dio abbia deciso di comunicare con Adamo ed Eva non significa che egli abbia deciso di essere totalmente contenibile nelle parole umane. Perciò viene la teologia negativa a ricordarci che l'uomo, per potersi relazionare adeguatamente con Dio, ha bisogno anche di tener presente la sua trascendenza. Questo si riscontra già in Gesù stesso: nel vangelo troviamo punti in cui viene espressa la sua perfetta comunione con il Padre, ma anche punti in cui emerge che l'umanità di Gesù non è in grado, da sola, di essere espressione dell'intera divinità di Dio. I vangeli non si fanno scrupolo di evidenziare i limiti in cui Gesù si venne a trovare a causa del suo essere uomo, anche sotto forma di distanza dal Padre suo.

green demetr

Citazione di: davintro il 21 Aprile 2018, 16:30:54 PM
La teologia negativa nel contesto del cristianesimo occidentale (da intendersi ora nei suoi aspetti generici, al di là delle differenti sfumature in cui è stata storicamente concepita) si base sulla contestazione alla positiva, accusata di ridurre Dio alla limitatezza della mente umana, pretendendo di applicare a Dio dei concetti tipicamente umani come "sapienza, "bontà" ecc. Di fatto la accusa di una mentalità antropocentrica che pretenderebbe di innalzare l'uomo al livello divino, annullando l'infinita distanza che li separa. Ma a mio avviso, nel considerare questi concetti come solo "tipicamente umani", la teologia negativa non si accorge di cadere nello stesso errore che imputa a quella positiva: l'antropocentrismo. Perché se i concetti con cui quest'ultima cerca di descrivere Dio fossero inappropriati perché "tipicamente umani" allora vorrebbe dire che l'uomo è in fondo il criterio assoluto di senso dei concetti che utilizza, cioè questi concetti al di là della sfera dell'esperienza umana non avrebbero senso, e quest'esperienza umana verrebbe assolutizzata, posta come unico ambito possibile entro cui questi concetti manterrebbero il loro significato. Ecco cancellata la distanza ontologica Dio-uomo, proprio sulla base delle premesse della teologia negativa! Se invece, contrariamente a tali premesse, i concetti con cui l'uomo parla di Dio avessero un significato che resta tale al di là della differenza tra sfera umana e divina, ecco che le cose cambiano. Dire che "Dio è buono" non sarebbe più un assoggettare l'idea di Dio a un concetto "tipicamente umano", ma una possibilità legittima, data dall'universalità del significato della "bontà" che resta qualitativamente lo stesso, che si parli di Dio o dell'uomo, anche se cambiano le proporzioni quantitative in cui la bontà è più o meno presente. Nell'utilizzare i concetti con cui descrivere Dio, la mente umana non pretenderebbe di esserne l'origine, assolutizzandosi, ma esprimerebbe la partecipazione all'ordine divino da cui deriverebbe la possibilità di usare concetti riferiti a qualità comuni a Dio e all'uomo. Ciò in quanto i concetti che utilizza non avrebbero la loro ragion d'essere da un' indipendente attività concettualizzatrice che si realizza storicamente,  ma da un legame di dipendenza con cui la mente e i concetti umani parteciperebbero in qualche misura con la mente divina, causa ultima della possibilità del pensare umane (poi le varie correnti interne alla teologia cristiana "positiva" si sbizzarriscono nel descrivere tale rapporto di dipendenza, dall'illuminazione interiore agostiniana, all'azione dell'Intelletto agente divino tomista, all'intermediazione dell'Idea dell'Essere rosminiana tra mente umana e Dio ecc.) E da tale partecipazione deriverebbe quel rapporto di proporzione e analogia (analogia, non identità), che rende possibile un discorso teologico POSITIVO, seppur limitato e imperfetto, dunque rispettante lo scarto Dio-uomo. Insomma, la teologia negativa sembra in un certo senso fondarsi su una polemica che, fosse seguita rigorosamente e coerentemente, dovrebbe anzitutto rivolgere contro se stessa, da qui il rilievo di una sua certa paradossalità. Concluderei per ora precisando che in questo contesto non mi interessa tanto considerare le eventuali ragioni o torti della teologia positiva nell'elaborazione delle soluzioni con cui intuisce il legame tra mente umana e Dio, ma più che altro la ragion d'essere di questa autocontraddizione che rilevo all'interno della critica che queste soluzioni subiscono da parte della teologia negativa.

