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Tempo ed eternità

Aperto da Apeiron, 09 Gennaio 2017, 14:23:37 PM

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Apeiron

Forse l'impulso "basico" che ci spinge più di ogni altro a ricercare le risposte esistenziali è quello di fuggire dalla morte. Non c'è davvero nessuna filosofia o religione "seria" che guarda positivamente alla morte e al cambiamento. Perchè? Semplice: tutti gli esseri viventi mirano alla conservazione del proprio essere e purtroppo ben sappiamo che questo nostro desiderio non potrà venire soddisfatto. Il problema è che mentre per gli animali tutto ciò avviene nella loro inconsapevolezza (o almeno credo...) nell'uomo che è dotato di auto-coscienza la cosa è molto più penosa. Ognuno di noi è infatti una sorta di "microcosmo", tuttavia è un microcosmo transiente. Prima o poi quello che avverrà è che si disgregherà. Ma a ben guardare la disgregazione e la morte sono ben connaturate al tempo, o meglio al suo cosiddetto "scorrere". Ogni momento che passa in sostanza non è altro che: una morte del passato e una nascita effimera di un nuovo istante il quale soccomberà a sua volta. Capito ciò ci rendiamo conto per cosa nasce questo nostro anelito alla ricerca del permanente e dell'eterno. Questa incostanza della vita è dunque la natura del tempo, è la natura di questo nostro mondo. E per la nostra conformazione quello che facciamo è cercare un attaccamento: ma questo attaccamento lo dirigiamo continuamente alle "cose incostanti di questo mondo". E dunque continuiamo ad etichettare con termini "mio", "me stesso" e così via cose che sono destinate a "disgregarsi". Nelle forme più estreme si arriva a schiavizzare l'altro essere umano a noi e da qui notiamo come ogni religione seria ci consiglia di "lasciar andare".

Dunque se la morte, la disgregazione ci spaventano lo fanno per la loro irreversibilità. Eppure se questo mondo fosse ciclico e quindi noi fossimo "eterni" il tutto ci apparirebbe come una prigione. Allo stesso modo ci appare problematica vita di durata infinita come quella che svolgiamo qua una prigione perchè sicuramente ad un certo punto ci sentiremmo intrappolati. Tutto questo "preambolo" per dire che a mio giudizio noi non abbiamo idea di cosa questa "eternità" che aneliamo dovrebbe essere. Atemporalità? Ma allora saremmo come dire "congelati". Durata infinita della vita? SI rivela essere una prigione! Eterno ciclo? Altra prigione. D'altro canto la nostra vita finita è "dukkha": il tempo, il suo continuo scorrere è una tragedia proprio perchè come ho già detto "flusso del tempo=continua morte". Dunque secondo voi cos'è l'eternità? E la desiderate?

Una qualsiasi vita eterna secondo me deve essere una vita in cui non c'è passaggio nel tempo ma a differenza dell'atemporalità in qualche modo quel "congelamento" deve essere qualcosa di piacevole. Secondo me il tempo è il segno dell'imperfezione della nostra esistenza, della sua non completa realtà, il tempo è una sorta di "caduta". Per questo motivo la natura temporale è di per sé insoddisfacente. Secondo voi c'è qualcuno che davvero non desidera l'eternità? Ma questa eternità noi non possiamo comprenderla e per questo motivo ogni nostra concezione di eternità ci spaventa e questa paura per così dire è una "tentazione" di questa nostra esistenza, un ostacolo alla ricerca della perfezione.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Ho già dato una mia risposta pochi giorni fa, quando dicevo che la nostra ossessione nei confronti del male si può considerare un problema nato con il modo greco di filosofare, che pretende di procedere per assolutizzazioni, astrazioni, universalizzazioni:
http://www.riflessioni.it/logos/tematiche-spirituali/mi-bolle-l'inferno!/msg7393/#msg7393
Mi sembra che la stessa identica cosa si possa dire riguardo all'ossessione nei confronti del tempo: anch'essa si può considerare nient'altro che un problema di mentalità greca che ancora portiamo addosso.

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 09 Gennaio 2017, 14:23:37 PMForse l'impulso "basico" che ci spinge più di ogni altro a ricercare le risposte esistenziali è quello di fuggire dalla morte. Non c'è davvero nessuna filosofia o religione "seria" che guarda positivamente alla morte e al cambiamento. Perchè? Semplice: tutti gli esseri viventi mirano alla conservazione del proprio essere e purtroppo ben sappiamo che questo nostro desiderio non potrà venire soddisfatto. Il problema è che mentre per gli animali tutto ciò avviene nella loro inconsapevolezza (o almeno credo...) nell'uomo che è dotato di auto-coscienza la cosa è molto più penosa. Ognuno di noi è infatti una sorta di "microcosmo", tuttavia è un microcosmo transiente. Prima o poi quello che avverrà è che si disgregherà. Ma a ben guardare la disgregazione e la morte sono ben connaturate al tempo, o meglio al suo cosiddetto "scorrere". Ogni momento che passa in sostanza non è altro che: una morte del passato e una nascita effimera di un nuovo istante il quale soccomberà a sua volta. Capito ciò ci rendiamo conto per cosa nasce questo nostro anelito alla ricerca del permanente e dell'eterno. Questa incostanza della vita è dunque la natura del tempo, è la natura di questo nostro mondo. E per la nostra conformazione quello che facciamo è cercare un attaccamento: ma questo attaccamento lo dirigiamo continuamente alle "cose incostanti di questo mondo". E dunque continuiamo ad etichettare con termini "mio", "me stesso" e così via cose che sono destinate a "disgregarsi". Nelle forme più estreme si arriva a schiavizzare l'altro essere umano a noi e da qui notiamo come ogni religione seria ci consiglia di "lasciar andare". Dunque se la morte, la disgregazione ci spaventano lo fanno per la loro irreversibilità. Eppure se questo mondo fosse ciclico e quindi noi fossimo "eterni" il tutto ci apparirebbe come una prigione. Allo stesso modo ci appare problematica vita di durata infinita come quella che svolgiamo qua una prigione perchè sicuramente ad un certo punto ci sentiremmo intrappolati. Tutto questo "preambolo" per dire che a mio giudizio noi non abbiamo idea di cosa questa "eternità" che aneliamo dovrebbe essere. Atemporalità? Ma allora saremmo come dire "congelati". Durata infinita della vita? SI rivela essere una prigione! Eterno ciclo? Altra prigione. D'altro canto la nostra vita finita è "dukkha": il tempo, il suo continuo scorrere è una tragedia proprio perchè come ho già detto "flusso del tempo=continua morte". Dunque secondo voi cos'è l'eternità? E la desiderate? Una qualsiasi vita eterna secondo me deve essere una vita in cui non c'è passaggio nel tempo ma a differenza dell'atemporalità in qualche modo quel "congelamento" deve essere qualcosa di piacevole. Secondo me il tempo è il segno dell'imperfezione della nostra esistenza, della sua non completa realtà, il tempo è una sorta di "caduta". Per questo motivo la natura temporale è di per sé insoddisfacente. Secondo voi c'è qualcuno che davvero non desidera l'eternità? Ma questa eternità noi non possiamo comprenderla e per questo motivo ogni nostra concezione di eternità ci spaventa e questa paura per così dire è una "tentazione" di questa nostra esistenza, un ostacolo alla ricerca della perfezione.

