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Tempo ed eternità

Aperto da Apeiron, 09 Gennaio 2017, 14:23:37 PM

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Angelo Cannata

Citazione di: Apeiron il 10 Gennaio 2017, 14:40:59 PM
Trovo interessante questa tua posizione. In sostanza stai abbracciando un "finitismo" radicale, che per me come ti avevo già detto è nichilismo. Quindi secondo te il nostro desiderio di "trascendere" è un auto-inganno?
Secondo me una filosofia che voglia sforzarsi di essere buona filosofia deve sforzarsi di aderire per quanto è possibile all'esperienza umana fisica, materiale, irriflessa. La parola eternità mi sembra quanto di più lontano si possa immaginare dall'esperienza umana, è come parlare di asini che volano, pura, purissima immaginazione.
Io mi ritengo nichilista e mi sembra che quanti accusano il nichilismo di essere troppo negativo, distruttivo, nullificante, in realtà ciò che temono annullato sono proprio concetti ultrateorici e ultraimmaginari come appunto quello di eternità, che essi invece considerano irrinunciabili.

Sariputra

Citazione di: Angelo Cannata il 10 Gennaio 2017, 15:07:41 PM
Citazione di: Apeiron il 10 Gennaio 2017, 14:40:59 PMTrovo interessante questa tua posizione. In sostanza stai abbracciando un "finitismo" radicale, che per me come ti avevo già detto è nichilismo. Quindi secondo te il nostro desiderio di "trascendere" è un auto-inganno?
Secondo me una filosofia che voglia sforzarsi di essere buona filosofia deve sforzarsi di aderire per quanto è possibile all'esperienza umana fisica, materiale, irriflessa. La parola eternità mi sembra quanto di più lontano si possa immaginare dall'esperienza umana, è come parlare di asini che volano, pura, purissima immaginazione. Io mi ritengo nichilista e mi sembra che quanti accusano il nichilismo di essere troppo negativo, distruttivo, nullificante, in realtà ciò che temono annullato sono proprio concetti ultrateorici e ultraimmaginari come appunto quello di eternità, che essi invece considerano irrinunciabili.

Il termine "nichilismo" ( dal latino nihil, niente), non gode di buona reputazione perché viene comunemente , a torto ma anche a ragione, ritenuto evidenziare comportamenti rinunciatari, rivolti alla distruzione di qualsivoglia istituzione e di qualsiasi sistema di valori , sia sociali che morali. Dostoevskij, nei Dèmoni, ne trae  un'efficace ritratto nella figura di Nikolaj Stavrogin; un essere che appare impermeabile a qualsivoglia emozione, inumano, distaccato e distante, afflitto da una specie di noia esistenziale che lo spingerà ad uccidere, per vedere quello che si prova...infliggere sofferenza ( di solito all'altro... ;D) per dimostrare l'affrancamento da qualsiasi falsa ( ritenuta falsa dal nichilista...) morale. Personalmente lo vedo un sistema di pensiero dogmatico: è l'esatto contrario del Tutto-esiste, altro dogmatismo...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Angelo Cannata

Citazione di: Sariputra il 10 Gennaio 2017, 15:46:20 PM
Personalmente lo vedo un sistema di pensiero dogmatico: è l'esatto contrario del Tutto-esiste, altro dogmatismo...
Sicuramente esistono molte versioni di nichilismo, come di relativismo ecc. Un criterio che io cerco di usare è quello di applicare ogni metodo anzitutto a se stesso. Così sono uno che dubita, ma ogni dubitare che si rispetti deve dubitare anzitutto di se stesso; e così ogni nichilismo e ogni relativismo. Il mio nichilismo è rinuncia ad assumere posizioni certe, rinuncia ad ogni verità, rinuncia alla rinuncia, considerando che nell'esistenza può anche accadere che si trovi preferibile parteggiare per qualcosa. Il tempo mi permette tutto questo: a volte rinuncio, a volte parteggio. Penso che una buona filosofia debba anche prendere atto che non potrà sottrarsi alla necessità di esprimersi in un linguaggio umano e il linguaggio umano è capace di mille tradimenti e ambiguità; un "probabilmente" detto mille volte può diventare più forte di una certezza. Non ha senso pensare che una certezza sia diventata tale nella nostra mente solo perché filosoficamente vi abbiamo aderito. Siamo tutti capaci di essere infedeli alle nostre stesse convinzioni, non c'è problema a trovare giustificazioni a tutto.
Ora, in questo mio contesto mentale, il concetto di eternità mi viene a risultare troppo lontano da questo essere contaminato di ciò che è umano. Il concetto di eternità non può essere contaminato, non è possibile pensare che esistano cose "un po' eterne". E allora il concetto di eterno mi risulta falso, alieno dalla natura umana. Invece il dubitare, il relativismo, il nichilismo, mi sembrano più disponibili ad essere inquinati, distorti, relativizzati, quindi più vicini all'umano. Quest'amore per la contaminazione, l'imperfezione, potrebbe apparire amore per la disonestà mentale, ma penso che disonesto sia ciò che viene tenuto nascosto, ciò che non si vuole ammettere. Io non nascondo questo parteggiare per il contaminato, lavoro per giocare a carte scoperte, anzitutto con me stesso, pur sapendo che anche ciò è ben lungi dall'essere una meta definibile.

baylham

Il desiderio, la gioia di vivere, è la forza più potente, non la paura della morte, che rimane sullo sfondo.