Dimentichi però un particolare colossale, che se è vero che non possiamo parlare di Dio, è però vero che Lui ha parlato a noi.

Si tratta di entrare in una dimensione dell'ascolto e non della critica.

In particolare modo, l'unico essere veramente accettabile è quello del suo faro, ossia del gesù terreno, in quanto voce del divino.

La teologia positiva invece continua a credere nella analogia entis, che finisce inevitabilmente nel nazismo, o in qualsiasi altro meccanismo della teologia politica, per i lettori più avveduti.

E' altrettanto vero per come sto leggendo (al solito a rilento, sono ancora nel ventennio del primo novecento) la teologia contemporanea, che il problema apostolico, dell'insegnar alle genti, costringe secondo alcuni teologi (tillich) ad aprire invece sulla mondanità necessariamente.
La differenza tra i protestanti e i cattolici è però sempre incolmabile, in quanto i cattolici non fanno alcuna critica.
E infatti tillich è comunque protestante ( o come si dice oggi evangelico).
Vai avanti tu che mi vien da ridere

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 21 Aprile 2018, 22:31:42 PM
Credo che tu veda questo paradosso perché attribuisci alla teologia negativa la pretesa di risultare appropriata, rispetto a quella positiva, che risulterebbe inappropriata. La questione, così come l'hai impostata, viene inoltre a risultare viziata, perché fonda l'esprimibilità di Dio su concetti filosofici.

L'esprimibilità di Dio non si fonda né sul concetto di partecipazione, né sull'illuminazione interiore, né sull'intermediazione dell'idea di essere. Si fonda piuttosto sull'evento della rivelazione, che è iniziativa di Dio. Cioè, è stato Dio a decidere di rendersi esprimibile con parole umane sin da quando creò l'uomo; il culmine di questa decisione divina di rendersi raggiungibile dalla comprensione umana si è poi avuto nell'evento dell'incarnazione in Gesù Cristo. Ciò crea una differenza sostanziale: qualsiasi fondamento filosofico dell'esprimibilità di Dio può essere criticato, demolito, ma la decisione presa da Dio di rendersi comprensibile non può essere criticata, perché non si tratta di un concetto, un'idea, ma di un evento, un fatto accaduto.

Da ciò consegue ciò che ho detto all'inizio: la teologia negativa non può criticare quella positiva, perché quella positiva non si basa su idee, ma sulla decisione di Dio di rendersi comprensibile.

Difatti, ciò che fa la teologia negativa non è un autopresentarsi come più appropriata, accusando quella positiva di inadeguatezza. Ciò che fa la teologia negativa è piuttosto un recupero della memoria della trascendenza di Dio. Cioè dire, il fatto che Dio si sia incarnato in Gesù Cristo non implica che Dio abbia infine rinunciato alla propria trascendenza. Il fatto che Dio abbia deciso di comunicare con Adamo ed Eva non significa che egli abbia deciso di essere totalmente contenibile nelle parole umane. Perciò viene la teologia negativa a ricordarci che l'uomo, per potersi relazionare adeguatamente con Dio, ha bisogno anche di tener presente la sua trascendenza. Questo si riscontra già in Gesù stesso: nel vangelo troviamo punti in cui viene espressa la sua perfetta comunione con il Padre, ma anche punti in cui emerge che l'umanità di Gesù non è in grado, da sola, di essere espressione dell'intera divinità di Dio. I vangeli non si fanno scrupolo di evidenziare i limiti in cui Gesù si venne a trovare a causa del suo essere uomo, anche sotto forma di distanza dal Padre suo.

