Tecniche di solitudine, saggezza antica e scenari futuri per la filosofia

Aperto da Kobayashi, 30 Novembre 2017, 07:57:06 AM

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sgiombo

Citazione di: InVerno il 09 Dicembre 2017, 21:39:17 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Dicembre 2017, 18:55:10 PM
Citazione di: Kobayashi il 09 Dicembre 2017, 16:10:56 PM
CitazioneLa forza dei dominanti sta proprio soprattutto in questo luogo comune, che sono riusciti a diffondere a livello di massa, del preteso "fallimento" del tentativo leninista
Uno sforzo microscopico, essendo che non solo il tentativo leninista fallito, ma anche tutti i singoli tentativi "spontanei" comunitari, non è rimasta una singola comune in piedi, nemmeno sotto falso nome o sotto i più bislacchi stendardi (tipo i mormoni) nemmeno nelle borgate, nemmeno a livello di amministrazione di condominio, sono tutte implose da sole anche dove il capitale non riusciva a penetrare perchè nemmeno c'erano le strade, persino gli Elfi toscani si sono disciolti. Le "fake news" ebbero davvero vita facile davanti a tanto spontaneo fallimento...
CitazioneCome volevasi dimostrare.

sgiombo

Citazione di: Kobayashi il 10 Dicembre 2017, 09:33:01 AM
A green demetr che scrive "bisogna ripartire da Cartesio" rispondo: cioè dovremmo tornare al razionalismo del Seicento e di nuovo a persuaderci che la nostra ragione, pura, limpida, se ben condotta da un metodo ci può portare alla costruzione di nuovi sistemi metafisici?
Ma se tutta la filosofia da Nietzsche in poi non è stata altro che lo smantellamento di queste convinzioni!

Stavolta concordo proprio convintamente con Green: dopo dIstruziioni devastanti bisogna RICOSTRUIRE!

E poi se la questione è: di fronte alla crisi spirituale ed esistenziale dei nostri tempi, quale può essere il ruolo della filosofia? La risposta non può essere un ritorno a uno di quei fondamenti – un certo tipo di razionalità di cui Cartesio è fondatore e simbolo – ormai superati.
CitazioneSecondo il mio modesto parere il razionalismo non é affatto superato, é solo stato in larga misura disastrosamente accantonato, messo in minoranza, combattuto selvaggiamente in quest' epoca di decadenza sfrenata (come di regola accade in tutte le epoche di decadenza della civiltà umana).
Dunque va ripreso e sviluppato.


La crisi attuale non è il sintomo della perdita di Dio nelle sue diverse forme.
Gli europei non sono depressi perché non riescono a elaborare un lutto. Sono in realtà catatonici perché non possono convincersi che quella che stanno sperimentando sia vera vita, e così come gli insetti d'inverno, riducono il proprio metabolismo quasi allo zero...

Forse  quello che manca davvero all'europeo è la capacità di immaginare di poter uscire da questa immobilità e sperimentare qualche grande avventura (avventura nel senso indicato da Vittorio Mathieu di "cose che vengono a noi dal futuro, ma non senza che noi, di nostra iniziativa, ci muoviamo"; "l'incontro di eventi dipende da un nostro muoverci nello spazio"; "se noi non ci muovessimo non avremmo un futuro, fausto o infausto che sia, mentre il nostro spostarci ci fa incontrare le adventura").
CitazioneMa a mio parere per questo scopo un atteggiamento razionalistico (recuperato e adeguatamente sviluppato: credo che nessuno proponga di tornare a Cartesio e fermarsi lì) é una conditio sine qua non. 

sgiombo

Citazione di: acquario69 il 10 Dicembre 2017, 12:09:35 PM
Sgiombo scrive
CitazionePerché movimenti come quello di Tsipras in Grecia e il M5S in Italia, dopo aver proclamato ai quattro venti di voler cambiare tutto, iniziando inevitabilmente con l' uscita da quella autentica moderna "prigione dei popoli" che é l' attuale così impropriamente della "Euroooooooopa", hanno miseramente chinato il capo di fronte ai tiranni?

Secondo me la risposta ancor prima di essere politica  e' "filosofica" e per certi versi e' riassunta in quest'altra tua considerazione finale qui sotto;

CitazioneE chi pretendesse di negarlo o é uno sprovveduto in buonafede, oppure un privilegiato sfruttatore o un ascaro al servizio dei privilegiati e sfruttatori in malafede.

E tradotto in altri termini,il marcio che ce' fuori non e' altro che il riflesso speculare di quello che sta dentro
CitazioneSì, concordo.

Angelo Cannata

sgiombo, scusami un'annotazione tecnica, che probabilmente è stata già discussa in passato: questo tuo modo di organizzare le citazioni rende difficile capire qual è il testo citato e quali sono le tue risposte.

Ad esempio, proprio in questo tuo ultimo messaggio, il primo gruppo di parole è una citazione ("Perché movimenti come quello di Tsipras...") e allora il lettore è portato a pensare: "ok, il riquadro più chiaro, segnato con le virgolette grosse contiene i testi citati; da qualche altra parte ci dovrebbe essere la risposta".

Invece più sotto, nello stesso messaggio, la tua risposta è contenuta anch'essa in un riquadro chiaro con le virgolette grosse.

In questo modo l'unico modo per capire quali sono i testi che citi e quali sono le tue risposte rimane quello di andarci a senso: quelle che sembrano, a occhio e croce, citazioni, forse sono citazioni, quelle che invece sembrano, a occhio e croce, tue risposte, forse sono tue risposte. Insomma, un guazzabuglio.

Angelo Cannata

#34
Ho l'impressione che Kobayashi abbia vagamente intuito la via verso dove bisognerebbe procedere, perché sin dall'inizio ha parlato di interiorità, di io, di solitudine. Anche quando ha parlato di dimensione comunitaria, in realtà ne ha parlato in una frase la cui premessa era "Forse bisognerebbe lasciar perdere il discorso politico", premessa che mi sembra sia stata trascurata.

Mi sembra che le varie risposte abbiano invece sistematicamente tentato di slittare verso la politica, oppure verso i problemi della società, oppure verso il dibattito filosofico. Questi slittamenti mi sembra che abbiano in comune un ripiegare verso l'oggettivare, andare ad individuare qualche elemento esteriore, esterno alla nostra prospettiva, come qualcosa da tenere in mano e guardare a distanza: questa è la questione, ce l'ho qui, posata sulla mia mano, oggettivizzata, la guardo, la valuto, ne discutiamo.