Il desiderio, la curiosità, sono la spinta all'avventura, all'esplorazione, al cambiamento. La conservazione riguarda ciò che è positivo, buono, bello, giusto della realtà, che è normalmente ambivalente.

Sebbene con schemi interpretativi diversi, mi trovo d'accordo con Severino che ogni ente sia eterno. Ogni cosa è parte di un essere infinito ed eterno, è essa stessa eterna, incancellabile, infinita.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

L'infinito di Leopardi.

Apeiron

#19
@Sariputra,
Lo terrei qui per due motivi: possiamo considerare la "deviazione religiosa" come il solito off-topic e tornare a parlare in termini filosofici. Se i moderatori pensano che il danno è fatto, non mi oppongo a spostarla, riconoscendo la mia colpa nella divagazione! In ogni caso grazie della lezione sulle Upanishads. Comunque il mio topic era pensato come una libera riflessione sulla questione "tempo vs eternità", non volevo discutere una particolare idea di essa e quindi ritengo che comprendere le posizioni di tradizioni religiose su questa questione sia ancora una riflessione filosofica.

Citazione di: baylham il 10 Gennaio 2017, 19:08:07 PMIl desiderio, la gioia di vivere, è la forza più potente, non la paura della morte, che rimane sullo sfondo. Il desiderio, la curiosità, sono la spinta all'avventura, all'esplorazione, al cambiamento. La conservazione riguarda ciò che è positivo, buono, bello, giusto della realtà, che è normalmente ambivalente. Sebbene con schemi interpretativi diversi, mi trovo d'accordo con Severino che ogni ente sia eterno. Ogni cosa è parte di un essere infinito ed eterno, è essa stessa eterna, incancellabile, infinita. Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare. L'infinito di Leopardi.

Bellissimo l'infinito  :D  Comunque se esiste una visione delle cose sub specie aeternitatis allora certamente ogni ente è eterno. Anzi ogni momento è eterno. Spinoza riteneva che il modo giusto di vedere le cose era come "modi" della Sostanza.  Nel suo caso visto che tutto era necessario allora il tempo era illusorio, una distorsione della nostra natura finita. Quello che bisognava fare era comprendere che l'Esistenza è Necessità. La pluralità perciò era in modo analogo all'Advaita una distorsione, esattamente come il tempo. Tuttavia secondo me il problema di questa visione è che non spiega il motivo per cui noi siamo inconsapevoli di ciò e inoltre non spiega veramente il molteplice, lo deve "assumere" dall'esperienza. Inoltre questa visione non lascia scampo al libero arbitrio.
Nella mia visione l'eternità e tempo sono due realtà diverse. Questo mondo è temporale, imperfetto e quindi "insoddisfacente". La temporalità denota dunque il fatto che gli "enti" di questo mondo sono dipendenti, non sono sostanziali ecc. L'eternità invece coincide con la realtà perfetta che è aldilà di ogni disgregazione, distruzione ecc. Noi non possiamo però comprenderla visto che siamo nel tempo. Il fatto che la aneliamo a mio giudizio denota tuttavia che questa "realtà perfetta" c'è. E non appena riusciamo a "contattarla" (perdonate il termine, non so trovarne uno migliore) "trascendiamo" la temporalità per il fatto che vivivamo in un altro modo. Quello che avviene cioè è un cambiamento di prospettiva che cambia il modo di vedere le cose. Ogni concettualizzazione però di questo "oltre" è però a sua volta imperfetta e a mio giudizio è bene scegliere quella che per noi è la migliore.

Pensiamo ad esempio a un libro. Dal punto di vista dei personaggi il loro mondo è tutta la loro realtà. Lo scrittore vuole però conferire alla sua storia un carattere "elevato" nel senso che la sua storia non è una mera collezione di fatti ma ha un messaggio, una trama che non sono note ai personaggi. Il personaggio magari si può immaginare di essere in un libro tuttavia non conoscendo la trama se tenterà di spiegare agli altri personaggi la sua intuizione lo prenderanno poco sul serio proprio perchè la sua descrizione della trama farà acqua da tutte le parti. Quindi se la sua intuizione è giusta quello che sbaglia è "attaccarsi" troppo alla sua versione della trama. Chiaramente un personaggio che sa di essere in una trama, che la sua storia ha un senso ecc vivrà in modo diverso da uno che non si pone il problema.