Concordo per una volta su tutto  ;)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

l'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia  né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto.  Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua

Angelo Cannata

Si tratta di vedere in che modo il momento "ascendente" si è sviluppato storicamente.

Storicamente si è sviluppato proprio come l'hai descritto nel messaggio iniziale, cioè come pretesa di poter definire un'idea oggettiva, universale, di "bontà", idea che sarebbe nientemeno che partecipazione all'ordine divino.

In questo senso la teologia negativa non è soltanto un avviso per non dimenticare ciò che di Dio rimane indicibile; essa è anche critica contro la pretesa di poter stabilire idee filosofiche oggettive che addirittura si autopresentano come partecipazione all'ordine divino.

La base di tale critica è quella che hai detto: si tratta in realtà di idee umane.

Tu hai presentato una contro-critica, mostrando che qualsiasi smascheramento dell'umano non può essere fatto se non anch'esso in nome dell'umano, il che viene a significare porre l'umano come fondamento del giudizio, mentre ciò doveva essere proprio l'oggetto della critica.

C'è in questo il solito malinteso in cui si cade quando si critica il relativismo, cioè quando si accusa il relativismo di pretendere di stabilire una verità assoluta nel momento in cui afferma che tutto è relativo. Così come il relativismo sembra assolutizzare sé stesso, e quindi contraddirsi, nel momento, in cui sostiene che tutto è relativo, allo stesso modo la critica "umano, troppo umano", rivolta alla teologia positiva, può essere accusata di assolutizzare sé stessa, assolutizzare l'umano.

Questo malinteso si verifica nel momento in cui il relativismo viene considerato come presa di posizione stabile, quindi guardato ancora con mentalità metafisica, invece che come parte di un processo storico.

A proposito del relativismo, ho già mostrato che esso è in realtà un approdo della metafisica e non una posizione alternativa ad essa, nata autonomamente.

La stessa cosa può essere mostrata riguardo alla teologia positiva.

Nel momento in cui si pensi di considerare un'idea, come per esempio l'idea di bontà, come idea dal significato universale, e quindi oggettivo, se vogliamo essere coerenti dobbiamo rispettare tale universalità. Universalità significa tener conto di tutto e di tutti. Significa, di conseguenza, non sottrarsi alla necessità di tener conto anche del fatto che tutte le volte che parliamo di universalità c'è sempre qualcuno che ne sta parlando; tutte le volte che pensiamo universalità c'è sempre qualcuno che la sta pensando. Non è possibile pensare una cosa senza pensarla. Sembra un'affermazione perfino comica, tale è la sua elementarità, ma a quanto pare, a dispetto, o forse proprio a causa, della sua troppa elementarità e ovvietà, risulta difficile da accettare per molti.
Se non è possibile pensare una cosa senza pensarla, consegue che non è possibile pensare idee che non siano tutte le volte condizionate dai soggetti che le stanno pensando. Da ciò che segue che qualsiasi idea che vogliamo immaginare come universale sarà universale solo ignorando la sua dipendenza da noi, cioè ignorando proprio una delle sue caratteristiche necessarie per poter rispettare tutta la sua universalità. In sintesi, un'idea può essere pensata come universale solo pensandola in maniera non universale.

È importante renderci conto che non arriviamo a ciò assolutizzando l'umano, ma semplicemente portando avanti con coerenza l'ipotesi di poter pensare qualcosa come universale. Quindi non è l'umano che, assolutizzando sé stesso, pretenderebbe di relativizzare tutto; è l'universale ad essere costretto a relativizzare sé stesso se pensato con coerenza, senza omissioni, senza reticenze.

Ecco la radice di ciò che a te sembra paradosso della teologia negativa: è lo stesso paradosso in cui secondo alcuni cade il relativismo nel momento in cui sostiene che tutto è relativo.

viator

Salve. L'enunciato "tutto è relativo" è debolissimo e mostra aspetti contradditori e paradossali, come giustamente fatto notare qui oggi stesso. Ciò è dovuto non al fatto che esso sia errato bensì alla sua incompletezza.