Apeiron, può esserci vita senza tempo? Qualunque cosa abbia vita ha bisogno del tempo per dispiegarsi, giungere a maturazione e poi dissolversi. E' il nostro sentirci separati da questo divenire che causa sofferenza e paura. Sofferenza comune a tutte le forme di vita in questo universo in divenire ( o che appare in divenire...il che non cambia il problema visto che solo di quel divenire facciamo esperienza con i nostri sensi e con il senso interno, definito coscienza). Persino per aver timore della fine, della disgregazione abbiamo bisogno della disgregazione stessa, del tempo. Noi siamo il tempo e il tempo è (anche) noi. Con i nostri sensi e con il pensiero non siamo in grado di percepirlo, ma noi cambiamo attimo dopo attimo. Osservi una vecchia foto e , sbigottito, esclami:" Mio Dio, come sono diventato?" Ti sforzi di ricordare gli attimi vissuti, ma la maggior parte sono già andati, morti e qualche altro lo devi ridipingere per fermarlo, illudendosi che possa, in questo modo, sfuggire almeno lui alla disgregazione. Niente dura, né esteriormente né  interiormente. E siccome tutto passa e si disgrega, cosa può sostenere questo se non un grande Vuoto? Proprio perché sono vuote di sostanza propria tutte le cose passano, si trasformano continuamente seguendo la loro natura vuota. Se le cose disponessero di una realtà propria ( di una sostanza intrinseca al loro esserci) come potrebbero cambiare restando se stesse?  Sarebbe contradditorio in termini. Anche postulando un sé mutevole, per aggirare la contraddizione, creeremmo un'ulteriore contraddizione. Come può una cosa che è se stessa mutare in un'altra? Poiché tutte le cose sono vuote nel loro proprio essere, possono tutte esistere. Se possedessero un proprio essere, nessuna di esse esisterebbe. A tutta  prima tutto ciò suona assurdo, però... Parmenide non poteva accettare il non-essere; pertanto non poteva accettare il cambiamento. Ma il vuoto non è nulla, non più di quanto lo sia il numero zero. Poiché lo zero non contiene nulla, può denotare qualsiasi cosa. Per es., se diciamo che un uomo vale sei cifre, non ci impegniamo a definire esattamente il suo conto in banca. La somma di sei cifre, rappresentata da sei zeri, è assai flessibile, estremamente non-essere ( non-svabhava si direbbe nella filosofia buddhista...), così che qualunque numero esatto può essere ad esse sostituito( Come 753.128 Euro per es.). Poichè zero è non-essere, ha enormi possibilità; può diventare ( ovvero funzionare) come un qualsiasi essere. Allo stesso modo, poiché tutte le cose sono prive di sostanza autonoma ( Io-autonomo) , sono dinamiche e piene di possibilità di cambiare, di divenire per l'appunto. La vacuità di sostanza intrinseca, pertanto, non distrugge o demolisce la realtà delle cose; al contrario, a mio parere, è il fattore che rende stabili tutte le cose. 
L'unica cosa che distrugge, nella sua comprensione, sono i desideri e gli attaccamenti degli uomini per una vita eterna, per l'illusorio concetto di eternità nato dal considerare le cose, come giustamente scrivi, fisse e dotate di una propria esistenza intrinseca.

I due modi di pensare:

Il modo svabhava ( essere)                                                  Il modo Nihsvabhava ( non-essere , vacuità)
___________________________________________________________________________________________________________________________
Indipendente                                                                      Interdipendente
unitario                                                                              strutturale
entità-sostanza                                                                   eventi e azioni
statico                                                                                dinamico
fisso                                                                                   fluido
limitato                                                                               libero
definitamente restrittivo                                                       infinite possibilità
costrizione e attaccamento                                                  liberazione e distacco
essere                                                                               non-essere
medesimezza                                                                     sicceità
(da Garma C.C. Chang-filosofia Hwa yen)
Il primo è l'approccio "Aristotelico", il secondo trova qualcosa di simile in occidente nella semantica generale di Korzybski.
Ma , vuoto o non vuoto di esistenza intrinseca, alla sera, Apeiron, il cuore "muore d'amore" :'( ...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

maral

Citazione di: Apeiron il 09 Gennaio 2017, 14:23:37 PM
Forse l'impulso "basico" che ci spinge più di ogni altro a ricercare le risposte esistenziali è quello di fuggire dalla morte. Non c'è davvero nessuna filosofia o religione "seria" che guarda positivamente alla morte e al cambiamento...
Non è propriamente così. Ad esempio tra le maggiori religioni vi è l'Induismo per il quale la potenza divorante e disgregante del tempo che agisce a livello cosmico è ciò che permette la liberazione dal sogno doloroso dell'esistenza e dal karma delle reincarnazioni per pervenire a quello stato di profonda beatitudine che è proprio del sonno profondo, dato dalla originaria imperturbata non esistenza. La Potenza del Tempo è la legge dell'esistenza ove tutto divora e viene divorato, è rappresentata da una dea di aspetto terribile, Kali, che danza su Shiva dormiente e la sua raffigurazione più paurosa è Tara, la Stella (Potenza della Fame e Notte della collera)  che danza calpestando un cadavere, ma esse sono terrificanti solo dal punto di vista del sogno dell'esistente che rimane attaccato al desiderio e quindi all'io. Paradossalmente, entrambe, nella loro danza terrificante, compiono, tra gli altri, il gesto che allontana la paura e sono venerate nel loro aspetto benefico che porta alla gioia suprema della non esistenza. Anche nel buddismo che nasce dall'induismo credo ci sia la stessa concezione liberatoria e gioiosa della non esistenza (e qui Sariputra potrà illuminarci in merito), è l'Occidente che resta dalle sue origini attaccato alla concezione centrale di un Io a cui la divinità onnipotente garantisce eterna esistenza personale.
In ambito filosofico, oltre alla posizione esistenzialista e piuttosto anomala di Cioran, nel '900 si è sviluppata una corrente di pensiero che, in termini ben più teoretici, pone l'assoluto nella potenza trasformativa di un continuo Divenire anziché nel permanere dell'Essere e nega qualsiasi realtà ontologica sia all'oggetto che al soggetto, tenendo solo la relazione in sé. E' una corrente che fa capo a Bergson, Whitehead, Simondon (di cui mi pare di ricordare abbiamo precedentemente parlato) e attualmente in Italia è rappresentata soprattutto da Rocco Ronchi (in questo video e nel successivo per chi volesse approfondire: https://www.youtube.com/watch?v=r1ZyZBT9mfM&t=2s)




Apeiron

Citazione di: Angelo Cannata il 09 Gennaio 2017, 16:23:13 PMHo già dato una mia risposta pochi giorni fa, quando dicevo che la nostra ossessione nei confronti del male si può considerare un problema nato con il modo greco di filosofare, che pretende di procedere per assolutizzazioni, astrazioni, universalizzazioni: http://www.riflessioni.it/logos/tematiche-spirituali/mi-bolle-l'inferno!/msg7393/#msg7393 Mi sembra che la stessa identica cosa si possa dire riguardo all'ossessione nei confronti del tempo: anch'essa si può considerare nient'altro che un problema di mentalità greca che ancora portiamo addosso.