Dunque a mio giudizio l'eternità è (anche) un modo diverso di vedere il mondo ma non nel senso spinozistico.

Sono però convinto che fare un sistema filosofico su questa questione sia impossibile. Ogni tentativo di formalizzare questi concetti si rivela ahimé in una chimera!
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

"Ah! Se avessi tempo farei un bel viaggio"; ci diciamo spessso. "Se avessi un pò più di tempo risolverei quel problema che ho con mia moglie"..."Vorrei avere più tempo per seguire mio figlio"..."Mi manca il tempo per dedicarmi agli altri"...In noi c'è sempre questa fame di tempo; il tempo sembra non bastare mai. Questo desiderio di tempo diventa una sorta di contenitore illusorio dentro cui, ci immaginiamo, poter soddisfare gli inesauribili altri desideri. Purtroppo disponiamo di un tempo limitato: chi due anni, chi venti, chi cento, alcuni pochi giorni soltanto. "Era così giovane!" Esclamiamo davanti alla morte di un bimbo; oppure :"Aveva ancora così tanto da vivere!". Questo sentimento della durata è potentissimo in noi e mi sembra non sia distinguibile dal quel famoso primo sentire di esistere di cui parlava Maritain, che ho già citato. Nel momento in cui sentiamo di esistere come qualcosa in se stessa fondata, appare anche la sensazione della durata. Essere diventa così "essere nel tempo" o anche "durare nel tempo". In effetti sembra proprio che abbiamo bisogno di tempo per sentire d'essere o, per meglio dire, quando sentiamo di essere creiamo il nostro tempo. Quale durata di tempo crea un feto nell'utero materno, quando ancora non sa di essere e non sa di dover cessare d'essere? Non vi è alcun tempo psicologico, eppure c'è vita. Se il sentimento di essere ( o coscienza d'essere) è così inestricabilmente intrecciato con il sentimento della durata ( che è la costruzione psicologica di un tempo d'essere) ne consegue che è inconcepibile per l'Essere il sentimento della cessazione del tempo psicologico, da se stesso creato e che crea il proprio essere stesso. La morte, che è sostanzialmente la cessazione del proprio tempo psicologico e quindi del proprio "essere nella durata del tempo",  diventa non solo il Grande Nemico di questa creatura formatasi dalla coscienza di essere nella durata del tempo da se stessa creato, ma necessariamente la porta per un'ulteriore durata di tempo. Questa porta , immaginata sull'apoteosi di tutti i desideri dell'essere nel tempo ( e quindi "paradiso" in quanto ho finalmente tutto il tempo che mi serve), oltre che dimostrare il profondo attaccamento della sensazione d'essere alla propria durata, non apre solamente ma anche funge da barriera, da porta sbarrata davanti al pensiero di non-essere che l'osservazione e la ragione sembrano voler insinuare alla coscienza stessa. Se la ragione sussurra alla coscienza d'essere." Osserva la vita! Guarda come tutto si trasforma in continuazione da sempre. Perché non l'accetti? Perché ti opponi alla tua trasformazione?" Questa sensazione di essere in una durata di tempo chiude gli occhi ( metaforicamente parlando...) all'evidenza o si ribella a questo ineluttabile passare, a questa perdita del proprio tempo interiore e , prendendo la ragione sotto braccio, obietta:" Cara mia, tu vedi che tutto si trasforma, ma io non sono una parte di quel tutto che vedi. Io sono diversa, non ne faccio parte, io l'osservo soltanto questa trasformazione. Io sono lo spettatore che se ne sta seduto con i pop-corn in mano a guardare il film della trasformazione, così interessante"...
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Apeiron

Sariputra, il problema che ho col buddismo è il seguente. Buddha dice in sostanza che ogni rinascita, perfino nei paradisi è impermanente cioè non è eterna. Buddha in sostanza ti dice: guarda per quanto ti possa andare bene arriverai in uno stato paradisiaco il quale è certamente pieno di gioia ma è in ultima analisi pericoloso perchè non è di durata infinita. Il buddismo "crolla" se ci fosse uno stato di eternità "gioiosa". E di fatto ci piazza "il suo", il Nirvana (so che tu mi dirai che il Nirvana non è una "vita eterna" e lo so anche io). Non mi puoi negare che dopotutto Buddha diceva che "la vita è sofferenza" per via dell'impermanenza, ossia che ad esempio gustarsi una buonissima torta è "dukkha" proprio perchè è "anicca". Infatti Buddha afferma chiaramente che il problema delle rinascite nel paradiso tra i deva è che gli stessi deva hanno una vita finita, ma lunghissima.

