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2 Novembre

Aperto da doxa, 02 Novembre 2023, 13:56:45 PM

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2 novembre: la Chiesa cattolica dedica questa giornata alla commemorazione dei defunti. I credenti pregano per le loro "anime".  La festività religiosa è basata nella fede della resurrezione dei morti. 
La tradizione vuole la visita al cimitero per deporre fiori, in particolare i crisantemi, che fioriscono in questo periodo dell'anno.

"De mortuis nil nisi bonum dicendum est": (= "dei morti nulla si dica se non il bene"), come segno di pietas nei confronti del "de cuius".

La poetessa Alda Merini nei versi finali di una sua lunga poesia scrisse: "Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini".

Il distacco dalla persona amata è sempre lacerante e non incoraggia la giustificazione consolatrice della caducità della vita.

Le parole iniziali del Salmo 130 (129), che si recita nella liturgia per i defunti e in suffragio dei "trapassati a miglior vita": "De profundis clamavi ad te, Domine; / Domine, exaudi vocem meam." (= Dal profondo a te grido, o Signore; / Signore, ascolta la mia voce).

Leggendo queste parole sembra che sia il defunto stesso a recitare la frase nel suo passaggio dalla vita terrena alla cosiddetta "vita eterna".

Ma cosa ci accade quando perdiamo chi abbiamo profondamente amato? Quale vuoto si spalanca?

Lo psicoanalista Massimo Recalcati nel suo libro titolato "La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia", evidenzia il rapporto della vita con l'esperienza traumatica della perdita di una persona (ma anche un animale o una cosa) che dava significato alla propria vita.

Di questo libro ho argomentato in un altro topic.

Recalcati evidenzia che la vita di ognuno è segnata dalle perdite, non solo le morti delle persone care, ma anche da altri eventi: la separazione, l'abbandono, il tradimento, la perdita di ideali che si sono rivelati fallimentari. Ogni esperienza di sconfitta o di perdita, fa vacillare il significato del proprio mondo.

Quale reazione emotiva ed elaborazione psicologica del lutto ci attende per ritornare a vivere?

Secondo Recalcati si reagisce al lutto con due diverse modalità nostalgiche.

La prima modalità è la nostalgia-rimpianto, che cronicizza il lutto, idealizza la perdita, inchioda al ricordo: "può essere un amore, può essere una persona cara scomparsa, può essere anche la nostra stessa giovinezza o la vigoria del nostro corpo che negli anni non è più la stessa".

Sono ricordi indelebili, parole indimenticabili, profumi inconfondibili, tempi di gioia e di dolore, ma anche gesti quotidiani che restano scolpiti nella nostra memoria.

Questo tipo di atteggiamento nostalgico induce a pensare al passato ma blocca il divenire. "Il passato diventa una calamita che ci sequestra, che ci trattiene, e allora viene meno l'orizzonte dell'avvenire. La nostra vita è tutta all'indietro".

Il lutto e la nostalgia sono due esempi di come possiamo restare vicini con il ricordo a ciò che abbiamo perduto senza però farci sopraffare dal dolore, ma devono diventare risorsa per avere la volontà di ricominciare.

La seconda modalità è la nostalgia-gratitudine: necessita di tempo e dolore per la lenta separazione dall'oggetto perduto, che non è mai completa. Portiamo sempre con noi i nostri innumerevoli morti per quello che ci hanno dato: gli insegnamenti, le parole e i gesti che ci hanno lasciato.

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Vi è capitato di riflettere sull'estetica delle rovine archeologiche come simbolo di morte ?
 
 Gli edifici in rovina, siano essi antichi monumenti diroccati ma anche palazzi in abbandono, invasi dalla vegetazione che penetra tra le crepe delle pietre, offrono la visione dell'ineluttabile precarietà, la testimonianza del tempo che passa.
 
 Nel '700, in particolare, le rovine di epoca romana furono ritratte da pittori e incisori: templi crollati, colonne, resti di abitazioni. Di quel che furono, poderosi edifici, offrono allo sguardo la silenziosa malinconia.