Invece mi sembra che la tendenza di Kobayashi sia stata verso un discorso che si avvicina molto a quello che si usa portare avanti nelle religioni. Il problema è proprio questo: lungo la storia le religioni hanno acquisito il monopolio dei discorsi sull'interiorità, mentre invece filosofia, politica, sociologia, sono rimaste ad occuparsi di questioni oggettivizzate, presentate con chiarezza come se fossero posate sul palmo della mano.

Le sole attività umane non religiose, che sono rimaste ad occuparsi di interiorità, sono le arti. Difatti in diversi libri che mi è accaduto di leggere, di filosofi che si chiedono chi ci possa salvare, alla fine la salvezza viene individuata, più o meno velatamente, nell'arte.

Il fatto è che la filosofia, quando si tratta di accennare all'arte o alla religione, si trova spaesata, a meno che queste due attività non vengano di nuovo ricondotte a discorsi oggettivizzati. Ecco che allora abbiamo le discussioni filosofiche sull'estetica, il comparativismo religioso, cioè tipi di discorsi che in apparenza si stanno occupando di arti e di religioni, ma in realtà si occupano solo della loro scorza, della loro esteriorità, di ciò che di esse può essere oggettivizzato.

Perché la filosofia si trova spaesata di fronte all'arte e alla religione e tende a slittare verso oggettivazioni di esse? Perché il linguaggio di arte e religione non consente dominio, controllo, padronanza, mentre invece il discorso filosofico non è altro poi che matematica: il principio di non contraddizione, la logica, la razionalità, la metafisica, non sono altro che matematica, oggettivazioni per padroneggiare il discorso.

Di conseguenza, mi sembra che la risposta alla questione iniziale di Kobayashi richieda il coraggio di esplorare linguaggi diversi, i linguaggi interni dell'arte e della religione, che creano inevitabilmente al filosofo iniziale spaesamento perché non sono padroneggiabili con criteri definiti e precisi come quelli della matematica.

D'altra parte, la filosofia ha le sue ragioni nel fare questo: mancanza di controllo significa rischio di impostura, inganno, e non è difficile trovare nelle arti e nelle religioni le più colossali imposture.

Però la medicina a questo problema non può venire dall'oggettivizzare, dal controllare, perché il controllo distrugge la delicatezza e la profondità del discorso artistico e di quello religioso.

Che fare allora? Credo che la via che rimane sia quella di cimentarsi con coraggio in questi "discorsi a rischio di impostura", e risolvere il problema del rischio attraverso loro stessi, casomai mettendoci anche qualche pizzico di critica filosofica, ma cercando di evitare di esagerare perché, come ho detto, la critica serrata distrugge la delicatezza.

Si potrebbe paragonare la questione a quando un bambino ti propone di giocare con lui: se non hai il coraggio di immergerti nel suo mondo fantastico, non potrai mai capirlo, ti autocondannerai a non poter mai godere delle infinite ricchezze del suo cuore. Però il bambino ti potrebbe anche condurre, senza volerlo, al male, ad esempio ti può proporre di giocare con i fili della corrente, oppure di giocare invece di studiare; questi sono i punti in cui la filosofia critica dovrà intervenire, ma rimanendo pronta a retrocedere, o a modificarsi, appena il discorso non presenterà pericoli.

Oggi manca questo: una filosofia che sia arte e faccia tesoro del proprio bagaglio per non cadere nell'ingenuità e nell'impostura e favorire invece un progredire su linguaggi nuovi.

Ciò è diverso da quello che a volte vi ho visto fare, cioè buttarsi direttamente a scrivere poesie o esprimersi in linguaggi che non sono più filosofia, ma piuttosto letteratura. Cioè, la via di cui sto parlando non è saltare all'arte o saltare alla religione, ma piuttosto coniugare il discorso filosofico con il coraggio di cimentarsi con arte e religione, ma nel loro interno, non limitandosi ad occuparsi delle loro scorze oggettivizzabili. Significa che la filosofia dovrà prendere confidenza con i discorsi portati avanti dagli esperti di arte, o dagli artisti stessi, e dai teologi, o da chi vive una religione su se stesso, in prima persona.

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 10 Dicembre 2017, 12:47:27 PM
sgiombo, scusami un'annotazione tecnica, che probabilmente è stata già discussa in passato: questo tuo modo di organizzare le citazioni rende difficile capire qual è il testo citato e quali sono le tue risposte.

Ad esempio, proprio in questo tuo ultimo messaggio, il primo gruppo di parole è una citazione ("Perché movimenti come quello di Tsipras...") e allora il lettore è portato a pensare: "ok, il riquadro più chiaro, segnato con le virgolette grosse contiene i testi citati; da qualche altra parte ci dovrebbe essere la risposta".

Invece più sotto, nello stesso messaggio, la tua risposta è contenuta anch'essa in un riquadro chiaro con le virgolette grosse.

In questo modo l'unico modo per capire quali sono i testi che citi e quali sono le tue risposte rimane quello di andarci a senso: quelle che sembrano, a occhio e croce, citazioni, forse sono citazioni, quelle che invece sembrano, a occhio e croce, tue risposte, forse sono tue risposte. Insomma, un guazzabuglio.
CitazioneMi dispiace, ma non riesco a fare in altro modo.

Peraltro mi sembra semplice e del tutto evidente che nell' ultimo scambio di idee fra me e Acquario69 tutto ciò che é scritto si sfondo bianco é affermato da me, mentre tutto ciò che é scritto su fondo violetto é affermato da Acquario69.

Lo stesso mutatis mutandis (mettendo AngeloCannata al posto di Acquario69) anche in questa ultima mia risposta alle tue osservazioni.
Non vedo come ci possa confondere (almeno in questi ultimi casi).

sgiombo

Citazione di: Angelo Cannata il 10 Dicembre 2017, 13:32:18 PM
Il fatto è che la filosofia, quando si tratta di accennare all'arte o alla religione, si trova spaesata, a meno che queste due attività non vengano di nuovo ricondotte a discorsi oggettivizzati. Ecco che allora abbiamo le discussioni filosofiche sull'estetica, il comparativismo religioso, cioè tipi di discorsi che in apparenza si stanno occupando di arti e di religioni, ma in realtà si occupano solo della loro scorza, della loro esteriorità, di ciò che di esse può essere oggettivizzato.