Le affermazioni troppo lapidarie purtroppo soffrono spesso della sindrome dell'incompletezza.

C'è il caso in cui ad un famoso alpinista venne posta da un giornalista la (stucchevolissima perché ad uso delle anime semplici) domanda : "Perché, nonostante le robuste fatiche ed i temibili rischi, Lei va in montagna ?".
La risposta dell'alpinista fu "Perché è là".

Meravigliosa replica che non dice nulla ai profani mentre afferma l'ovvietà per chi ama la montagna.

Essa è tanto profonda quanto incomprensibile poiché è incompleta, appunto.

La risposta completa avrebbe dovuto essere : "Perché è là,........ e solo lassù è la verità" (la verità su chi siamo, quanto valiamo, sul nostro discendere dalla -ed appartenere alla- natura, sul legame tra l'immanenza di una rupe e la trascendenza della sua sommità.......).

Così l'affermazione "tutto è relativo" perderà la sua incompletezza e paradossalità solo se completata :
"Ciascuna cosa è relativa, e l'insieme di tutti i relativi consiste nell'assoluto".
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Angelo Cannata

Citazione di: viator il 23 Aprile 2018, 21:10:55 PMCosì l'affermazione "tutto è relativo" perderà la sua incompletezza e paradossalità solo se completata :
"Ciascuna cosa è relativa, e l'insieme di tutti i relativi consiste nell'assoluto".
Più che completata mi sembra che così venga resa contraddittoria: come fai a parlare di assoluto, visto che appena l'hai pensato non è più assoluto?

green demetr

Citazione di: davintro il 22 Aprile 2018, 23:37:58 PM
l'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia  né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto.  Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua


Quella che descrivi è una teologia positiva.

Ma la teologia negativa invece NEGA qualsiasi possibilità di avvicinarsi a DIO.

Per questo nel novecento la DOGMATICA acquista un peso rilevante.

Ma la DOGMATICA non ti dà alcuna certezza di Salvezza.

Credere nel dogma come salvezza, è il motivo per cui la chiesa sta perdendo potere.

(karl Barth)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

Citazione di: green demetr il 28 Aprile 2018, 15:13:41 PM
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2018, 23:37:58 PMl'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto. Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua
Quella che descrivi è una teologia positiva. Ma la teologia negativa invece NEGA qualsiasi possibilità di avvicinarsi a DIO. Per questo nel novecento la DOGMATICA acquista un peso rilevante. Ma la DOGMATICA non ti dà alcuna certezza di Salvezza. Credere nel dogma come salvezza, è il motivo per cui la chiesa sta perdendo potere. (karl Barth)