 Johann Heinrich Füssli, l'artista è commosso dalla grandezza delle rovine antiche, 1778-80, sanguigna e seppia, Kunsthaus, Zurigo.
 
 


 Rovine nel parco archeologico di Selinunte. Sullo sfondo, il Tempio di Era, della prima metà del V sec. a.C..
 
 
Nel 1517 papa Leone X per far continuare la costruzione della nuova basilica di San Pietro, iniziata il 18 aprile 1506 durante il pontificato di papa Giulio II, non avendo il denaro necessario istituì una speciale indulgenza per coloro che avessero fatto un'offerta.

 Inoltre, per accelerare i lavori fece depredare numerosi monumenti dell'antica Roma.
 
 Nel 1519 il famoso pittore e architetto rinascimentale Raffaello Sanzio per difendere quei resti monumentali dalle spoliazioni da parte di nobili, cardinali ed anche pontefici per la costruzione di altre dimore o chiese, scrisse una lettera al papa Leone X per porre fine alla rovina arrecata ai resti della Roma imperiale "dalla scielerata rabbia et crudel'impeto di malvaggi huomini".
 
 Per elaborare la lettera Raffaello chiese l'aiuto del suo amico Baldassarre Castiglione, il quale mise in elegante prosa volgare i sentimenti appassionati e i progetti visionari concepiti dall'amico artista su "quella nobil patria, che è stata regina del mondo".
 
 Raffaello, a cui era affidata la direzione del cantiere per la nuova basilica di San Pietro, avvertiva la profonda contraddizione tra le esigenze del papa e il proprio convincimento circa la necessità di risparmiare le rovine del passato nella città. Da questa constatazione l'appello di Raffaello per la sistematica documentazione della Roma antica superstite, secondo gli insegnamenti di Vitruvio e di Leon Battista Alberti.
 
 La lettera sarebbe stata concepita da Raffaello come reazione "emozionale e ragionata" all'asportazione dei ruderi, a cui l'artista stesso era stato costretto, nella speranza di riuscire a trasformare un papa "ruinante" in un papa conservatore dei monumenti.
 
 Le speranze dell'artista erano destinate a cadere con la sua morte, avvenuta a Roma alle ore tre nella notte del Venerdì Santo del 6 aprile 1520. Aveva 37 anni.
 
 Fu sepolto nel Pantheon, ai piedi della Madonna del Sasso: opera scolpita dal suo allievo Lorenzetto.
 
 Il cardinale scrittore e umanista Pietro Bembo, suo grande amico, volle scrivere l'epitaffio che fu poi inciso sulla tomba nel Pantheon:
"Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori" (= "Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d'essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire".
 

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Il pittore e architetto Herman Posthumus (nato nel 1512 circa nella Frisia orientale e morto nel 1588 ad Amsterdam) nel 1536 realizzò questo dipinto: un immaginario paesaggio di epoca romana con rovine, da lui ideato durante il suo soggiorno a Roma.


Herman Posthumus, Tempus edax rerum, olio su tela, 1536, Museo Liechtenstein, Vienna.

La locuzione latina "Tempus edax rerum" (= "Il tempo che tutto divora") è tratta dal verso 234 del XV libro delle "Metamorfosi" di Ovidio":

"tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas,
omnia destruitis vitiataque dentibus aevi
paulatim lenta consumitis omnia morte!"



Il pittore Posthumus usò l'inizio della frase come titolo del suo dipinto. Il parziale enunciato è visibile in primo piano, scritto in stampatello e in lingua latina su un  blocco di marmo.


particolare del paesaggio con rovine (Tempus edax rerum).

Le rovine dei monumenti capovolgono il concetto di perfezione formale e compiutezza dell'opera d'arte, fanno riflettere sulla caducità, su un passato non più recuperabile, comunque le ammiriamo nonostante il deperimento. Ecco perché ci piace la Venere di Milo così com'è.


il pittore si è autorappresentato (?) mentre osserva e misura la base di una colonna per il riuso come materiale edilizio di una nuova costruzione.

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Un aforisma attribuito a Ippocrate, medico greco del V sec. a. C., dice: "la vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione fuggevole, l'esperimento pericoloso, il giudizio difficile".