Il vero problema che volevo porre è: se anche vivessimo in eterno (quindi assumendo se vogliamo una "rinascita in un mondo permanente e non soggetto a malattia, vecchiaia e morte") questa "vita eterna" sarebbe veramente soddisfacente per noi? A mio giudizio questo crea un "paradosso" (anzi a mio giudizio è il Mistero centrale della vita) che condiziona tutta la vita umana. Noi desideriamo l'eternità eppure non appena cominciamo ad immaginarcela seriamente questa ci terrorizza perchè ci sentiamo imprigionati. Come risolvere cio? O sperando che l'eternità non sia una prigione (sperando che l'eternità non è quello che riusciamo ad immaginarci...), o togliendoci il desiderio di vita oppure perdere l'identità.

I greci speravano nella fama, per loro la vita eterna era anche l'essere ricordati tra i posteri. Forse che l'eternità come dice baylham è la memoria che imprimiamo sul mondo. Sì se il mondo fosse eterno...
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Sariputra

Citazione di: Apeiron il 11 Gennaio 2017, 12:35:17 PMSariputra, il problema che ho col buddismo è il seguente. Buddha dice in sostanza che ogni rinascita, perfino nei paradisi è impermanente cioè non è eterna. Buddha in sostanza ti dice: guarda per quanto ti possa andare bene arriverai in uno stato paradisiaco il quale è certamente pieno di gioia ma è in ultima analisi pericoloso perchè non è di durata infinita. Il buddismo "crolla" se ci fosse uno stato di eternità "gioiosa". E di fatto ci piazza "il suo", il Nirvana (so che tu mi dirai che il Nirvana non è una "vita eterna" e lo so anche io). Non mi puoi negare che dopotutto Buddha diceva che "la vita è sofferenza" per via dell'impermanenza, ossia che ad esempio gustarsi una buonissima torta è "dukkha" proprio perchè è "anicca". Infatti Buddha afferma chiaramente che il problema delle rinascite nel paradiso tra i deva è che gli stessi deva hanno una vita finita, ma lunghissima. Il vero problema che volevo porre è: se anche vivessimo in eterno (quindi assumendo se vogliamo una "rinascita in un mondo permanente e non soggetto a malattia, vecchiaia e morte") questa "vita eterna" sarebbe veramente soddisfacente per noi? A mio giudizio questo crea un "paradosso" (anzi a mio giudizio è il Mistero centrale della vita) che condiziona tutta la vita umana. Noi desideriamo l'eternità eppure non appena cominciamo ad immaginarcela seriamente questa ci terrorizza perchè ci sentiamo imprigionati. Come risolvere cio? O sperando che l'eternità non sia una prigione (sperando che l'eternità non è quello che riusciamo ad immaginarci...), o togliendoci il desiderio di vita oppure perdere l'identità. I greci speravano nella fama, per loro la vita eterna era anche l'essere ricordati tra i posteri. Forse che l'eternità come dice baylham è la memoria che imprimiamo sul mondo. Sì se il mondo fosse eterno...

Beh, quello di sperare nella fama e negli onori del mondo, come aspiravano i greci, mi sembra il più inconsistente dei "paradisi".  Dove sei per gustarti questa fama? Ridicolo...tra l'altro poi tutti quanti ti reinterpreteranno a loro uso e consumo e in base alle loro visioni del mondo...E quello che hai prodotto o lasciato ti rappresenta veramente? Quello che Sari, per es., scrive sul forum esaurisce Sari? ...
Per rispondere alla tua domanda, direi : se la vita eterna ( ma sarebbe più esatto dire "la vita perpetua" come ha fatto notare Donquixote nel topic di spiritualità...) significa che questo mio senso dell'Io-autonomo sopravvive alla trasformazione del corpo nella morte e finisce in altro luogo dove dura un tempo senza fine, non potrebbe gustare vera beatitudine perché l'Io è una creatura dell'attaccamento e che vive  e si nutre del senso di separazione da ciò che non è Io. Una vera beatitudine potrebbe manifestarsi solo nell'annullamento dell'Io personale nella totalità dell' eventuale divinità che ha creato il tutto. Annullandosi l'io personale però verrebbe a mancare il soggetto che può pensare."Ecco, sono beato come un riccio! ;D...che bella questa perpetua beatitudine!".
In realtà quello che le religioni teiste sostengono è che proprio questo Io personale, questo Sari di Sotto il Monte, con i suoi ricordi, con i suoi affetti e con la sua infinita collezione di peccati , legati per sempre dietro di lui come le lattine colorate alla marmitta dell'auto degli sposi, entra, dopo opportuna valutazione, in questo regno di gioia perpetua.
Il problema grosso, a mio modesto avviso, che qui si pone è quello di definire cos'è esattamente quell'Io personale, quel Sari di Sotto il Monte che eventualmente si presenta alle porte della dimora divina. Essendo il Sari, come qualunque cosa, un processo causato e condizionato in divenire, qual'è il "vero Sari" che merita di entrare nel convito dei santi?  Questo svela l'interpretazione lineare del tempo che ci immaginiamo come una linea con un inizio e una fine e con un processo di sviluppo che dovrebbe culminare con il "vero me stesso" . Osservando la vita però notiamo che così non è. Molti muoiono prima di sviluppare alcun senso di un Io-autonomo, altri prima ancora di vedere la Luce di questo mondo, altri perdono il loro senso dell'Io-autonomo nello sfacelo della demenza. Per ovviare al problema si è inventato lo "spirito"; ma nessuno sa quali sono gli attributi dello spirito, ossia quali sono gli attributi di una cosa non soggetta al divenire. la coscienza? Ma la coscienza non esiste intrinsecamente, è sempre coscienza di qualcosa, e quel qualcosa di cui si nutre la coscienza è sempre in divenire. Pertanto, se anche la coscienza sopravvive alla morte, ha sempre bisogno per essere di un oggetto di coscienza, ha bisogno di vedere "davanti a sé " qualcosa, ha bisogno di "vedersi" separata da Dio per riconoscerlo. Ma la coscienza non è memoria e quindi non saremmo "noi stessi" come comunemente ci intendiamo a gustare questa separazione e questa visione. Dovrebbe essere qualcosa di totalmente altro da "noi stessi". E l'Io-autonomo sarebbe spacciato lo stesso..."noi" saremmo ( io sostengo che siamo...) spacciati! ( il che non lo vedo come una maledizione, anzi...non mi potrei sopportare per l'eternità/perpetua...già faccio fatica adesso :-[). Perderemmo la nostra tanto amata identità, che è fatta di memoria e costruita sulla memoria...( e i peccati dove vanno? L'è dura da mandar giù questa idea, ha troppe ombre e poche luci...).