Perché la filosofia si trova spaesata di fronte all'arte e alla religione e tende a slittare verso oggettivazioni di esse? Perché il linguaggio di arte e religione non consente dominio, controllo, padronanza, mentre invece il discorso filosofico non è altro poi che matematica: il principio di non contraddizione, la logica, la razionalità, la metafisica, non sono altro che matematica, oggettivazioni per padroneggiare il discorso.

Di conseguenza, mi sembra che la risposta alla questione iniziale di Kobayashi richieda il coraggio di esplorare linguaggi diversi, i linguaggi interni dell'arte e della religione, che creano inevitabilmente al filosofo iniziale spaesamento perché non sono padroneggiabili con criteri definiti e precisi come quelli della matematica.

D'altra parte, la filosofia ha le sue ragioni nel fare questo: mancanza di controllo significa rischio di impostura, inganno, e non è difficile trovare nelle arti e nelle religioni le più colossali imposture.

Però la medicina a questo problema non può venire dall'oggettivizzare, dal controllare, perché il controllo distrugge la delicatezza e la profondità del discorso artistico e di quello religioso.

Che fare allora? Credo che la via che rimane sia quella di cimentarsi con coraggio in questi "discorsi a rischio di impostura", e risolvere il problema del rischio attraverso loro stessi, casomai mettendoci anche qualche pizzico di critica filosofica, ma cercando di evitare di esagerare perché, come ho detto, la critica serrata distrugge la delicatezza.

Si potrebbe paragonare la questione a quando un bambino ti propone di giocare con lui: se non hai il coraggio di immergerti nel suo mondo fantastico, non potrai mai capirlo, ti autocondannerai a non poter mai godere delle infinite ricchezze del suo cuore. Però il bambino ti potrebbe anche condurre, senza volerlo, al male, ad esempio ti può proporre di giocare con i fili della corrente, oppure di giocare invece di studiare; questi sono i punti in cui la filosofia critica dovrà intervenire, ma rimanendo pronta a retrocedere, o a modificarsi, appena il discorso non presenterà pericoli.

Oggi manca questo: una filosofia che sia arte e faccia tesoro del proprio bagaglio per non cadere nell'ingenuità e nell'impostura e favorire invece un progredire su linguaggi nuovi.

Ciò è diverso da quello che a volte vi ho visto fare, cioè buttarsi direttamente a scrivere poesie o esprimersi in linguaggi che non sono più filosofia, ma piuttosto letteratura. Cioè, la via di cui sto parlando non è saltare all'arte o saltare alla religione, ma piuttosto coniugare il discorso filosofico con il coraggio di cimentarsi con arte e religione, ma nel loro interno, non limitandosi ad occuparsi delle loro scorze oggettivizzabili. Significa che la filosofia dovrà prendere confidenza con i discorsi portati avanti dagli esperti di arte, o dagli artisti stessi, e dai teologi, o da chi vive una religione su se stesso, in prima persona.
CitazioneRisposta di Sgiombo:

Per quel che mi riguarda, qui mi sembra di cogliere un atteggiamento di fronte alla vita e ai problemi che pone profondamente diverso, per così dire "diametralmente opposto" fra te e me.
Ed alquanto "fondamentalmente", in modo tale che é per lo meno difficilissimo il confrontarsi e l' intendersi reciprocamente in proposito.
In questi casi credo sia quasi (per lo meno, se non del tutto) impossibile andare oltre il reciproco rispetto.

Personalmente sono (irrazionalisticamente, nel senso di "acriticamente, spontaneamente, non come conseguenza di valutazioni più o meno razionali ma per un' immotivata, ingiustificata, irrazionale propensione") profondamente razionalista (e credo che rendersi conto di questi limiti intrinsecamente insuperabili del razionalismo, del suo essere una propensione comportamentale irrazionale, significhi essere più, e non affatto meno, razionalisti).

Irresistibilmente tendo a cercare di analizzare criticamente nella maniera più razionale possibile tutto, anche l' arte, la poesia, la musica, ecc.
Il che non credo proprio mi impedisca in alcun modo di goderne al massimo del possibile (ovviamente nei casi di arte che mi dica qualcosa: Michelangelo o Bach, ad esempio, non certo Andy Wahrol o il Rap); anzi!

green demetr

#37
Citazione di: Kobayashi il 10 Dicembre 2017, 09:33:01 AM
A green demetr che scrive "bisogna ripartire da Cartesio" rispondo: cioè dovremmo tornare al razionalismo del Seicento e di nuovo a persuaderci che la nostra ragione, pura, limpida, se ben condotta da un metodo ci può portare alla costruzione di nuovi sistemi metafisici?
Ma se tutta la filosofia da Nietzsche in poi non è stata altro che lo smantellamento di queste convinzioni!
E poi se la questione è: di fronte alla crisi spirituale ed esistenziale dei nostri tempi, quale può essere il ruolo della filosofia? La risposta non può essere un ritorno a uno di quei fondamenti – un certo tipo di razionalità di cui Cartesio è fondatore e simbolo – ormai superati.
Mentre riproporre alcune tecniche della saggezza antica, per esempio, è altra cosa perché significa ritornare a un modo di vivere la filosofia prima che diventasse un sistema di conoscenza di verità ultime.

Ma il punto è che anche la condizione di chi resiste alla tentazione della metafisica, nelle sue diverse forme, non può essere sopportata a lungo... Siamo un po' tutti stanchi di sguazzare nelle fragili prospettive della post-modernità.
Il lavoro di Sloterdijk è il prodotto di questa situazione limite.
Ma non stiamo ricercando melanconicamente delle certezze. Questo aspetto, la presunta esigenza di un assoluto, di qualcosa di stabile, è, secondo me, profondamente sopravvalutato.
La crisi attuale non è il sintomo della perdita di Dio nelle sue diverse forme.
Gli europei non sono depressi perché non riescono a elaborare un lutto. Sono in realtà catatonici perché non possono convincersi che quella che stanno sperimentando sia vera vita, e così come gli insetti d'inverno, riducono il proprio metabolismo quasi allo zero...

Forse  quello che manca davvero all'europeo è la capacità di immaginare di poter uscire da questa immobilità e sperimentare qualche grande avventura (avventura nel senso indicato da Vittorio Mathieu di "cose che vengono a noi dal futuro, ma non senza che noi, di nostra iniziativa, ci muoviamo"; "l'incontro di eventi dipende da un nostro muoverci nello spazio"; "se noi non ci muovessimo non avremmo un futuro, fausto o infausto che sia, mentre il nostro spostarci ci fa incontrare le adventura").

