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Utopia

Aperto da Eutidemo, 18 Settembre 2024, 17:27:44 PM

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Eutidemo

Il termine "UTOPIA" è stato coniato da Tommaso Moro nella sua famosa opera, scritta nel 1516, dal titolo: "De optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia".
E, circa il nome di tale "Insula", lo stesso Moro, nell'opera citata, scrive: "Gli antichi mi chiamarono UTOPIA per il mio isolamento; adesso sono emula della repubblica di Platone, e forse la supero (infatti ciò che quella a parole ha tratteggiato, io sola lo attuo con le persone, i beni, le ottime leggi), sicché a buon diritto merito di esser chiamata EUTOPIA".
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Ed infatti il termine "Utopìa" può benissimo derivare dalle  parole greche:
- "εὐ", che significa "buon" (o bene);
- "τόπος", che significa "luogo".
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Però, a ben vedere il termine "Utopìa" può derivare anche dalle  parole greche:
- "οὐ", che significa "non";
- "τόπος", che significa "luogo".
Per cui  "Utopìa" significa anche "luogo che non esiste"; un po' come  l'"Isola che non c'è" di Peter Pan, così come denominata da di James Matthew Barrie.
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Da notare, peraltro, a livello di "pronuncia", che in greco:
- "εὐ" si legge "eu", quindi, "Buon Luogo" si pronuncia EUTOPIA;
- "οὐ", invece, che è un dittongo, si legge "u", quindi, "Luogo che non c'è" si pronuncia UTOPIA (e non OUTOPIA).
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Perciò, a mio parere, Tommaso Moro, nell'intitolare la sua opera "De optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia, intendeva rassegnarsi a sottintendere, più o meno volontariamente  e consapevolmente, che una istituzione politica e sociale perfetta, non può esistere in nessun luogo ed in nessun tempo! :(
Neanche quella immaginata da lui!
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Ed io, personalmente, ne sono convintissimo, perchè, storicamente, tutti i tentativi di realizzare una istituzione politica e sociale perfetta, si sono trasformati in un vero "incubo" per le popolazioni che hanno dovuto fungere da cavia per tali tipi di esperimenti; ovvero, sempre con etimologia greca, hanno dovuto sperimentare una vera e propria DISTOPIA!
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iano

#1
Immagino che l'odine sociale venga da se, cioè dal basso, se è vero che siamo esseri sociali, però nella misura in cui siamo anche ''esseri culturali'' da ciò deriva una descrizione della società che tendendo a sostituirsi ad essa vi entra in conflitto.
Nella misura in cui la descrizione della società tende a sostituirsi alla società essa è un utopia, cioè un isola che non c'è, perchè la descrizione dell'isola non è l'isola, e nella misura in cui tende a sostituirvisi è letteralmente un isola che non c'è.
Sostituire la società con la sua descrizione è una forzatura che la snatura, forzandone appunto la natura nel bene e nel male.
Ma nella misura in cui siamo esseri culturali penso sia utopico pensare di poter evitare il suddetto conflitto, ma nella misura in cui ho coscienza della questione, mi riesce difficile consegnare la mia vita ad un utopia, per quanto ciò tendenzialmente fanno i giovani, e per quanto quindi ciò almeno in parte abbia fatto ai miei tempi.
Col senno di poi mi pare di poter dire che colui il quale non parte integrante del tessuto sociale, o perchè essendo giovane ancora deve trovare in esso un assestamento, o perchè per qualunque altro motivo si trovi ai margini della società, tenderà a rifugiarsi in un utopia che se dovesse prendere il posto della società, come lui spera, in essa lo reintegrerebbe.
Naturalmente in tali casi poi è più semplice aderire ad un utopia già bella e pronta, piuttosto che crearsene una ex novo come hanno fatto Platone e Tommaso Moro.
Eienstein: ''Dio non gioca a dadi''
Bohr: '' Non sei tu Albert, a dover dire a Dio cosa deve fare''
Iano: ''Perchè mai Dio dovrebbe essere interessato ai nostri giochi?''

Visechi

IL NON LUOGO
Abitare il mondo di utopia significa abitare un non luogo. 
La sensazione che si vive è quella dello spaesamento, della perdita di radicamento, della permanenza al di fuori da sé: un'erranza solitaria, in compagnia della sola ombra, che accoglie, infondendolo nelle carni, l'impulso generativo del moto inesausto verso un non luogo, poiché non vi è meta. 
L'ombra, unica compagna, è l'addensarsi del passato che s'incanala ed incunea nel presente per aprirsi verso il futuro, condensandosi nell'individuo. 
L'etica del viaggio è gravida di dubbio, il quale opera come forza che imprime il moto ad ogni passo che si compie nel percorso che conduce verso l'altrove: una non meta; ed è anche il fondamento dell'errare, inteso nella duplice forma che può assumere: 'sbagliare', da cui, appunto, l'insorgere del dubbio, oppure può esprimere, come conseguenza, la metafora del viaggio, che mai approda ad una confortevole meta. Perché il dubbio non consente durevoli soste, solo brevi pause in foggia di celebrazione di un precario sapere, cui la ragione dà il suo momentaneo consenso.
Muoversi verso un non luogo partendo da un non luogo, dunque.
Ciò che meglio impersona l'abitatore del non luogo è senza dubbio la figura del viandante, la cui Odissea è una continua ripresa del viaggio, seppur privo di meta. La metafora del viandante è stata poeticamente illustrata da Nietzsche, in un suo celebre aforisma tratto da 'Umano, troppo umano':
Il viandante.
Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla terra nient'altro che un viandante, non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tener gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà

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