Su dukkha...il piacere non è sofferenza . E' l'attaccamento alle sensazioni di piacere che genera la sofferenza, perché ci spinge continuamente a reiterare questo attaccamento. Per questo si insegna a vedere anche il piacere come possibile fonte di sofferenza. Infatti viene detto che la gioia più vera è data dal non attaccarsi al desiderio di provare gioia... ;D ;D ;D
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Apeiron

@Sariputra
Concordo che quello greco sia il più inconsistente dei "paradisi" perchè appunto si basa solo sulle nostre aspirazioni e sulle aspirazioni dei posteri. Inoltre se l'umanità si estingue l'eternità va a farsi friggere.

L'eternità a mio giudizio diventa sopportabile se e solo se appunto tutto ciò che caratterizza la vita "terrena" cambia. Se anche rimanessi "io" non potrei sopportarmi all'infinito. Quindi a questo punto dovremo pensare che la presenza dell'eventuale Dio attiri per così dire la mia mente completamente, la svuoti da pensieri auto-referenziali e mi dia un senso di "pace infinita". Oppure questa eternità si risolve con l'abbandono dell'io. Se l'eternità non è così allora è disperazione pura!

Concordo con te poi sulla questione dello spirito, del "vero io" che è oscurissima e per nulla evidente. Ad esempio se il vero io fosse la coscienza essa sarebbe diversa di quella di un neonato Quindi anche nel dopo-la-morte se incontrassi tale neonato come potrei parlargli, mi capirebbe? C'è ovviamente qualcosa di impreciso in tutto questo...

Sulla questione di dukkha comunque non hai risposto :) pensa ad uno stato in cui puoi mangiare all'infinito una buonissima torta senza aver "problemi". In questo caso l'attaccamento non costituisce sofferenza. Costituisce sofferenza solo se ci si attacca ad un piacere che è di durata finita :)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

maral

#24
Mah... non sono un esperto di Induismo o di Buddismo e delle varie articolazioni di queste religioni e dubito che un Occidentale possa davvero comprenderne il pensiero che le regge, ma nella versione interpretativa di Alain Danielou sull'Induismo è proprio di annientamento come stato supremo che si parla. Annientamento che non è una fusione del Sé con un universo o una totalità che continua a essere, ma è annientamento del Sé e annientamento della intera totalità cosmica, Dei compresi. E' un reale stato di sonno profondo da cui ogni sogno è finalmente assente.
Non so se questo possa considerarsi nichilismo, nichilismo è un termine Occidentale, un modo di vedere e di sentire dell'Occidente, sempre venato da un esistenzialismo che credo sconosciuto in Oriente. Può essere comunque che Danielou, anche se ha vissuto molti anni in Oriente a studiare i testi sacri induisti ne sia influenzato. La coesione e quindi la fusione, lui dice, è data da Visnù che rappresenta il principio immanente, presente in ogni cosa, la disgregazione da Shiva che rappresenta sia l'aspetto distruttivo che la pace suprema della non esistenza cosmica ed è trascendente, Mentre Brahma è il principio dell'equilibrio che appare nella Totalità (Brahaman) come un movimento vorticante determinante quello spazio solo nel quale le cose possono esistere. Ma anche questi tre principi sono destinati a disgregarsi, anche Brahama con tutto il suo spazio vorticante creatore, dunque non resta proprio nulla. E questo è ben rappresentato dalla dea Kali (Potenza suprema e invincibile del Tempo), terrificante, ma allo stesso tempo vera portatrice della suprema gioia del totale annientamento finale.
Temo peraltro che anche i termini di Essere e Non Essere siano troppo legati a un modo di intenderli Occidentale.
Resta il fatto che sia in termini religiosi che filosofici c'è chi vuole rimanere a tutti i costi e c'è chi non vuole rimanere per nulla, nel senso più radicale del termine.