Sì credo che noi siamo stati in effetti condizionati un po' troppo dai greci e ragioniamo troppo in logica aristotelica. Il concetto stesso di divenire è contraddittorio. Io sono e non sono quello di un giorno fa e quello che sono oggi è condizionato da quello che ero (e non ero). Sì concordo con te che la logica aristotelica si applica male alla realtà. La ritengo utile però per definiri i concetti in modo non-ambiguo. Quindi ritengo i concetti di "disgregazione", "creazione" dei momenti temporali come concetti ben definiti che tuttavia non possono cogliere in toto la realtà. Non a caso il problema di chi si affida troppo alla matematica è quello di "cristallizzare" il mondo. Comunque tu che ne pensi dell'eternità?

Citazione di: Sariputra il 09 Gennaio 2017, 16:42:40 PMApeiron, può esserci vita senza tempo? Qualunque cosa abbia vita ha bisogno del tempo per dispiegarsi, giungere a maturazione e poi dissolversi. E' il nostro sentirci separati da questo divenire che causa sofferenza e paura. Sofferenza comune a tutte le forme di vita in questo universo in divenire ( o che appare in divenire...il che non cambia il problema visto che solo di quel divenire facciamo esperienza con i nostri sensi e con il senso interno, definito coscienza). Persino per aver timore della fine, della disgregazione abbiamo bisogno della disgregazione stessa, del tempo. Noi siamo il tempo e il tempo è (anche) noi. Con i nostri sensi e con il pensiero non siamo in grado di percepirlo, ma noi cambiamo attimo dopo attimo. Osservi una vecchia foto e , sbigottito, esclami:" Mio Dio, come sono diventato?" Ti sforzi di ricordare gli attimi vissuti, ma la maggior parte sono già andati, morti e qualche altro lo devi ridipingere per fermarlo, illudendosi che possa, in questo modo, sfuggire almeno lui alla disgregazione. Niente dura, né esteriormente né interiormente. E siccome tutto passa e si disgrega, cosa può sostenere questo se non un grande Vuoto? Proprio perché sono vuote di sostanza propria tutte le cose passano, si trasformano continuamente seguendo la loro natura vuota. Se le cose disponessero di una realtà propria ( di una sostanza intrinseca al loro esserci) come potrebbero cambiare restando se stesse? Sarebbe contradditorio in termini. Anche postulando un sé mutevole, per aggirare la contraddizione, creeremmo un'ulteriore contraddizione. Come può una cosa che è se stessa mutare in un'altra? Poiché tutte le cose sono vuote nel loro proprio essere, possono tutte esistere. Se possedessero un proprio essere, nessuna di esse esisterebbe. A tutta prima tutto ciò suona assurdo, però... Parmenide non poteva accettare il non-essere; pertanto non poteva accettare il cambiamento. Ma il vuoto non è nulla, non più di quanto lo sia il numero zero. Poiché lo zero non contiene nulla, può denotare qualsiasi cosa. Per es., se diciamo che un uomo vale sei cifre, non ci impegniamo a definire esattamente il suo conto in banca. La somma di sei cifre, rappresentata da sei zeri, è assai flessibile, estremamente non-essere ( non-svabhava si direbbe nella filosofia buddhista...), così che qualunque numero esatto può essere ad esse sostituito( Come 753.128 Euro per es.). Poichè zero è non-essere, ha enormi possibilità; può diventare ( ovvero funzionare) come un qualsiasi essere. Allo stesso modo, poiché tutte le cose sono prive di sostanza autonoma ( Io-autonomo) , sono dinamiche e piene di possibilità di cambiare, di divenire per l'appunto. La vacuità di sostanza intrinseca, pertanto, non distrugge o demolisce la realtà delle cose; al contrario, a mio parere, è il fattore che rende stabili tutte le cose. L'unica cosa che distrugge, nella sua comprensione, sono i desideri e gli attaccamenti degli uomini per una vita eterna, per l'illusorio concetto di eternità nato dal considerare le cose, come giustamente scrivi, fisse e dotate di una propria esistenza intrinseca. I due modi di pensare: Il modo svabhava ( essere) Il modo Nihsvabhava ( non-essere , vacuità) ___________________________________________________________________________________________________________________________ Indipendente Interdipendente unitario strutturale entità-sostanza eventi e azioni statico dinamico fisso fluido limitato libero definitamente restrittivo infinite possibilità costrizione e attaccamento liberazione e distacco essere non-essere medesimezza sicceità (da Garma C.C. Chang-filosofia Hwa yen) Il primo è l'approccio "Aristotelico", il secondo trova qualcosa di simile in occidente nella semantica generale di Korzybski. Ma , vuoto o non vuoto di esistenza intrinseca, alla sera, Apeiron, il cuore "muore d'amore" :'( ...

Il buddismo come tu ben dici è unico. Nessuna cosa è veramente reale e da qui ne segue appunto che la trasformazione è possibile proprio perchè nulla ha una vera sostanza. L'anatta non è contraddittoria come dottrina appunto perchènon assume che ci siano sostanze nel mondo ma nega proprio questo assioma. Siccome l'esistenza condizionata è dolorosa (perchè appunto soggetta alla disgregazione) si ricerca la liberazione. E qui però lo stesso Nirvana pur essendo "non nato, al di là del cambiamento" non è un atman (per ragioni a me oscure  ;D ).
Però mi fai notare una cosa interessante: "noi siamo il tempo".  O forse: la vita è il tempo! Che l'eternità sia il tempo (d'altronde si può parlare di "temporalità del tempo" ? ;D ). Il tempo d'altronde è l'unica cosa a-temporale. Esso crea e distrugge senza nessuna malizia, in modo imparziale. Che la soluzione sia abbandonarsi al tempo?