A questo punto la domanda che verrebbe da chiedermi sarebbe: cosa resta dell'idea, fondamentale per tutto il pensiero cristiano (al di là delle spinose diatribe su quanto tale idea sia compatibile con altri assunti dogmatici come l'onnipotenza o l'onniscienza divina, che forse ora ci porterebbero troppo lontano nell'essere seguite), del libero arbitrio? L'impossibilità per l'uomo di avvicinarsi a Dio, lo ridurrebbe a passivo contenitore della rivelazione divina senza nessun libero assenso. Ma la fede stessa senza alcun aspetto di libertà e attività del credente non potrebbe avere alcun senso, la fede, anche riferita all'esistenza di un trascendente, resta pur sempre un atto intenzionale, con cui l'io del credente si rivolge a un oggetto, che può rivelarsi alla sua coscienza a condizione di ricevere da essa dei significati, che nel loro essere attributi all'oggetto, svelano il carattere di attività libera del soggetto intenzionante. Per definizione, credere non è dimostrare, ma non vedo come possa non implicare un certo livello di conoscenza di ciò a cui si crede. Si crede in qualcosa perché quel "qualcosa" a cui  si crede è costituito da proprietà che ne rendono credibile l'esistenza, e per riconoscerne le proprietà, devo averne una rappresentazione, e per elaborarne la rappresentazione l'intelletto deve avere la possibilità di dirigersi verso l'oggetto, formandosi un'idea di esso che sia credibile. Tutto questo implica un moto ascensivo di un uomo che cerca di avvicinarsi a Dio, pur nella consapevolezza dell'infinita irriducibilità della distanza che separa la rappresentazione umana di Dio dalla realtà in sé di Dio. Rifiutando tutto ciò la teologia negativa, non solo si contrapporrebbe alla teologia negativa, ma si preclude anche la possibilità di legittimare una rappresentazione di Dio minimamente sufficiente a porla come idea di un ente trascendente ed irriducibile alle pretese di comprensione della ragione umana. In fondo la stessa posizione del trascendente, sulla base del quale la teologia negativa fa derivare la distanza infinita e incolmabile uomo-Dio, presuppone pur sempre che l'uomo maturi un'idea di Dio coerente con tale trascendenza, cioè un Dio determinato in un modo anziché in altri, e dunque soggetto a cui attribuire delle proprietà in fondo positive, cioè che affermano qualcosa di Dio per escluderne concezioni improprie, ed elaborate dall'intelletto, che offre alla fede un contenuto che poi tramite questa si ritiene credibile. Quindi, nella misura in cui anche la teologia negativa, seppur in modo concorrenziale rispetto a quella positiva, elabora una certa idea di Dio, necessita per determinarla di una certa positività, inevitabilmente

Angelo Cannata

Infatti green demetr ha scritto affermazioni che sono del tutto false, o tutt'al più sue esclusive opinioni.

Non è vero che la teologia negativa neghi qualsiasi possibilità di avvicinarsi a Dio.

Non è vero che la dogmatica non dia alcuna certezza di salvezza.

Non è vero che la Chiesa creda nel dogma come salvezza.

viator

Salve. Per Angelo Cannata: Ci risiamo. Scusa Angelo, ma non posso pensare che certi tuoi commenti (vedi tua ultima citazione su di me del 23/04) siano sinceramente considerati da te come frutto di una qualche logica: a questo punto credo che ti piaccia provocare confidando nell'ingenuità / incapacità dei tuoi interlocutori.

Fingi di ignorare che 'assoluto fa parte della (anzi E' la-) realtà esistente mentre il citarlo è una delle infinite relatività nessuna delle quali ha il potere né di farlo esistere né di negarlo o cancellarlo. Salutoni.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Angelo Cannata

Le affermazioni che ho scritto nel mio messaggio precedente non sono metafisiche, non si riferiscono a verità inossidabili, sono affermazioni storiche, scientifiche. È come se dicessi che Garibaldi è esistito: non lo direi in senso metafisico, ma in senso storico, scientifico.