Sariputra

#25
Citazione di: Apeiron il 11 Gennaio 2017, 17:20:27 PM@Sariputra Concordo che quello greco sia il più inconsistente dei "paradisi" perchè appunto si basa solo sulle nostre aspirazioni e sulle aspirazioni dei posteri. Inoltre se l'umanità si estingue l'eternità va a farsi friggere. L'eternità a mio giudizio diventa sopportabile se e solo se appunto tutto ciò che caratterizza la vita "terrena" cambia. Se anche rimanessi "io" non potrei sopportarmi all'infinito. Quindi a questo punto dovremo pensare che la presenza dell'eventuale Dio attiri per così dire la mia mente completamente, la svuoti da pensieri auto-referenziali e mi dia un senso di "pace infinita". Oppure questa eternità si risolve con l'abbandono dell'io. Se l'eternità non è così allora è disperazione pura! Concordo con te poi sulla questione dello spirito, del "vero io" che è oscurissima e per nulla evidente. Ad esempio se il vero io fosse la coscienza essa sarebbe diversa di quella di un neonato Quindi anche nel dopo-la-morte se incontrassi tale neonato come potrei parlargli, mi capirebbe? C'è ovviamente qualcosa di impreciso in tutto questo... Sulla questione di dukkha comunque non hai risposto :) pensa ad uno stato in cui puoi mangiare all'infinito una buonissima torta senza aver "problemi". In questo caso l'attaccamento non costituisce sofferenza. Costituisce sofferenza solo se ci si attacca ad un piacere che è di durata finita :)

Apeiron , se si potesse mangiare all'infinito una buonissima torta ( io preferirei dei cesti infiniti di cannoli siciliani... :P ) senza aver alcun problema di attaccamento e di glicemia...io farei il pasticcere ;D ! Ma siamo sicuri che, dopo  2 miliardi di anni di abbuffate, saremo felici di continuare a farlo?  A me sembra che l'io umano si stanchi velocemente di tutto e, curioso come una scimmia, si avventi sempre sulla novità, che spera dia una felicità ancora maggiore. Se ci fosse un "paradiso" per questo nostro io, dovrebbe per forza cambiare in continuazione, perché noi non siamo esseri capaci di stare in pace e soddisfatti. Noi vogliamo sempre qualcos'altro...ci stancheremmo persino di Dio stesso ! Nel caso del buddhismo è evidente che, se realmente esistesse uno stato di completa soddisfazione senza conseguenze spiacevoli, non ci sarebbe alcun Dharma e non sarebbe apparso alcun Buddha...


Maral, da quel che so Alain Danielou era un fervente shivaita , ossia adoratore del dio Shiva ( ex-Rudra), una divinità pre-vedica, ma che è poi diventata una delle principali divinità dela pantheon hindu. Shiva è una divinità che noi occidentali ( e hai perfettamente ragione sul fatto che noi non riusciamo veramente ad entrare nel significato hindu della spiritualità...) definiremmo "contraddittoria". Contradditoria per i nostri parametri e per il nostro bisogno di sviluppo logico anche della spiritualià. Shiva-Rudra a volte viene adorato come il disgregatore/distruttore del cosmo, ma poi diventa anche il rigeneratore ( il Lingam, simbolo fallico che rappresenta la fecondità rigenerativa di Shiva ne è il tipico simbolo). Nella sua danza cosmica nascita e morte vanno a braccetto e Shiva, scatenato danzatore nudo e sensuale tenta le mogli dei sacerdoti e degli asceti. Una divinità dal doppio volto, dissoluto ma nello stesso tempo signore di tutti gli yogin, il supremo asceta. Credo che abbia una trentina di nomi diversi che indicano altrettante qualità e attributi... :( ( non mi sono dato pena di studiarli tutti, lo confesso, e recito un cristiano e occidentale mea-culpa...).
Sul fatto che l'Induismo sia un sistema atta(cioè basato sull'idea del Braham assoluto, dell'Essere puro) credo ci siano pochi dubbi. Però, come nel buddhismo, c'è l'obiettivo spirituale della liberazione dal mondo, che si dissolve e si rigenera nella lila , nel gioco, di Brahman. Per ottenere questa Liberazione (moksha) è necessario l'annientamento totale del sé personale, ma l'annientamento avviene nella comprensione dell'unità dell'atman con il Brahman, l'Assoluto impersonale o sovrapersonale.
Cito, come sempre, il grande santo hindu Ramakrishna per spiegare questo concetto di Brahman:
L'Assoluto è l'Essere non condizionato da nulla; né dal tempo, né dallo spazio,né dalla causalità. Come potrebbero le parole riuscire ad esprimerlo? L' Assoluto è insondabile come l'oceano. Non se ne può predicare cosa alcuna. L'Essere al di là dei limiti della relatività, di ogni esistenza. L'ultimo e timido tentativo fatto per descriverlo è quello dei Veda, che lo chiamano Beatitudine ( ananda) eterna...
Brahman è senza attributi. E' immutabile, inalterabile e fermo come il Monte Meru. Il Suo nome è Intelligenza ( chinmaya). La Sua Dimora è Intelligenza e lui, il Signore, è tutto Intelligenza...ecc."
Direi che non ci sono dubbi che sia un sistema Atta ( quello che noi occidentali chiamiamo Essere...)
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maral