Citazione di: maral il 09 Gennaio 2017, 21:58:49 PM
Citazione di: Apeiron il 09 Gennaio 2017, 14:23:37 PMForse l'impulso "basico" che ci spinge più di ogni altro a ricercare le risposte esistenziali è quello di fuggire dalla morte. Non c'è davvero nessuna filosofia o religione "seria" che guarda positivamente alla morte e al cambiamento...
Non è propriamente così. Ad esempio tra le maggiori religioni vi è l'Induismo per il quale la potenza divorante e disgregante del tempo che agisce a livello cosmico è ciò che permette la liberazione dal sogno doloroso dell'esistenza e dal karma delle reincarnazioni per pervenire a quello stato di profonda beatitudine che è proprio del sonno profondo, dato dalla originaria imperturbata non esistenza. La Potenza del Tempo è la legge dell'esistenza ove tutto divora e viene divorato, è rappresentata da una dea di aspetto terribile, Kali, che danza su Shiva dormiente e la sua raffigurazione più paurosa è Tara, la Stella (Potenza della Fame e Notte della collera) che danza calpestando un cadavere, ma esse sono terrificanti solo dal punto di vista del sogno dell'esistente che rimane attaccato al desiderio e quindi all'io. Paradossalmente, entrambe, nella loro danza terrificante, compiono, tra gli altri, il gesto che allontana la paura e sono venerate nel loro aspetto benefico che porta alla gioia suprema della non esistenza. Anche nel buddismo che nasce dall'induismo credo ci sia la stessa concezione liberatoria e gioiosa della non esistenza (e qui Sariputra potrà illuminarci in merito), è l'Occidente che resta dalle sue origini attaccato alla concezione centrale di un Io a cui la divinità onnipotente garantisce eterna esistenza personale. In ambito filosofico, oltre alla posizione esistenzialista e piuttosto anomala di Cioran, nel '900 si è sviluppata una corrente di pensiero che, in termini ben più teoretici, pone l'assoluto nella potenza trasformativa di un continuo Divenire anziché nel permanere dell'Essere e nega qualsiasi realtà ontologica sia all'oggetto che al soggetto, tenendo solo la relazione in sé. E' una corrente che fa capo a Bergson, Whitehead, Simondon (di cui mi pare di ricordare abbiamo precedentemente parlato) e attualmente in Italia è rappresentata soprattutto da Rocco Ronchi (in questo video e nel successivo per chi volesse approfondire: https://www.youtube.com/watch?v=r1ZyZBT9mfM&t=2s)

In verità noto anche io una ambivalenza sul tempo nelle religioni dell'induismo (la quale non è una propriamente una religione visto che non si basa su una dottrina e infatti gli indù possono ad esempio essere atei, panteisti, teisti...) e del buddismo quasi che il tempo sia un "male" solo per chi non è "illuminato". Tuttavia anche per il cristianesimo le cose temporali "sono di questo mondo" (e il suo principe è proprio lui...) e la morte è "il nemico" eppure con la prospettiva della vita eterna la morte cessa di essere un nemico. In entrambi i casi quindi in sostanza la morte e la temporalità sono "nemici" per chi non è "illuminato" e "non sono più nemici" per chi è risvegliato.  Forse perchè chi ha una prospettiva eterna vede l'eternità anche nel tempo? In ogni caso l'"inganno" è sempre lo stesso: trattiamo le cose non-eterne come eterne.

E la soluzione qual è?  Forse come dicono i processualisti è abbandonare la sostanzialità e abbracciare l'unica cosa eterna ossia il tempo, il divenire. Il vivere un tempo di durata infinita? Chiaramente noi aneliamo all'eterno ma secondo me l'oggetto del nostro anelito è "oltre la nostra comprensione" visto che ogni "eternità" che ci immaginiamo alla fine non ci soddisfa (o ci sentiamo prigionieri o "congelati" o "inesistenti"...)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Angelo Cannata

Citazione di: Apeiron il 09 Gennaio 2017, 22:31:22 PM
Comunque tu che ne pensi dell'eternità?
Boh, è una parola che non mi dice niente.

paul11

#6
Trovo che invece quasi tutte le spiritualità abbiano una struttura simile, una sintassi, dove anche le filosofie si differenziano nelle semantiche.

Il tempo non è il problema, e nemmeno il divenire e l'eternità,
Il tempo è vuoto, ma è l'esistenza che viene permessa dal tempo e la sostanza e le essenze vengono conosciute dall'esperienza. Allora il tempo diventa destino in cui il problema è il senso dell'esistenza nel processo del conoscere, dell'acquisizione delle sostanze. L'eternità più che un tempo è lo  "stato"  in cui la coscienza che esiste, vale a dire l'autocoscienza diventa coscienza di un "tutto", l'acquisizione della "pienezza" è il culmine del processo esistenza che conosce.
A me pare quindi che il conoscere e l'esistere, si relazionano nell'esperienza attraverso il mezzo temporale che permette l'acquisizione.
A questo punto il problematico è il significato dell'esistere, (che ci facciamo nel mondo)
e se e quale conoscenza permette quell'eterno stato finale, ammesso che ci possa essere, in cui l'esistenza
prende coscienza di un sapere assoluto, sempre ammesso che sia possible.

E ognuno, più o meno coscientemente o schiavo del tempo, sceglie una sua strada, una sua filosofia, una sua scienza o spiritualità, insomma  un suo destino.

davintro

credo che tutti aspirino all'eternità, se questo assunto lo si interpreta come il fatto che ciascuno di noi è intenzionalmente rivolto a raggiungere una condizione caratterizzata dalla sospensione del tempo. Ogni agire diretto dalla volontà e dalla razionalità presuppone sempre un dinamismo, un mutamento che non è mai fine a se stesso ma mirante al raggiungimento di un fine, un acquietamento nel quale il fine è stato raggiunto, e il mutamento perde la sua ragion d'essere. Contro tale assunto può muoversi l'obiezione che in molti casi l'uomo tragga piacere non nel raggiungimento di una meta statica, ma nel divenire stesso. Quante volte si gode nel viaggio, nel percorso intermedio tra l'inizio e la fine, nello sforzo stesso tendente al fine più che nel raggiungimento del fine stesso? Tuttavia anche in questi casi l'eternità non viene scalzata dalla sua posizione di oggetto delle aspirazioni, a costo però di operare una formalizzazione, una generalizzazione del concetto. Quando il divenire diviene oggetto di per sè di godimento, si vorrebbe che ciò che si sta facendo lo si continui a fare PER SEMPRE. Il divenire diviene il fine a cui tende il desiderio a condizione che sia un "eterno divenire". Il concetto di "durata" è una declinazione di quello di "eternità", qualcosa tanto più dura quanto più si approssima all'ideale di "eternità". Insomma intesa in un'accezione più formale, intesa cioè a prescindere dalla determinatezza del contenuto, del quid che costituisce la realtà che dura senza più finitezza temporale,  l'eternità è la prospettiva che le nostre inclinazioni mirano a raggiungere, insita nella struttura teleologica di tutto ciò che accade. Dunque l'orizzonte finalistico dell'eternità è un dato universale al di là delle differenti tradizioni religiose, mitiche, intellettuali che cercano di "riempire" l'indeterminatezza dell'idea di eternità con certi sistemi di rappresentazioni, di dogmi, di concetti filosofici. Non solo nel modello teista cristiano lineare dove l'eternità coincide con la eterna durata dalla beata contemplazione della visione divina da parte delle anime, ma anche in quello ciclico come nell' Amor fati nicciano dove, se ben interpreto, l'uomo, divenuto ora  Oltreuomo, rinuncia alla speranza di un'escatologia trascendente il mondo e gode dell'idea dell'Eterno ritorno, l'oggetto verso cui si rivolgono i nostri desideri, il valore sommo, è qualcosa che dura eternamente, sia esso un ente trascendente il mondo, Dio, o lo stesso susseguirsi degli eventi mondani. Anche se non è poi da sottovalutare il fatto che nel modello lineare il valore dell'eternità è da considerarsi più accentuato, in quanto l' eterno non sarebbe solo la forma della realtà, ma anche il contenuto finale, il godimento dell'eternità divina, un'eternità ipostatizzata, che si costituisce come realtà per sè, mentre nel modello ciclico l'eterno resta presente in modo formale, l'ordine delle successioni di un contenuto che però si identifica con ildivenire, con la molteplicità di enti ciascuno dei quali, preso in se stesso non è eterno, ma diveniente e finito. E questa riduzione all'accezione formale comporta a mio avviso anche un certo depotenziamento valoriale dell'eternità