Si grazie dell'input ci pensavo proprio oggi passeggiando.

Certamente per uscire dal nostro inverno spirituale, comunitario, o come vogliamo chiamarlo, serve il movimento.

Penso che sia una cosa umana, andare incontro agli altri.

Quello che mi blocca sempre di più, è che invece che trovare una situazione di conforto, e cioè di resistenza, un movimento che tende alla felicità,trovo invece sempre e puntualmente rabbia e livore.
Partigianeria in fin dei conti.

Di fronte a questa ondata di risentimento non mi rimane che chiudermi nelle mie stanze.

L'anomia della città è questa in fin dei conti.

Aprire le porte all'altro è sempre come aprire un ricettacolo di negatività e dolore.
Sempre.

Certamente le tecnica filosofica, aiutandoci a capire del perchè di questo processo, ci aiuta ad accettarlo.

Ma dall'accettazione al movimento successivo il compito si fa grave. Impervio.

Si dice che la storia sia finita con Hegel. Perchè ne descriveva il suo funzionamento con precisione crudele.

Al problema drammatico del cambiamento del soggetto, e cioè al suo mettersi in discussione, al mettersi in prima linea, la storia ha risposto con la distruzione di Nagasaki e Hiroshima.

Il problema si è spostasto ancora di più. Fino ai dibattiti sull'ecologismo contemporanei.

Ossia alla autodistruzione del pianeta.

Non credo in queste cose, non perchè fisicamente non siano possibili, ma perchè è sempre un problema di cosa ci si racconta. Di dove ci schieriamo politicamente.
E' sempre un problema di rabbia e livore. Un maledetto cerchio, un stato ipnotico che rinchiude tutti.

Ed è un sintomo caro amico.

Tu dici che il problema della morte di Dio sia sopravalutato.

Non credo, perchè la morte di Dio è innanzitutto la messa in discussione del soggetto.

Come ci ha insegnato Lacan il reale nell'uomo è il suo immaginario.

Ma cosa succede quando questo immaginario va in frantumi?

La letargia nostra è proprio questa incapacità di rinsaldare il soggetto.

Nel razionalismo modernista, il soggetto viene per la prima volta imposto, e sopravalutato, fino al delirio dell'uomo macchina.

Cartesio serve a farci capire come si costruisce un soggetto.

Il novecento ha passato tutto il suo tempo a decostruire quel soggetto e i suoi deliri.

Per ritrovarsi in un movimento di ritorno in cui il soggetto non solo è tornato, ma si è anche imbarbarito.

Per come la vedo, la società sta iniziando a divorarsi da sè.

Perchè un soggetto per relazionarsi ad un altro, o ha la capacità di ospitarlo, o lo comprende in un orizzonte che li contine entrambi, o lo elimina.

Credo che fondamentalmente la questione sia quella.

Trovare un modo di ospitare l'altro, senza la mediazione di orizzonti contenitore, che si sono rivelati solo uno specchio perchè l'eliminazione fosse perpetrata comunque.

Il punto è come ospitare, senza farsi divorare.

E' per questo che l'etica della distanza diventa un passo sine-qua non.

Ma da lì in poi,

Mancano tutte le descrizioni, i riferimenti e via dicendo.

Qualcosa lo troviamo solo nel mito, quindi fuori dalla filosofia.

Cioè le domande proibite: perchè uno deve ospitare, e perchè uno deve divorare???

E' per questo che l'etica della distanza diventa un passo sine-qua non.

A mio parere è la questione della trasformazione personale.

Fino ad oggi solo chiacchere come amaramente chiosa Inverno. (mai nickname fu pià profetico)
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