#26
Non so, ma ci sento una differenza tra ciò di cui mi parli come Atta e ciò che noi occidentali chiamiamo Essere. Perché l'Essere, che è concepito come tale in Occidente da Parmenide nel suo poema (ed è da lì che nasce la filosofia dell'Occidente) è figura del Logos, mentre non mi pare che possa considerarsi così per Atta, per come me lo dici, esso infatti trascende in partenenza ogni possibilità del Logos. E' Parmenide infatti che facendo parlare la Dea (quindi, se si vuole, il pensiero mitico) le fa dire di non credere a ciò che essa dice perché lo dice, ma in virtù di un giudizio raziocinante, ossia del Logos e così dicendo la dea distrugge il pensiero mitico che incarna. Il pensiero orientale invece non mi sembra che abbia mai vissuto questa contrapposizione così escludente tra pensiero mitico e razionalità, nel pensiero orientale l'ancoraggio al mito resta e per questo l'essenza è non essenza, è del tutto inesprimibile, è illuminazione completamente paradossale a cui il pensiero logico che astrattamente e definitivamente separa Essere e Non essere (o anche Ente e Niente)  non può giungere in alcun modo.
Forse qualcosa di più simile che non l'Essere parmenideo, potrebbe essere l'Infinito (Apeiron) di Anassimandro. Nel frammento di Anassimandro c'è scritto che « principio degli esseri è l'infinito (ápeiron)....da dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo. » Dove l'ingiustizia è proprio quella che commette ogni essere venendo a esistere, ossia separandosi dall'infinito e l'espiazione che ristabilisce la giustizia è il karma delle reincarnazioni.

Apeiron

Sariputra, scusa se insisto col mio argomento ma secondo me non hai capito il punto. Devi supporre che tutta la vita "di durata infinita" la passi a mangiarti e gustarti quella torta e provi piacere ininiterrotto nel farlo. Cioè non hai noia, altri desideri ecc. In questo caso avresti una vita infinita, non avresti problemi di vecchiaia, malattia e morte. Se vuoi è un "paradiso dei piaceri" (mi pare che un tale reame di esistenza sia presente nella cosmologia buddista) che non finisce mai. In questo caso non hai il problema dell'impermanenza. Quindi se ti attacchi anche a questi piaceri non soffrirai mai. Eppure a mio giudizio questo "paradiso" non lo vedrei come un'elevazione della mia condizione ma come una sorta di "declassamento". Ecco quello che mi fa strano del buddismo (e qui ti chiedo di illuminarmi se sbaglio) è che l'attaccamento ai piaceri è visto come una cosa negativa solo perchè tali piaceri sono impermanenti. Non mi sembra che l'unica cosa per cui decidere se una cosa è negativa è se non porta piacere o se è transitoria. Mi pare che al Buddha gli sia venuto il trasalimento (samvega) proprio perchè ha intuito che ognuno dei 31 piani di esistenza era impermanente. E infatti per questo motivo ha cercato il "senza-morte" (amrita). Mi chiedo dunque la seguente cosa: se Siddharta Gotama Buddha avesse scoperto che uno dei livelli dei deva fosse "senza-morte" avrebbe comunque cercato di uscire dalla "prigione" del samsara (ritenendola possibile anche in questo scenario, ovviamente...)? Infatti Buddha mi sembra che dica: guarda smettila di desiderare l'eternità perchè invece dell'eternità ti ritroverai sempre ad abitare mondi soggetti alla disgregazione.
Un'eternià di edonismo sinceramente non mi sembra soddisfacente perchè pur dando piacere non darebbe l'elevazione necessaria a mio giudizio a distinguere l'eternità propriamente detta ("eternità" è una parola che a mio giudizio da un'idea di elevazione rispetto alla temporalità, anche se essa è infinita...) con la "perpetuità". Io vedrei l'eternità a compiacermi della torta in modo simile ad un effetto di una droga: un piacere illusorio perpetuo.