Trovo un pò ambigua l'idea di "comprensione dell'eternità". Cosa si intende per "comprendere" in questo contesto? Se si intende omprendere un concetto  come un coglierne il senso generale, definirlo, utilizzandolo per collocarlo in un'analisi, in una discussione come ora stiamo facendo, allora si può dire che l'eternità è comprensibile, o quantomeno ci proviamo a comprenderla. Tuttavia, vivendo  nella storia, nella temporalità, non avendo un'esperienza concreta di qualcosa di eterno, questa comprensione resta per noi qualcosa di astratto, generico, intellettualista, ma di non vissuto. Sintentizzando, vivendo nel mondano, l'eternità la possiamo comprenderla ma non viverla. E tuttavia proprio tale scarto tra vita e comprensione può essere vista come la manifestazione della non riducibilità della nostra coscienza intellettale alla contingenza temporale del mondo...

Sariputra

@ Apeiron scrive:

Però mi fai notare una cosa interessante: "noi siamo il tempo".  O forse: la vita è il tempo! Che l'eternità sia il tempo (d'altronde si può parlare di "temporalità del tempo" ?  ). Il tempo d'altronde è l'unica cosa a-temporale. Esso crea e distrugge senza nessuna malizia, in modo imparziale. Che la soluzione sia abbandonarsi al tempo?


Se noi siamo il tempo e il tempo è (anche) noi, l'eternità del tempo che è l'eternità del divenire è pure la nostra (anche la nostra) eternità. Noi, essendo parte del tempo/divenire, partecipiamo dell'eternità del tempo/divenire. Possiamo definirci un "meccanismo" dell'eternità ? Quando diciamo "noi" però lo usiamo in senso convenzionale, nel senso cioè della verità convenzionale, che non è falsa ma non è nemmeno la verità ultima. Se togliamo quel "noi" in cui ci identifichiamo come esseri sostanziali ( esseri in sé) tutto ciò che ci compone è diverso dal tempo/divenire? Se siamo solo una goccia del fiume che scorre in divenire, non siamo anche noi quel fiume? Forse è perché riteniamo erroneamente che non-siamo una goccia del fiume, ma bensì una cosa in sé, distinta dal fiume del divenire, cha aspiriamo a qualcosa di irrealistico che chiamiamo eternità-del-nostro-essere-un'entità-in sé?  La sensazione di essere un'entità in sé è molto profonda, forse la natura stessa della coscienza( e dell'attaccamento). Se dico 'Apeiron è" esprimo con forza una sensazione di essere in sé di Apeiron;  se dico invece "Apeiron è giovane" parlo della realtà esistenziale di Apeiron. Maritain scriveva:
Così, la primordiale intuizione di essere è l'intuizione della solidità e inesorabilità dell'esistenza...E' un ragionare senza parole, che non può essere espresso in modo articolato senza sacrificare la sua vitale concentrazione. Qui ogni cosa dipende dalla naturale intuizione dell'essere-dall'intuizione di quell'atto di esistere che è l'atto di ogni atto e la perfezione di ogni perfezione..."
Questa sensazione però non ci dice niente sull'esistenza. E' semplicemente la diretta e vivida esperienza di vivere prima del sorgere degli attributi della vita stessa; forse prima della spaccatura soggetto-oggetto. Nelle Upanishad abbiamo così la formula:
Essenza= pura esistenza=la realtà di una cosa= l'atto di esistere= fondamento divino= substrato universale= Brahman= Essere di esseri.
La presa di posizione buddhista nei confronti di questa sensazione intuitiva dell'Essere, ossia dell'essenza, è diametralmente opposta. Invece di glorificarla e di argomentare i suoi significati a livello teologico e soteriologico, il Buddhismo ritiene che tale intuitiva comprensione dell'essere non è altro che una espressione del profondo legame e attaccamento degli uomini. Essa è la vera radice di tutte le sofferenze e di tutte le illusioni umane. La Liberazione ( ossia l'Illuminazione) è il risultato di un annientamento totale di tale innato, radicato attaccamento all'"essenza".
Questo è il motivo per cui la Vacuità ( vuoto di essenza) ha un ruolo così importante , decisivo nel pensiero e nella pratica buddhista.
L'intuizione primordiale di essere è priva di attributi, però l'attaccamento a questa intuizione proietta su di essa attributi nati dal desiderio: desiderio di durare, desiderio di significato, desiderio di non-essere nel divenire.
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

maral

Ecco, la differenza fondamentale tra induismo e buddismo da un lato e Cristianesimo o le altre religioni del Libro credo stia proprio in questo annientamento totale che rappresenta per i primi la suprema gioia. L'annientamento totale coinvolge pure gli dei, anche Brahma (l'essere immenso in cui si realizza il creato e l'illusione), Visnù (la divinità immanente dell'aggregazione, presente in ogni forma esistente) e Shiva (la divinità trascendente della disgregazione) vengono infine annientati. E' qui esattamente l'opposto dell'idea cristiana di un'eternità in cui l'Essere supremo (inteso anche qui in senso trinitario) è eterno e conserva in eterno presso di Sè le anime meritevoli rendendole partecipi della Sua eternità in essere. Questo trattenersi in eterno delle anime individuali, per l'Induismo è al contrario l'essenza stessa della pena e del dolore.
E' interessante notare che ad esempio anche la reincarnazione, la trasmigrazione delle anime da una vita all'altra, per l'Occidente assume il significato positivo di un poter in qualche modo ripetere se stessi indefinitamente, mentre per l'Oriente è l'effetto di un karma negativo che potrà risolversi solamente nell'annientamento in cui solo può consistere la vera gioia. 