green demetr

Citazione di: davintro il 01 Maggio 2018, 18:10:47 PM
Citazione di: green demetr il 28 Aprile 2018, 15:13:41 PM
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2018, 23:37:58 PMl'aspetto della rivelazione divina che si manifesterebbe storicamente all'uomo è un tratto basilare del cristianesimo che né la teologia né quella negativa sono interessate a contestare. Ma per quanto riguarda il contesto qua specificatamente in questione, il cristianesimo, mi pare che esso abbia sempre identificato la relazione uomo-Dio, esistenziale o conoscitiva che sia, come "incontro". L'incontro è la conseguenza di due cammini di due persone che accorciano progressivamente la distanza che li separa, pur senza annullarla, e non l'invasione di uno dei due della sfera vitale dell'altro, annullando la sua libertà. Ciò in virtù di un altro dei capisaldi della teologia e antropologia cristiana, vale a dire il "libero arbitrio", per il quale l'uomo non è spettatore passivo, mero terminale dell'infusione dei contenuti religiosi rivelati dall'altro, ma persona libera e razionale, capace di rielaborare e interpretare questi contenuti sulla base dei propri parametri soggettivi di giudizio, nonché del contesto storico in cui vive, per poi poter viverli con maggiore concretezza nella propria personale situazione esistenziale (del resto se così non fosse, dovremmo vedere come del tutto insensata la polemica del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov, diretta ad accusare Gesù di aver preteso dagli uomini di essere seguito liberamente e responsabilmente, anziché far leva su un'autorità tirannica e sovrastante come la Chiesa dell'Inquisizione spagnola...). Credo che anche il più ultrafideista dei cristiani ritenga che una fede autentica non possa limitarsi a richiedere al credente un puro sentimento prodotto dalla passiva adesione a un contenuto dottrinario, ma che debba sempre implicare un atteggiamento attivo e responsabile che porta il credente ad agire in modo coerente, cercando di essere in qualche modo di farsi degno della grazia divina, in modo libero appunto. Tutto questo mostra come l'aspetto "discensivo" della rivelazione non esclude affatto un momento "ascensivo", nel quale l'uomo mira ad accorciare la distanza che lo separa da Dio, sono due momenti che nel cristianesimo non sono contradditori, ma complementari, cioè atti a determinare l'evento dell' "incontro", indipendentemente dal fatto che tale ascensività sia guidata dalla razionalità concettuale o dalla fede come esperienza vitale-sentimentale. L' uomo può cercare di avvicinarsi a Dio sia dal punto di vista della fede che della ragione e per questo nel contesto cristiano sia la teologia negativa che quella positiva, entrambi accoglienti la rivelazione, possono riconoscere anche la possibilità di una dinamica libera che vede l'uomo attivo e non passivo nella ricerca di un'esistenza in armonia con Dio. Da un lato, anche nell'esperienza di fede, a cui la teologia negativa attribuisce centralità, il credente sviluppa un'idea di Dio costituita da categorie in fondo "positive", che hanno un senso anche per l'uomo, e d'altra parte la teologia positiva, come nel tomismo, è attenta a distinguere all'interno della scienza divina un sapere a cui può pervenire la ragione umana autonomomamente (i preambula fidei), e una componente inattingibile alla razionalità, che si può accettare solo per fede nella rivelazione, rivelazione che resta così evento fondamentale anche per essa. Quindi mi pare che il riferimento alla rivelazione non tocchi la ragion d'essere della diatriba tra teologia positiva e negativa, che resta invece una diatriba riguardante la sfera epistemologica e filosofica (non dottrinaria-dogmatica, dunque) sulla legittimità di utilizzare dei concetti come mediazioni tra immanenza e trascendenza, lasciando inalterati gli specifici significati). Quindi il richiamo a tener conto della rivelazione, pur fecondo di tante implicazioni attigue alla discussione, non sposta a mio avviso più di tanto i termini del problema come mi interessava impostarlo qua
Quella che descrivi è una teologia positiva. Ma la teologia negativa invece NEGA qualsiasi possibilità di avvicinarsi a DIO. Per questo nel novecento la DOGMATICA acquista un peso rilevante. Ma la DOGMATICA non ti dà alcuna certezza di Salvezza. Credere nel dogma come salvezza, è il motivo per cui la chiesa sta perdendo potere. (karl Barth)