considero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamentali, valide al di là della particolarità dei contesti empirici, e che costituiscono il presupposto inaggirabile delle verità particolari delle scienze empiriche, i cui limiti metodologici impediscono di accedere ad una visione essenziale delle cose, che comprenda i princìpi che sovrintendono a una realtà intesa come totalità. In questo senso lo stesso razionalismo cartesiano, il metodo della radicalizzazione del dubbio, tanto vituperato (anche vedo in questa discussione), è un modello filosofico in cui la fondamentalità, almeno a livello procedurale metodologico, della solitudine per la filosofia viene a mio avviso assolutamente confermata e valorizzata. La radicalizzazione del dubbio che si spinge a dubitare della presunzione di verità dei giudizi fondati sulla percezione sensibile, porta attraverso la deduzione dall'esercizio di tale dubbio al riconoscimento della certezza dell'esistenza dell'Io come soggetto pensante, e ciò, certamente al di là delle forme discutibili ed imperfette in cui Cartesio ha operato le sue speculazioni, va interpretata come richiamo alla posizione dell'interiorità, dell'analisi degli schemi, dei vissuti soggettivi della coscienza come punto di partenza da cui ricavare l'idea di un sapere rigoroso, una razionalità fondativa, dunque una razionalità filosofica. La posizione dell'interiorità come princìpio della filosofia (non una invenzione cartesiana, ma a quel che ne so, di S. Agostino che sviluppa e sistematizza ispirazioni socratiche-platoniche) è ciò che legittima il riconoscimento della solitudine come momento fondamentale della filosofia. La filosofia intesa come sapere radicalmente critico implica una riflessione sulla validità delle forme soggettive entro cui facciamo esperienza del mondo, e perché sia radicalmente rigoroso, occorre partire da un punto fermo, che mostri tale fermezza non dogmaticamente ma razionalmente, e ciò non può che essere il pensiero soggettivo, che comprende nella certezza della propria esistenza sia la possibilità della verità che della falsità riguardo le asserzioni sulla realtà trascendente rispetto ad esso (non solo il mondo esterno, ma anche lo stesso soggetto empirico inteso come causalmente condizionato da tale mondo esterno). La solitudine diviene momento necessario nel quale si opera tale conversione dello sguardo dall'esterno all'interno. Ciò che principalmente ostacola tale conversione sono due fattori, tra loro correlati, che costituiscono aspetti sempre presenti nella nostra vita, impossibili da eliminare, ma che la riflessione filosofica dovrebbe relegare a una sorta di marginalità: pragmatismo ed immediatezza. Il pragmatismo è ciò che pone l'uomo in relazione pratica con il mondo, a sviluppare l'interesse non per la realtà intesa come contemplazione fine a se stessa, ma come oggetto da manipolare per i nostri desideri, per la realizzazione dei valori etici. La necessità di agire nel mondo esterno implica sempre, ovviamente, un certo livello di conoscenza, ma non una conoscenza retta da fondamenti trascendentali che la rendano apodittica, ma un livello per il quale ci si può accontentare di un ambito probabilistico , sufficiente a orientarci in modo pratico legittimando una certa linea d'azione anziché un'altra: per intervenire sugli oggetti esterni devo conoscere quelli, manipolarli, ma al contempo adeguarmi ad essi, e l'interiorità, l'individuazione della coscienza come certezza fondamentale della conoscenza restano presupposti impliciti, sempre validi ma trascurati: devo muovermi nel mondo, la solitudine e il raccoglimento interiore che mi consente l'emersione dell'evidenza dell'esistenza dell'Io come soggetto pensante sono visti come intralci mentali e perdite di tempo. Per quanto riguarda l'immediatezza, noto come la conoscenza e la scoperta dell'esteriorità abbia, rispetto a quella dell'interiorità, un impatto emotivo sulla maggior parte delle persone più forte: dal punto di vista dei "dati", dei "fatti" certamente l'universo, le nazioni, i continenti, le galassie ecc possiedono una ricchezza immensamente più grande del ristretto ambito delle strutture mentali soggettive. La scoperta di un nuovo continente, di un nuovo pianeta colpisce nell'immediato molto di più rispetto alla scoperta di una nuova categoria trascendentale nell'intelletto umano. Il piacere della riflessione interiore, della speculazione mentale, è qualcosa di molto più "raffinato", mediato. La riflessione interiore trascendentale, non porta a conoscere nuovi "fatti", fissa però le condizioni, i limiti, le possibilità entro cui ogni forma di esperienza, comprese quelle riferite alla scoperta dell'esterno sono valide. Eppure l'interesse pratico porta le persone inevitabilmente a orientare l'interesse e la curiosità verso l'esterno, verso i fatti, che sono reali "hic et nunc" , perché sono le cose con cui dobbiamo fare i conti pragmaticamente per realizzare i nostri obiettivi, siamo interessati a una conoscenza che si ampli in estensione, molto più in profondità, quella profondità che ci appare spesso sterile, noiosa, astratta e autoreferenziale, (da qui tutte le varie forme  parodistiche di irrisione del filosofo, come persona inutile, alienata, che si incarta in sterili e complicati sofismi e speculazioni) ma che al tempo stesso è l'ambito comprendente le fondamenta e i presupposti di ogni altra conoscenza. Per scoprire e conoscere un nuovo pianeta dobbiamo pensare e il pensare opera sulla base di norme, e schemi, che non interessano il naturalista, ma l'epistemologia, la gnoseologia, la filosofia: è l'interiorità fondamentale che la solitudine intesa come distacco dal flusso di informazioni esterne per ricondurle a delle norme insite nella profondità.

Per questo non vedrei tanto nella "saggezza", che ancora è una conoscenza strettamente funzionale all'azione pratica rivolta al mondo esterno, come ricorda Aristotele, bensì in un recupero, certamente critico e non dogmaticamente tradizionalista, proprio di quella tradizione teoretica e metafisica, che comprende certamente anche Cartesio ma non solo, impegnata non a elaborare conoscenza "estese", ma "profonde", cogliendo i presupposti fondativi, stabili, indubitabili che ogni scienza rivolta al raggiungimento della verità nei loro specifici campi, deve abbracciare, quantomeno implicitamente la base del riconoscimento solitudine-filosofia. Se, come credo io, occorre nettamente distinguere "filosofia" e "storia della filosofia", non ci deve interessare che tali visioni metafisiche siano passate di moda dopo Nietzsche o dopo Heidegger, l'unica cosa che conta è se siano valide teoreticamente o meno, e questo non lo decide il susseguirsi storico delle varie egemonie culturali, ma la corrispondenza delle loro tesi alla verità delle "cose stesse" oggettive. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.

green demetr

Citazione di: davintro il 10 Dicembre 2017, 18:23:57 PM
considero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamental....e. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.


Questo modo di intendere la filosofia è completamente imbalsamato.
Quando parli con una persona, quando vieni aggredito, minacciato, hai bisogno di una individuazione teoretica dei principi di verità?????

Mi sembra invece che questo modo di procedere analitico, sebbene di matrice fenomelogica, abbia gli stessi difetti della terribile filosofia analitica americana: sono sintomi della morte della filosofia.
Vai avanti tu che mi vien da ridere

davintro

Citazione di: green demetr il 10 Dicembre 2017, 19:06:34 PM
Citazione di: davintro il 10 Dicembre 2017, 18:23:57 PMconsidero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamental....e. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.
Questo modo di intendere la filosofia è completamente imbalsamato. Quando parli con una persona, quando vieni aggredito, minacciato, hai bisogno di una individuazione teoretica dei principi di verità????? Mi sembra invece che questo modo di procedere analitico, sebbene di matrice fenomelogica, abbia gli stessi difetti della terribile filosofia analitica americana: sono sintomi della morte della filosofia.

ad esempio il principio di non contraddizione, che è uno degli assiomi fondamentali della logica, dunque uno dei princìpi di verità di qualunque forma di razionalità (non solo filosofica, ma sui quali la filosofia focalizza le proprie ricerche individuandoli come fondazione trascendentali di ogni discorso vero), è ciò che mi permette di sottolineare come il discorso che sta facendo la persona che mi sta aggredendo o minacciando, in quanto incoerente, cioè autocontradditorio sia un discorso assurdo, e che dunque mi rassicura sul fatto che quantomeno non tutti i torti sono miei, che il punto di vista dell'altro è viziato da una componente di irrazionalità, che posso far notare, e in questo modo incalzare la persona a chiarire meglio il discorso ed eventualmente dissipare gli equivoci, arrivando magari a un chiarimento riappacificatore. Ovviamente questa è solo la più ottimistica delle prospettive, ma è comunque una conclusione possibile, la cui possibilità di realizzarsi è data proprio dall'applicazione di criteri di verità riconoscibili intersoggettivamente attraverso cui recuperare una visione delle cose entro certi limiti oggettiva, sulla base del quale intenderci e dialogare per superare i contrasti. Chiaramente il complesso delle pratiche sociali e comunicative ha una complessità per la quale i problemi che là sorgono non sono mai risolvibili per pura deduzione logica coerente da premesse ed assiomi, in quanto il motore dei conflitti non è mai puramente teoretico, ma costituito dalle contrapposizioni tra diverse soggettive visioni morali e valoriali, su cui la razionalità non può fissare una gerarchia in senso assoluto. Tuttavia nella gran parte dei casi anche una certa illogicità, confusione che conducono i discorsi a una visione teorica delle cose errata, che porta ad un'incomunicabilità per la quale ciò che voglio esprimere viene frainteso sulla base di parametri interpretativi diversi dagli altri (ne abbiamo in continuazione esperienza quotidiana purtroppo...), e questa incomunicabilità porta a equivoci e conflitti, che una condivisione di significati nel linguaggio potrebbe evitare. Dunque non sottovalutarei la rilevanza dell'aspetto di chiarificazione teoretica dei punti di vista, nel contribuire a evitare conflitti comunicativi nell'ambito pratico. Nessuno ovviamente pensa che lo svolgimento di tale compito sia sufficiente a ciò, ma certo è un fattore contributivo, che stimola la filosofia e l'indagine teorica speculativa a attivarsi sulla base di un'urgenza anche pratica, tutt'altro che uccidendola e imbalsamandola