Apeiron

Citazione di: Sariputra il 10 Gennaio 2017, 01:03:45 AM@ Apeiron scrive: Però mi fai notare una cosa interessante: "noi siamo il tempo". O forse: la vita è il tempo! Che l'eternità sia il tempo (d'altronde si può parlare di "temporalità del tempo" ? ). Il tempo d'altronde è l'unica cosa a-temporale. Esso crea e distrugge senza nessuna malizia, in modo imparziale. Che la soluzione sia abbandonarsi al tempo? Se noi siamo il tempo e il tempo è (anche) noi, l'eternità del tempo che è l'eternità del divenire è pure la nostra (anche la nostra) eternità. Noi, essendo parte del tempo/divenire, partecipiamo dell'eternità del tempo/divenire. Possiamo definirci un "meccanismo" dell'eternità ? Quando diciamo "noi" però lo usiamo in senso convenzionale, nel senso cioè della verità convenzionale, che non è falsa ma non è nemmeno la verità ultima. Se togliamo quel "noi" in cui ci identifichiamo come esseri sostanziali ( esseri in sé) tutto ciò che ci compone è diverso dal tempo/divenire? Se siamo solo una goccia del fiume che scorre in divenire, non siamo anche noi quel fiume? Forse è perché riteniamo erroneamente che non-siamo una goccia del fiume, ma bensì una cosa in sé, distinta dal fiume del divenire, cha aspiriamo a qualcosa di irrealistico che chiamiamo eternità-del-nostro-essere-un'entità-in sé? La sensazione di essere un'entità in sé è molto profonda, forse la natura stessa della coscienza( e dell'attaccamento). Se dico 'Apeiron è" esprimo con forza una sensazione di essere in sé di Apeiron; se dico invece "Apeiron è giovane" parlo della realtà esistenziale di Apeiron. Maritain scriveva: Così, la primordiale intuizione di essere è l'intuizione della solidità e inesorabilità dell'esistenza...E' un ragionare senza parole, che non può essere espresso in modo articolato senza sacrificare la sua vitale concentrazione. Qui ogni cosa dipende dalla naturale intuizione dell'essere-dall'intuizione di quell'atto di esistere che è l'atto di ogni atto e la perfezione di ogni perfezione..." Questa sensazione però non ci dice niente sull'esistenza. E' semplicemente la diretta e vivida esperienza di vivere prima del sorgere degli attributi della vita stessa; forse prima della spaccatura soggetto-oggetto. Nelle Upanishad abbiamo così la formula: Essenza= pura esistenza=la realtà di una cosa= l'atto di esistere= fondamento divino= substrato universale= Brahman= Essere di esseri. La presa di posizione buddhista nei confronti di questa sensazione intuitiva dell'Essere, ossia dell'essenza, è diametralmente opposta. Invece di glorificarla e di argomentare i suoi significati a livello teologico e soteriologico, il Buddhismo ritiene che tale intuitiva comprensione dell'essere non è altro che una espressione del profondo legame e attaccamento degli uomini. Essa è la vera radice di tutte le sofferenze e di tutte le illusioni umane. La Liberazione ( ossia l'Illuminazione) è il risultato di un annientamento totale di tale innato, radicato attaccamento all'"essenza". Questo è il motivo per cui la Vacuità ( vuoto di essenza) ha un ruolo così importante , decisivo nel pensiero e nella pratica buddhista. L'intuizione primordiale di essere è priva di attributi, però l'attaccamento a questa intuizione proietta su di essa attributi nati dal desiderio: desiderio di durare, desiderio di significato, desiderio di non-essere nel divenire.

Sulla prima parte è un pensiero che ogni tanto viene anche a me. Noi siamo per così dire momenti del tempo e la "beatitudine" è capire questo. Per quanto riguarda il buddhismo: sì il ragionamento che fai è che bisogna abbandonare i concetti perchè sono un attaccamento. Tuttavia io ragiono in modo molto concettuale per riuscire a "comprendere" davvero che non c'è bisogno del sostrato, motivo per cui su certe cose mi trovo più d'accordo con le Upanishads. Per quanto riguarda l'Advaita essa presuppone che il fondamento sia "senza attributi" e sinceramente la trovo molto simile al Buddismo (simile ma non uguale). D'altronde "anatta" e "neti-neti" sono molto simili come procedimenti d'indagine.
Detto questo il buddismo mi sembra troppo "insostanziale" (mi sembra un nichilismo mascherato). L'Advaita mi pare un nichilismo oppure un panteismo così estremo da dimenticarsi della realtà (troppo "acosmistico"...).

Credo invece che noi siamo finiti e che la nostra "anima" sia diversa da Brahman ma continua ad anelare tale realtà. Quello che non capisco è se tale anelito sia una "fregatura" che ci facciamo oppure se in realtà corrisponde alla realtà (se possediamo o no una "componente" eterna).

Citazione di: maral il 10 Gennaio 2017, 11:34:14 AMEcco, la differenza fondamentale tra induismo e buddismo da un lato e Cristianesimo o le altre religioni del Libro credo stia proprio in questo annientamento totale che rappresenta per i primi la suprema gioia. L'annientamento totale coinvolge pure gli dei, anche Brahma (l'essere immenso in cui si realizza il creato e l'illusione), Visnù (la divinità immanente dell'aggregazione, presente in ogni forma esistente) e Shiva (la divinità trascendente della disgregazione) vengono infine annientati. E' qui esattamente l'opposto dell'idea cristiana di un'eternità in cui l'Essere supremo (inteso anche qui in senso trinitario) è eterno e conserva in eterno presso di Sè le anime meritevoli rendendole partecipi della Sua eternità in essere. Questo trattenersi in eterno delle anime individuali, per l'Induismo è al contrario l'essenza stessa della pena e del dolore. E' interessante notare che ad esempio anche la reincarnazione, la trasmigrazione delle anime da una vita all'altra, per l'Occidente assume il significato positivo di un poter in qualche modo ripetere se stessi indefinitamente, mentre per l'Oriente è l'effetto di un karma negativo che potrà risolversi solamente nell'annientamento in cui solo può consistere la vera gioia.

Il punto è che buddhisti e indù (inteso come Advaita o simili) non dicono che la liberazione sia annientamento. Anzi entrambi condannano tale interpretazione della liberazione. Nel cristianesimo il Paradiso è eterno e libero dal dolore. Buddismo e simili negano proprio che il paradiso sia eterno e libero dal dolore proprio perchè o non hanno Dio o non hanno il concetto di Dio come quello cristiano.

P.S. Per la scuola Dvaita Vedanta indù c'è un Dio personale e ci sono Paradiso (eterna pace con Dio) e Inferno (eterna condanna) e anime predestinate. Questo per dire che l'induismo non è una religione ma ogni scuola indù si fa la propria.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

bluemax

Citazione di: maral il 10 Gennaio 2017, 11:34:14 AM
Ecco, la differenza fondamentale tra induismo e buddismo da un lato e Cristianesimo o le altre religioni del Libro credo stia proprio in questo annientamento totale che rappresenta per i primi la suprema gioia. L'annientamento totale coinvolge pure gli dei, anche Brahma (l'essere immenso in cui si realizza il creato e l'illusione), Visnù (la divinità immanente dell'aggregazione, presente in ogni forma esistente) e Shiva (la divinità trascendente della disgregazione) vengono infine annientati. E' qui esattamente l'opposto dell'idea cristiana di un'eternità in cui l'Essere supremo (inteso anche qui in senso trinitario) è eterno e conserva in eterno presso di Sè le anime meritevoli rendendole partecipi della Sua eternità in essere. Questo trattenersi in eterno delle anime individuali, per l'Induismo è al contrario l'essenza stessa della pena e del dolore.
E' interessante notare che ad esempio anche la reincarnazione, la trasmigrazione delle anime da una vita all'altra, per l'Occidente assume il significato positivo di un poter in qualche modo ripetere se stessi indefinitamente, mentre per l'Oriente è l'effetto di un karma negativo che potrà risolversi solamente nell'annientamento in cui solo può consistere la vera gioia.
Attenzione ad usare il termine "annientamento". Tale termine non ha nulla a che fare con il "terminare" ma molto piu' simile alla "fusione". 
In poche parole... "IO" sono un semplice risultato di cause ed effetti a cui partecipa l'intero universo... io e l'universo siamo la stessa "mescolanza", ne faccio parte. Siamo lo stesso mare e l'onda che diviene "io" e non vuole essere "mare", IGNORA di farne parte, presume di essere differente dal mare creandosi un "io" indipendente e quindi sofferenza. 