L'aforisma è spesso citato in forma concisa: "Vita brevis, ars longa", con evidente richiamo a Seneca nel dialogo "De brevitate vita" (1, 1), però, al contrario del titolo, il filosofo dice: "l'esistenza umana non è breve, ma viene resa tale dalla nostra incapacità di adoperare il tempo che ci è stato assegnato in maniera proficua. Molti infatti sprecano i propri giorni...".

La locuzione ippocratica mi evoca sia l'epicedio (nell'antica Grecia il canto di accompagnamento del defunto; per estensione, lamento funebre, componimento funebre) sia il brano musicale titolato "Metamorphosen", composto da Richard Strauss nel 1945. E' una malinconica e meditativa elegia di compianto con 23 strumenti musicali ad arco: 10 violini, 5 viole, 5 violoncelli, 3 contrabbassi.

Strauss in quel periodo era a Garmisch-Partenkirchen, nel Land della Baviera (in Germania), a circa 10 km dal confine con l'Austria).

Lesse sul giornale che il giorno precedente (12 marzo 1945) la Staatsoper (Teatro dell'opera) di Vienna era stata devastata dalle bombe lanciate da un aereo inglese della RAf. In quel teatro erano state rappresentate le sue opere.

Consapevole che da quelle rovine non poteva rinascere quel mondo da lui conosciuto e quella civiltà musicale a lui cara, colmo di tristezza si mise a comporre "Metamorphosen", riunendo i suoi abbozzi precedenti. La composizione musicale definitiva la elaborò in un mese, terminata il 12 aprile 1945.

Nell'ultima parte, quando ogni canto si estingue nella rammemorazione di ciò che fu, Strauss cita un tema (proposto da tre violoncelli e tre contrabbassi) della Sinfonia Eroica di Beethoven, l'attacco della Marcia Funebre.

La prima esecuzione di Metamorphosen" fu a Zurigo il 21 gennaio 1946.

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Oggi è giorno di meditazione della morte e  il sacerdote durante la celebrazione della Messa chiede a Dio: "Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che si affidano alla tua clemenza: ammettili a godere la luce del tuo volto".
 
Il filosofo e matematico  greco Crisippo di Soli (280 a. C. circa – 208 a. C. circa), che  ad Atene  diresse la scuola filosofica dello Stoicismo, diceva che l'individuo deve imparare a convivere con la prospettiva di dover morire. O. K.,  ma avere "i giorni contati" ed esserne consapevole è una  sensazione complicata e difficile da accettare.
 
Nella prima metà del XV secolo  fu elaborato un genere letterario denominato "Ars moriendi" (l'arte di morire) con suggerimenti e procedure per la "buona morte" secondo i precetti cristiani.
 
La sua popolarità era tale che fu tradotta nella maggior parte delle lingue  europee.
 
La necessità di prepararsi alla propria morte era nota nella  letteratura medievale, ma prima del XV secolo non c'era la tradizione sul come morire bene e come fare.
 
L'Ars moriendi fu la risposta innovativa della  Chiesa cattolica  alle mutate condizioni sociali causate dalla peste nera. Il clero  era stato duramente colpito. Per reintegrare l'organico ci sarebbero volute generazioni per sostituire tutti i sacerdoti sia in quantità che in qualità.
 
Il testo dell'Ars moriendi   con le immagini aveva la funzione di "prontuario": insegnava al popolo come fare una buona morte e le regole utili per andare in Paradiso.
 

Angeli ed  altre entità assistono all'agonia di un moribondo. Notare sulla sinistra anche la presenza del diavolo provvisto di corna: è l'uomo barbuto vicino la testiera del letto.
 
In origine  dell'Ars moriendi furono elaborare due versioni: una breve ed un'altra lunga,  quest'ultima  con 11 xilografie  istruttive, in modo da poter essere spiegata e memorizzata facilmente.
 
La versione originale "lunga", chiamata "Tractatus (o Speculum) artis bene moriendi", fu scritta nel 1415 da un  anonimo frate  domenicano.
 

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