Maral, le Liberazioni dell'Adviata e del Buddismo hanno una descrizione metafisica (come giustamente osserva Sariputra) completamente diversa però come "esperienze" vengono descritte in modo simile. Moksha nell'Advaita è pensata come una Pace Assoluta ancora più tranquilla di un sogno senza sogni mentre il Nirvana è la Cessazione di tutti i condizionamenti e viene descritto in modo simile all'estinzione di una fiamma. In entrambi i casi abbiamo quindi una cessazione, uno spegnimento. Io stesso non vedo altro che il Nulla in queste parole. Eppure loro (e anche Sariputra  ;D ) insistono che la liberazione non è il Nulla, ma forse siamo troppo occidentali (o comunque troppo lontani dal Risveglio) per capire la differenza. In ogni caso per entrambe le filosofie citate la Liberazione è data dalla completa liberazione dall'ignoranza (un po' come la pulizia che si fa dell'acqua per renderla limpida) e dall'ottenimento di uno stato di Coscienza diverso da quello normale (per l'Advaita la coscienza di Brahman è più profonda di quella dello stato di sonno senza sogni mentre per il Buddismo la coscienza del Nirvana  è "assoluta, ultima, senza confini". Ripeto dal punto di vista esperienziale non vedo molta differenza nelle due filosofie...).
Ma ripeto un sogno senza sogni non mi sembra nemmeno a me una vita eterna ma la morte, l'annientamento completo.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

Citazione di: maral il 11 Gennaio 2017, 23:01:01 PMNon so, ma ci sento una differenza tra ciò di cui mi parli come Atta e ciò che noi occidentali chiamiamo Essere. Perché l'Essere, che è concepito come tale in Occidente da Parmenide nel suo poema (ed è da lì che nasce la filosofia dell'Occidente) è figura del Logos, mentre non mi pare che possa considerarsi così per Atta, per come me lo dici, esso infatti trascende in partenenza ogni possibilità del Logos. E' Parmenide infatti che facendo parlare la Dea (quindi, se si vuole, il pensiero mitico) le fa dire di non credere a ciò che essa dice perché lo dice, ma in virtù di un giudizio raziocinante, ossia del Logos e così dicendo la dea distrugge il pensiero mitico che incarna. Il pensiero orientale invece non mi sembra che abbia mai vissuto questa contrapposizione così escludente tra pensiero mitico e razionalità, nel pensiero orientale l'ancoraggio al mito resta e per questo l'essenza è non essenza, è del tutto inesprimibile, è illuminazione completamente paradossale a cui il pensiero logico che astrattamente e definitivamente separa Essere e Non essere (o anche Ente e Niente) non può giungere in alcun modo. Forse qualcosa di più simile che non l'Essere parmenideo, potrebbe essere l'Infinito (Apeiron) di Anassimandro. Nel frammento di Anassimandro c'è scritto che « principio degli esseri è l'infinito (ápeiron)....da dove infatti gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo. » Dove l'ingiustizia è proprio quella che commette ogni essere venendo a esistere, ossia separandosi dall'infinito e l'espiazione che ristabilisce la giustizia è il karma delle reincarnazioni.

Da come interpreto io Anassimandro l'apeiron è eterno proprio perchè non ha confini ed è privo di determinazioni. Tutta l'esistenza finita e determinata è costretta a commettere ingiustizie l'una contro l'altra e queste ingiustizie vengono espiate con la morte (non so se l'ingiustizia si possa intepretare come la "caduta" dall'apeiron, una sorta di peccato originale. Interpretazione interessante che sottoscrivo ma che non è evidente dal testo). Perciò da una parte abbiamo un elemento eterno "orientale" e dall'altro un giudizio morale sul mondo: il mondo finito si trova a dover fare i conti col peccato perchè è una sorta di "stato caduto" rispetto all'apeiron!
Secondo quindi Anassimandro l'esistenza finita necessariamente conduce al peccato contro gli altri esseri. La liberazione avviene con l'espiazione di tutti i peccati e ciò permette il ritorno nell'apeiron e alla "vita eterna".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

maral

CitazionePerciò da una parte abbiamo un elemento eterno "orientale" e dall'altro un giudizio morale sul mondo: il mondo finito si trova a dover fare i conti col peccato perchè è una sorta di "stato caduto" rispetto all'apeiron!
Se l'interpretazione è corretta la caduta è l'esistenza degli enti (di ogni ente come tale), ossia l'esistenza stessa.
Comunque Severino ci ha scritto una buona metà del suo ultimo libro teoretico in merito proprio al frammento di Anassimandro e direi che è tra i suoi libri migliori.

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