:) ciao

Apeiron

Citazione di: davintro il 10 Gennaio 2017, 00:23:16 AMcredo che tutti aspirino all'eternità, se questo assunto lo si interpreta come il fatto che ciascuno di noi è intenzionalmente rivolto a raggiungere una condizione caratterizzata dalla sospensione del tempo. Ogni agire diretto dalla volontà e dalla razionalità presuppone sempre un dinamismo, un mutamento che non è mai fine a se stesso ma mirante al raggiungimento di un fine, un acquietamento nel quale il fine è stato raggiunto, e il mutamento perde la sua ragion d'essere. Contro tale assunto può muoversi l'obiezione che in molti casi l'uomo tragga piacere non nel raggiungimento di una meta statica, ma nel divenire stesso. Quante volte si gode nel viaggio, nel percorso intermedio tra l'inizio e la fine, nello sforzo stesso tendente al fine più che nel raggiungimento del fine stesso? Tuttavia anche in questi casi l'eternità non viene scalzata dalla sua posizione di oggetto delle aspirazioni, a costo però di operare una formalizzazione, una generalizzazione del concetto. Quando il divenire diviene oggetto di per sè di godimento, si vorrebbe che ciò che si sta facendo lo si continui a fare PER SEMPRE. Il divenire diviene il fine a cui tende il desiderio a condizione che sia un "eterno divenire". Il concetto di "durata" è una declinazione di quello di "eternità", qualcosa tanto più dura quanto più si approssima all'ideale di "eternità". Insomma intesa in un'accezione più formale, intesa cioè a prescindere dalla determinatezza del contenuto, del quid che costituisce la realtà che dura senza più finitezza temporale, l'eternità è la prospettiva che le nostre inclinazioni mirano a raggiungere, insita nella struttura teleologica di tutto ciò che accade. Dunque l'orizzonte finalistico dell'eternità è un dato universale al di là delle differenti tradizioni religiose, mitiche, intellettuali che cercano di "riempire" l'indeterminatezza dell'idea di eternità con certi sistemi di rappresentazioni, di dogmi, di concetti filosofici. Non solo nel modello teista cristiano lineare dove l'eternità coincide con la eterna durata dalla beata contemplazione della visione divina da parte delle anime, ma anche in quello ciclico come nell' Amor fati nicciano dove, se ben interpreto, l'uomo, divenuto ora Oltreuomo, rinuncia alla speranza di un'escatologia trascendente il mondo e gode dell'idea dell'Eterno ritorno, l'oggetto verso cui si rivolgono i nostri desideri, il valore sommo, è qualcosa che dura eternamente, sia esso un ente trascendente il mondo, Dio, o lo stesso susseguirsi degli eventi mondani. Anche se non è poi da sottovalutare il fatto che nel modello lineare il valore dell'eternità è da considerarsi più accentuato, in quanto l' eterno non sarebbe solo la forma della realtà, ma anche il contenuto finale, il godimento dell'eternità divina, un'eternità ipostatizzata, che si costituisce come realtà per sè, mentre nel modello ciclico l'eterno resta presente in modo formale, l'ordine delle successioni di un contenuto che però si identifica con ildivenire, con la molteplicità di enti ciascuno dei quali, preso in se stesso non è eterno, ma diveniente e finito. E questa riduzione all'accezione formale comporta a mio avviso anche un certo depotenziamento valoriale dell'eternità Trovo un pò ambigua l'idea di "comprensione dell'eternità". Cosa si intende per "comprendere" in questo contesto? Se si intende omprendere un concetto come un coglierne il senso generale, definirlo, utilizzandolo per collocarlo in un'analisi, in una discussione come ora stiamo facendo, allora si può dire che l'eternità è comprensibile, o quantomeno ci proviamo a comprenderla. Tuttavia, vivendo nella storia, nella temporalità, non avendo un'esperienza concreta di qualcosa di eterno, questa comprensione resta per noi qualcosa di astratto, generico, intellettualista, ma di non vissuto. Sintentizzando, vivendo nel mondano, l'eternità la possiamo comprenderla ma non viverla. E tuttavia proprio tale scarto tra vita e comprensione può essere vista come la manifestazione della non riducibilità della nostra coscienza intellettale alla contingenza temporale del mondo...

Bel post. Concordo con te che l'anelito sia il più "profondo" dei nostri desideri. Tu però sostieni che noi comprendiamo l'eternità. Non sono d'accordo: l'eternità che aneliamo è una eternità "da vivere" e non un concetto. Motivo per cui secondo me i concetti che ci facciamo di eternità sono tutti insoddisfacenti ma ciò è dovuto al fatto che non parliamo di cose che non possiamo comprendere.

Citazione di: Angelo Cannata il 09 Gennaio 2017, 23:01:29 PM
Citazione di: Apeiron il 09 Gennaio 2017, 22:31:22 PMComunque tu che ne pensi dell'eternità?
Boh, è una parola che non mi dice niente.

Trovo interessante questa tua posizione. In sostanza stai abbracciando un "finitismo" radicale, che per me come ti avevo già detto è nichilismo. Quindi secondo te il nostro desiderio di "trascendere" è un auto-inganno?

Citazione di: paul11 il 09 Gennaio 2017, 23:41:56 PMTrovo che invece quasi tutte le spiritualità abbiano una struttura simile, una sintassi, dove anche le filosofie si differenziano nelle semantiche. Il tempo non è il problema, e nemmeno il divenire e l'eternità, Il tempo è vuoto, ma è l'esistenza che viene permessa dal tempo e la sostanza e le essenze vengono conosciute dall'esperienza. Allora il tempo diventa destino in cui il problema è il senso dell'esistenza nel processo del conoscere, dell'acquisizione delle sostanze. L'eternità più che un tempo è lo "stato" in cui la coscienza che esiste, vale a dire l'autocoscienza diventa coscienza di un "tutto", l'acquisizione della "pienezza" è il culmine del processo esistenza che conosce. A me pare quindi che il conoscere e l'esistere, si relazionano nell'esperienza attraverso il mezzo temporale che permette l'acquisizione. A questo punto il problematico è il significato dell'esistere, (che ci facciamo nel mondo) e se e quale conoscenza permette quell'eterno stato finale, ammesso che ci possa essere, in cui l'esistenza prende coscienza di un sapere assoluto, sempre ammesso che sia possible. E ognuno, più o meno coscientemente o schiavo del tempo, sceglie una sua strada, una sua filosofia, una sua scienza o spiritualità, insomma un suo destino.