Apeiron

KOBAYASHI

Vi chiedo: è possibile immaginare un ritorno della filosofia alla sua saggezza antica, alla fondazione per esempio di vere e proprie scuole filosofiche o cose di questo tipo?

È immaginabile secondo voi una filosofia che abbandonando la sua ossessione per la conoscenza teorica inizi a costruire concretamente nuovi "custodi interiori", guardiani di un io sempre più smarrito?


APEIRON


La "crisi" è un momento di grande cambiamento, improvviso. Oggi nella società occidentale stiamo attraversando una crisi molto profonda, però non vogliamo vederla: questo perchè abbiamo una quantità incredibile di informazioni, passatempi ecc tutto questo ci sta facendo perdere la cognizione della crisi che stiamo attraversando e che è iniziata ben prima di Nietzsche, in realtà - anzi secondo me (contrariamente a quanto i nicciani in questo Forum dicono ) Nietzsche è stato travolto da questa crisi e non l'ha superata. La crisi però era già presente verso la fine del Medioevo quando tra eresie, inquisizioni, riforme, contro-riforme ecc si stava iniziando a vedere che il primato della "credenza" (non uso il termine "fede" perchè "fede" denota un'esperienza vissuta) - ossia una determinata interpretazione di una dottrina - aveva fallito miseramente. Il colpo di grazia lo diede la scienza prima e l'Illuminismo poi. La realtà si "svuotò" di angeli, demoni ecc e si "ridusse" a ciò che è empiricamente visibile (e nient'altro). Che ne è di quella realtà che un tempo era così concreta fatta di cose "celesti", di "aldilà", di "immortalità"? Dove è finita? Chi è stato ad eliminare quella realtà? I filosofi moderni?


Cartesio "dimostrò" Dio e dopo "si servì" di Dio per "giustificare" la conoscenza, Spinoza ha "deificato" l'esistenza, Berkeley ha posto Dio come "creatore" di tutto... Poi arrivò Hume e "Dio" e "il mondo vero" presero un brutto colpo. Arrivarono Kant e Schopenhauer e ritornò in auge "il mondo vero", però in una forma molto "astratta" nel primo e in una forma "poco appetibile" nel secondo. In particolare Schopenhauer non solo lo fece ritornare ma affermò che l'introspezione e lo studio del nostro corpo (affermazione inaudita!) erano la "chiave" per accedere ad esso. Arrivò Nietzsche... e "puf". "Il mondo vero diventò una favola"! Cosa è rimasto dopo Nietzsche: una realtà di puro conflitto, una realtà dove una prospettiva doveva "affermarsi" sull'altra e chi non si affermava "spariva", niente più "anima" e solo "materia" ecc. E così l'uomo divenne, nel tempo, dall'essere "al centro dell'univero" a "carne senziente" (perdonate l'espressione ma l'ho sentita un po' di anni fa in una serie tv). Così dunque quel mondo che era più reale del nostro sparì, diventò "favola". E la filosofia? Cos'è la filosofia - e non solo essa ma anche la spiritualità e la scienza  - se non un confronto dell'uomo col Mistero? Non vedete dove voglio arrivare? Quando l'uomo si affrancò della "religione" anche la filosofia gradualmente si impoverì e il "mondo vero" diventò di fatto "favola". Ci sorprendiamo davvero se oggi la filosofia ci sembra "sterile" (come la tradizione "analitica" americana) o un "gioco di parole" (come spesso è quella "continentale")? Qui abbiamo filosofi che partono dal presupposto che stanno costruendo favole e castelli d'aria! Oggi si scrive e si "filosofa" ancora ma il risultato sono o una spiegazione di ciò che si sa già dalla scienza (lo "scientismo"), oppure si filosofa per "divertimento", oppure si fa un "sistema formale", oppure si "decostruisce la decostruzione"... Altro che i demonizzati Cartesio, Spinoza! Perchè molti filosofi famosi contemporanei non mi lasciano alcun senso di ispirazione? Ah già: il "mondo vero" è una favola e ora non credo più alle favole, visto che sono "adulto". Aveva ragione "l'uomo della strada" quando mi diceva: "la realtà è il lavoro, il mangiare...il "concreto". Con la filosofia non si mangia, folle!".

Ma non solo avviene questo. Avviene anche che lo "spirito moderno" viene utilizzato per interpretare la saggezza antica. Scopriamo che il buddhismo non credeva in origine alle rinascite (ma è stata la "massa" a creare tale credenza), riteneva che il nirvana era la non-esistenza e che in sostanza insegna la stessa cosa delle neuroscienze moderne. Platone, Aristotele ecc erano pensatori di "basso livello". Democrito invece era un genio perchè aveva "scoperto" l'atomo. Zhuangzi non mirava alla trascendenza. In sostanza il "mondo vero" è una storiella che si si sono inventati i risentiti, gli ammalati, le masse superstiziose e i pazzi. D'altronde empiricamente non c'è alcuna prova che esista niente che "il mondo ordinario".