A questo punto la domanda che verrebbe da chiedermi sarebbe: cosa resta dell'idea, fondamentale per tutto il pensiero cristiano (al di là delle spinose diatribe su quanto tale idea sia compatibile con altri assunti dogmatici come l'onnipotenza o l'onniscienza divina, che forse ora ci porterebbero troppo lontano nell'essere seguite), del libero arbitrio? L'impossibilità per l'uomo di avvicinarsi a Dio, lo ridurrebbe a passivo contenitore della rivelazione divina senza nessun libero assenso. Ma la fede stessa senza alcun aspetto di libertà e attività del credente non potrebbe avere alcun senso, la fede, anche riferita all'esistenza di un trascendente, resta pur sempre un atto intenzionale, con cui l'io del credente si rivolge a un oggetto, che può rivelarsi alla sua coscienza a condizione di ricevere da essa dei significati, che nel loro essere attributi all'oggetto, svelano il carattere di attività libera del soggetto intenzionante. Per definizione, credere non è dimostrare, ma non vedo come possa non implicare un certo livello di conoscenza di ciò a cui si crede. Si crede in qualcosa perché quel "qualcosa" a cui  si crede è costituito da proprietà che ne rendono credibile l'esistenza, e per riconoscerne le proprietà, devo averne una rappresentazione, e per elaborarne la rappresentazione l'intelletto deve avere la possibilità di dirigersi verso l'oggetto, formandosi un'idea di esso che sia credibile. Tutto questo implica un moto ascensivo di un uomo che cerca di avvicinarsi a Dio, pur nella consapevolezza dell'infinita irriducibilità della distanza che separa la rappresentazione umana di Dio dalla realtà in sé di Dio. Rifiutando tutto ciò la teologia negativa, non solo si contrapporrebbe alla teologia negativa, ma si preclude anche la possibilità di legittimare una rappresentazione di Dio minimamente sufficiente a porla come idea di un ente trascendente ed irriducibile alle pretese di comprensione della ragione umana. In fondo la stessa posizione del trascendente, sulla base del quale la teologia negativa fa derivare la distanza infinita e incolmabile uomo-Dio, presuppone pur sempre che l'uomo maturi un'idea di Dio coerente con tale trascendenza, cioè un Dio determinato in un modo anziché in altri, e dunque soggetto a cui attribuire delle proprietà in fondo positive, cioè che affermano qualcosa di Dio per escluderne concezioni improprie, ed elaborate dall'intelletto, che offre alla fede un contenuto che poi tramite questa si ritiene credibile. Quindi, nella misura in cui anche la teologia negativa, seppur in modo concorrenziale rispetto a quella positiva, elabora una certa idea di Dio, necessita per determinarla di una certa positività, inevitabilmente

E' proprio perchè non possiamo avere idea, e quindi conoscenza di Dio, che non rimane che affidarsi alla dogmatica.

Ed è proprio la dogmatica della teologia che fa notare come il trono di Dio sia invisibile.

Ovviamente servirebbe addentrarsi nel discorso di Barth. Cosa che non mancherò di fare in quanto mi interessa sommamente.

La trascendenza non ha alcuna attinenza con la logica o la conoscenza.
A mio avviso la strada lanciata da Husserl è scorretta.

Non a caso preferisco Heidegger, a pelle, vi sono cose sui cui concordo con lui, anche senza approfondimento.

La trascendenza attinge alla medianità che siamo noi.
Cioè al massimo la conoscenza dell'ente, che siamo noi, è la consocenze dell'ente che non è ente, in quanto essente PER l'essere.

E' una questione di intuizioni originarie, non di analisi logica.

Vai avanti tu che mi vien da ridere

green demetr

Citazione di: Angelo Cannata il 01 Maggio 2018, 18:58:48 PM
Infatti green demetr ha scritto affermazioni che sono del tutto false, o tutt'al più sue esclusive opinioni.

Non è vero che la teologia negativa neghi qualsiasi possibilità di avvicinarsi a Dio.

Non è vero che la dogmatica non dia alcuna certezza di salvezza.

Non è vero che la Chiesa creda nel dogma come salvezza.

Intendevo conoscenza di Dio, la vicinanza al DIO è invece quantomeno un pre-requisito che voi atei non avete....quindi lascia perdere che fai meglio!
La dogmatica non dà alcuna certezza di salvezza: confermo. In quanto la dogmatica è la folle idea di rendere LEGALE qualcosa che non lo E' di suo.

Ma queste sono le conseguenza nefande del cristo pneumatico paolino.

Grazie a Dio vi sono teologi che hanno ancora un anima.

In che senso la chiesa non crede nel dogma come salvezza....
Ma il Cristo non è venuto a salvarci tutti???
Siamo alle solite con le bugie.




Vai avanti tu che mi vien da ridere

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