Concordo con te che ci sono affinità tra le varie forme di spiriualità e l'affinità è appunto la divisione tra per così dire "le alte e le basse sfere". Ogni religione e ogni spiritualità è trascendenza e d'altronde tutte nascono dal desiderio di "andare oltre...". In sostanza l'uomo dotato di auto-coscienza è il primo a immmaginare qualcosa di "più alto" della sua condizione.
Ma se tutte le forme di spiritualità hanno questa radice esse si differenziano secondo me non solo per la semantica. D'altronde come si può ritenere compatibili per esempio le citate scuole indù Dvaita e Advaita (il fondatore della prima, Madhva, riteneva che i secondi erano "demoni ingannatori"). Tra di esse pratica e dottrina sono troppo diverse per dire che cambia solo il significato. Anzi la (così marcata) differenza tra le varie religioni è uno dei più grandi misteri per me.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

Citazione di: bluemax il 10 Gennaio 2017, 12:48:17 PM
Citazione di: maral il 10 Gennaio 2017, 11:34:14 AMEcco, la differenza fondamentale tra induismo e buddismo da un lato e Cristianesimo o le altre religioni del Libro credo stia proprio in questo annientamento totale che rappresenta per i primi la suprema gioia. L'annientamento totale coinvolge pure gli dei, anche Brahma (l'essere immenso in cui si realizza il creato e l'illusione), Visnù (la divinità immanente dell'aggregazione, presente in ogni forma esistente) e Shiva (la divinità trascendente della disgregazione) vengono infine annientati. E' qui esattamente l'opposto dell'idea cristiana di un'eternità in cui l'Essere supremo (inteso anche qui in senso trinitario) è eterno e conserva in eterno presso di Sè le anime meritevoli rendendole partecipi della Sua eternità in essere. Questo trattenersi in eterno delle anime individuali, per l'Induismo è al contrario l'essenza stessa della pena e del dolore. E' interessante notare che ad esempio anche la reincarnazione, la trasmigrazione delle anime da una vita all'altra, per l'Occidente assume il significato positivo di un poter in qualche modo ripetere se stessi indefinitamente, mentre per l'Oriente è l'effetto di un karma negativo che potrà risolversi solamente nell'annientamento in cui solo può consistere la vera gioia.
Attenzione ad usare il termine "annientamento". Tale termine non ha nulla a che fare con il "terminare" ma molto piu' simile alla "fusione". In poche parole... "IO" sono un semplice risultato di cause ed effetti a cui partecipa l'intero universo... io e l'universo siamo la stessa "mescolanza", ne faccio parte. Siamo lo stesso mare e l'onda che diviene "io" e non vuole essere "mare", IGNORA di farne parte, presume di essere differente dal mare creandosi un "io" indipendente e quindi sofferenza. :) ciao

Bluemax ciò è vero solo per (alcune) tradizioni che seguono le Upanishads. Già per l'Advaita parlare di "unione" è problematico. Per il buddismo è errato. Infatti per l'Advaita quello che devi riconoscere è che "la natura profonda del tuo essere" è Narguna Brahman dopo aver "distrutto" le illusioni tramite la procedura del Neti-Neti. Motivo per cui non credo che si possa parlare di unione nella tradizione dell'advaita. Per il Buddismo quello che si cercava di fare è tirare via ogni idea del e non unirsi a un "Sé più grande".
In entrambi i casi per "ottenere l'eternità" è quello di "abbandonare l'ego". Non solo però abbandonare il proprio ma tutti gli ego. Fatto ciò si trascendono le distinzioni e rimangono per il buddismo il Nirvana mentre per l'Adviata un "Essere" ma tale essere è per così dire "vuoto", senza attributi.
La cosa interessante è che in queste filosofie la mancanza di eternità è dovuta all'ignoranza mentre per cristianesimo e dvaita al peccato.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

#14
@ bluemax e Apeiron
Quando si parla di annientamento totale, s'intende annientamento totale dell'attaccamento alla falsa concezione di un sé immutabile, eterno e sostanziale.  Non deve intendersi come annientamento della vita e nemmeno come annientamento del sé convenzionale, empirico; quel sé necessario che tutti "noi" usiamo. Altrimenti il buddhismo sarebbe una forma di nichilismo...cosa che evidentemente non è.
Apeiron, c'è una differenza sostanziale tra il neti, neti ( né questo né quello) di matrice vedantina e la Vacuità buddhista. L'induismo è profondamente centrato sul concetto di Essere. In Brahman tutte le cose trovano la loro radice e unità; in questo senso il Brahman appare come il substrato di tutte le cose. Tutte le cose, nonostante le loro forme e nature differenti, hanno nell'Essere (Sat) la loro radice senza alcuna eccezione:
"Come tutti i raggi sono tenuti assieme dal mozzo e dal cerchione di una ruota, proprio così da questo Brahman, tutti gli esseri, tutti gli dei, tutti i mondi, tutte le creature respiranti, tutti questi io sono tenuti assieme..."
(Brhadaranyaka Upanishad)
"Tutte queste creature...hanno la loro radice nell'Essere. hanno l'Essere come loro dimora, L'Essere come loro supporto" (Chandokya Upanishad)
Le Upanishad sottilineano sempre la primaria importanza dell'Essere. L'Essere era al principio, è nel mezzo e si trova alla fine di ogni cosa. L'affermazione negativa concernente il nirguna brahman ( cioè il Brahman privo di attributi), suggerisce solo che il Brahman è non questo, non quello (neti,neti), ma non suggerisce che questo Brahman sia privo di un proprio essere o Io-autonomo.
La vacuità buddhista, al contrario, afferma sia l'aspetto non-è che quello non-c'è; ossia la Vacuità assoluta é, da una parte, non-questo e non-quello,e dall'altra non ha io-autonomo. E' essa stessa completamente vuota; non c'è assolutamente neppure un essere di qualche sorta ( se non come mera designazione mentale convenzionale...).
L'atman vedico è Puro Essere, mentre leggiamo cosa si spinge a dire Subhuti ( discepolo del Buddha) :
"...Io affermo che anche il Nirvana è simile a un sogno e a un'illusione magica".
Chiesero allora:" O Subhuti, stai davvero dicendo che persino il Nirvana è simile ad un sogno e a un'illusione magica?"
Subhuti rispose:" Miei cari, se ci fosse qualcosa di superiore persino al Nirvana, io direi ancora che tal cosa è simile a un sogno e a un'illusione magica. Miei cari, non esiste la benchè minima differenza tra il Nirvana e i sogni e le illusioni magiche".
La dottrina della Vacuità assoluta viene qui chiaramente pronunciata.
Subhuti non era un pazzo. Era un autentico discepolo di Siddharta al quale fu chiesto , una volta, se poteva condensare in una frase il sua Insegnamento. La risposta fu:
"Nulla a cui aggrapparsi". (Nemmeno quindi al concetto di Nirvana...)

P.S. Questa discussione forse era più opportuno inserirla nelle tematiche spirituali. Perché abbiamo abbandonato l'aspetto puramente filosofico per approfondire le differenze filosofiche delle varie religioni... :-\
Sulla strada del bosco
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