Ti chiedi dunque se ritornerà la saggezza antica e la pratica filosofica? Oggi? Oggi si "deve lavorare", bisogna essere "concreti"! Oggi ogni cosa vale l'altra. Le parole del Buddha (ad esempio) sono semplici stringhe di informazioni nell'immenso mare di informazioni della cultura moderna. Chi ha tempo per la saggezza? Dirai: il singolo. "Io" posso ritagliarmi del tempo, riflettere, cercare la "verità" ecc. Ma non è l'intera società "indifferente"? Cosa può fare il singolo quando a nessuno frega niente di ciò? Nessuno oggi crede più all'anima, a Dio, alle rinascite, al nirvana, alla verità, al bene, all'anima, allo spirito, all'energia vitale, all'interconnessione, al noumeno dietro al fenomeno, alla cosa-in-sé, alla vacuità, all'anima mundi, al dao, al dharma, al dharmakaya, all'incondizionato, al diavolo, all'angelo, al maligno, alla "mysterium tremendum", al "totalmente altro", all'ineffabile, l'eudaimonia... queste parole hanno ancora significato, per noi, oggi?

Beh rimane la persona! Posso cercare l'eudaimonia e cercare la "vita autentica". Ma è qualcosa di concreto e tangibile? No. Favola pure questa. Anzi le neuroscienze ci dicono che anche la personalità è una favola!

Ossessione teorica? Da quando la filosofia è diventata solo "teoria"? Molto recentemente, in realtà. Quando venne detto che "il mondo vero è divenuto favola". Il "Mysterium Tremendum" è sparito. Ma crediamo davvero che Platone, Aristotele ecc pensavano di fare qualcosa di "teorico"? No perchè filosofia e spiritualità sono sempre state connesse fino a quando... beh fino a quando sparì il "mondo vero", ovvero l'oggetto della filosofia stessa. La filosofia che nasce dalla meraviglia, ovvero dalla percezione di qualcosa di più grande. Riguardo alla scienza lascio parlare Einstein:
"Quale varietà di stili nel tempio della scienza! E come diversi sono gli uomini che lo frequentano e diverse le forze morali che ve li hanno condotti! Più di uno si dedica alla scienza con la gioia di rendersi conto delle proprie superiori facoltà intellettuali: per lui la scienza è lo sport preferito che gli permette di vivere una vita intensa e di appagare le sue ambizioni. Ve ne sono anche molti i quali, unicamente allo scopo utilitario, vogliono portare la loro offerta alla effervescenza del cervello. Basterebbe che un angelo divino cacciasse dal tempio gli uomini di queste categorie e l'edificio rimarrebbe vuoto in modo inquietante, se non vi restassero alcuni uomini del presente e del passato: di questo numero fa parte il nostro Planck ed è questa la ragione per cui lo amiamo... Io credo con Schopenhauer che l'impulso più potente che li spinge verso l'arte e la scienza è il desiderio di evadere dalla vita d'ogni giorno con la sua dolorosa crudezza e il suo vuoto senza speranza di sfuggire alle catene dei desideri individuali più sensibili fuori del loro io individuale, verso il mondo della contemplazione e del giudizio obiettivo"

Davvero dobbiamo dare la colpa alla "teoria" o alla "metafisica". Non è forse vero che l'anti-metafisica, l'avversione alla spiritualità e alla religione, il materialismo dominante, l'ossessione con la "concretezza" ecc sono i veri colpevoli dell'attuale deserto spirituale?

Anche perchè la spiritualità è anche lotta, fa paura: l'Eternità fa paura, per esempio. Diciamo ad esempio che l'aldilà è una consolazione... Non ti sembra terribile l'Eternità? Ci penso spesso e mi sembra così buia che quasi desidererei che non ci fosse Eternità. Credere che dobbiamo vivere per sempre e non cessare mai di esistere. Sembra come se la Morte di cui tutti hanno paura perché ci lancia in un mondo sconosciuto sia un sollievo rispetto a uno stato di esistenza così interminabile (Emily Dickinson).

Ecco perchè non credo che sia possibile "recuperare" la saggezza antica nel mondo moderno. Non è "concreta" (nel senso che lo intendiamo oggi), fa paura, timore e tremore ecc. Quale uomo da solo riesce ad affrontare questa sfida? Chi si stupisce nel leggere un dialogo di Platone (il "grande metafisico") a vedere quella ricerca della verità senza compromessi?  O almeno non è possibile recuperare la saggezza e renderla un'associazione. La spiritualità e la filosofia affrontano l'ignoto e l'infinito - come può l'uomo nella sua solitudine affrontare l'ignoto e l'infinito?

@green, il problema NON è la "formalità" della teoria filosofica. Il problema è che si è deciso che quello che si fa sono semplicemente "castelli in aria". Un Platone non è il "metafisico" che intendiamo oggi.

Riassunto: Perdonate il lungo post. Però sinceramente quando leggo che il problema è la "teoria" (o la metafisica) "mi cadono le braccia". Mi sembrano critiche completamente fuori luogo che nascono dal pretendere in modo poco "relativistico" di poter "giudicare" le epoche passate con i concetti di oggi.
Come se Platone, Aristotele, Plotino, Niccolo Cusano, Spinoza (nomi a caso...) andassero contro alla filosofia? La metafisica NON è solo imposizione. A mio giudizio è proprio il contrario: è il rifiuto incondizionato della metafisica e della trascendenza (con i loro aspetti "sublimi" e "tremendi") a rendere impossibile un ritorno alla saggezza antica. Forse è proprio la metafisica, la teoria, l'etica, la trascendenza ecc che servono per far ritornare la saggezza.
O forse lo farà l'arte (che ormai è l'unica a mantere il "numinoso" in vita, ovvero come "esperienza sentita dall'interiorità") a "salvare il mondo". D'altronde "la bellezza salverà il mondo"  ::)  ::)  e l'arte spesso è una disciplina solitaria!

Vedetela così: la metafisica è una zattera (metafora presa dal buddhismo). Una zattera per attraversare il fiume... uno strumento. La metafisica non serve per assoggettare la vita ma è al servizio della vita. Serve per arrivare all'eudaimonia, la vita autentica. O almeno così la pensava, per esempio, Plotino.

P.S. Si dice spesso che la scienza "va contro" la metafisica. Ovvero che l'anti-metafisica è dovuta alla scienza. Personalmente non la vedo per niente in questo modo (al massimo la scienza rende scettici sui sistemi metafisici già presenti ma non vieta di certo di crearne nuovi...). Ma è anche vero che sono una pecora nera tra i fisici in quanto mi interesso di metafisica e di spiritualità... e a quanto pare lo sono anche qui dentro visto che in fin dei conti sono un "metafisico" LOL
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

sgiombo

Citazione di: green demetr il 10 Dicembre 2017, 19:06:34 PM
Citazione di: davintro il 10 Dicembre 2017, 18:23:57 PM
considero la solitudine come condizione fondamentale di ogni filosofare, inteso come momento in cui l'Io, appurato come l'esperienza esteriore si riveli insufficiente a risolvere dei problemi teoretici fondamentali come l'individuazione dei princìpi fondamentali dell'essere, del mondo, delle condizioni necessarie, cioè trascendentali della conoscenza, operi una sorta di "conversione" sguardo dall'esterno all'interno, considerando l'interiorità, la coscienza come l'ambito dal quale partire per cogliere le verità fondamental....e. Solo nell'individuazione del compito della filosofia come scoperta razionale dei princìpi primi fondamentali del pensiero, della conoscenza, dell'essere si riapre l'interesse a porre l'interiorità (e la solitudine) come luogo decisivo e punto di partenza di un sapere rigoroso.


Questo modo di intendere la filosofia è completamente imbalsamato.
Quando parli con una persona, quando vieni aggredito, minacciato, hai bisogno di una individuazione teoretica dei principi di verità?????

Mi sembra invece che questo modo di procedere analitico, sebbene di matrice fenomelogica, abbia gli stessi difetti della terribile filosofia analitica americana: sono sintomi della morte della filosofia.
CitazionePrimum vivere, deinde filosofari:
quando rischio la vita non rifletto su profonde questioni filosofiche ma cerco di agire con la necessaria rapidità per salvarla.
Così da poter continuare (fra le altre attività) a coltivare i miei interessi filosofici

Kobayashi

APEIRON scrive:
Riassunto: Perdonate il lungo post. Però sinceramente quando leggo che il problema è la "teoria" (o la metafisica) "mi cadono le braccia". Mi sembrano critiche completamente fuori luogo che nascono dal pretendere in modo poco "relativistico" di poter "giudicare" le epoche passate con i concetti di oggi.
Come se Platone, Aristotele, Plotino, Niccolo Cusano, Spinoza (nomi a caso...) andassero contro alla filosofia? La metafisica NON è solo imposizione. A mio giudizio è proprio il contrario: è il rifiuto incondizionato della metafisica e della trascendenza (con i loro aspetti "sublimi" e "tremendi") a rendere impossibile un ritorno alla saggezza antica. Forse è proprio la metafisica, la teoria, l'etica, la trascendenza ecc che servono per far ritornare la saggezza. 
O forse lo farà l'arte (che ormai è l'unica a mantere il "numinoso" in vita, ovvero come "esperienza sentita dall'interiorità") a "salvare il mondo". D'altronde "la bellezza salverà il mondo"  ::)  ::)  e l'arte spesso è una disciplina solitaria!

Vedetela così: la metafisica è una zattera (metafora presa dal buddhismo). Una zattera per attraversare il fiume... uno strumento. La metafisica non serve per assoggettare la vita ma è al servizio della vita. Serve per arrivare all'eudaimonia, la vita autentica. O almeno così la pensava, per esempio, Plotino.

La metafisica non è uno strumento che conduce alla vita autentica semplicemente perché quella vita autentica rimane in piedi finché rimangono in piedi le idee contenute in quel particolare sistema metafisico che hai utilizzato.
E non è una zattera, la quale una volta arrivati sull'altra riva puoi abbandonare, ma qualcosa che ti devi portare sempre dietro, pena il crollo della tua beatitudine sublime e tremenda.

Apeiron

@Kobayashi,

quando Platone parlava delle Idee parlava di qualcosa che secondo lui era "più reale" degli oggetti materiali. La "teoria" delle Forme era solamente uno strumento per arrivare alla "contemplazione" delle stesse. Quello che contava, per Platone, era la "visione" delle Forme (vedi, per esempio, la metafora del Sole della Repubblica). La metafisica era legata indissolubilmente alla spiritualità e studiare la filosofia aveva lo scopo di "raggiungere l'eccellenza (arete) e l'esistenza autentica (eudaimonia)". Una volta raggiunto l'obbiettivo la filosofia cessava. Oggi la nostra concezione di "metafisica" è quella di una "teoria" (tra l'altro Platone ha scritto dialoghi, ovvero uno stile che di sistematico ha pochissimo. Aristotele è già diverso...). Allora invece parole come "verità", "bene" ecc erano tutte "realtà concrete" e la filosofia era uno strumento per "raggiungerle". Oggi invece con l'anti-metafisica e simili cose si perde di vista anche l'obbiettivo. Ad esempio perchè cercare l'eccellenza (arete) se credo fin da subito che sia una sorta di "chimera"?

E lo stesso si può dire per i platonici, per gli stoici e forse anche per gli epicurei. Lo si può dire anche per i cristiani "seri" (ovvero chi ci mette "l'anima") e per gli orientali. Tutti questi credevano profondamente nella realtà del loro obbiettivo (o almeno credevano che ad esempio era "giusto" emulare - se non si poteva raggiungere - l'arete...). Metafisica e spiritualità si adattavano l'una all'altra, il progresso da una parte si rifletteva sull'altra. Ma una volta raggiunto l'obbiettivo il teorizzare cessava. Però allo stesso tempo la metafisica era ritenuta essere un valido modo per indagare la realtà: restando a Platone le "forme" erano reali, dopotutto. Ma dubito che la sola "teorizzazione" fosse lo scopo della metafisica, anzi. Nella metafisica nell'antichità ci si metteva "l'anima", era una ricerca reale e vissuta. Ma questa "ricerca" con era mai il fine, ma un mezzo. La metafisica aveva un carattere "liberatorio", ci si sentiva imprigionati nell'ignoranza. Si ricercava per quello e non per il fine di creare "castelli in aria". L'impressione che oggi ho è che chi rifiuta tout court la metafisica (e la spiritualità) lo faccia perchè ritenga che essa sia solo finzione. Questa convinzione è difficile da eliminare, visto che ormai riteniamo che tutti gli scopi che si sono messi storicamente i "metafisici" sono semplicemente chimere. 

Comunque l'epicureismo mi sembra una filosofia di vita che non contiene alcuna trascendenza, nulla di "sovrannaturale" e si adatta alle esigenze concrete molto più, per esempio, della filosofia di Nietzsche. Direi che la filosofia di Epicuro va bene per chi non "crede" più nella metafisica. Però un epicureista coerente e serio rinuncia a molte cose, scienza compresa...

P.S. Tengo a precisare che spesso certi messaggi sono anche di autocritica ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

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