Se i ragionamenti fossero viziati in partenza?

Aperto da quasar97, 29 Maggio 2017, 12:11:08 PM

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quasar97

Ciao a tutti!
Questo è il mio primo post, vi leggo da un po' e trovo molto interessanti le tematiche trattate in questo forum, avevo letto qualcosina anche nel vecchio che è adesso in modalità solo lettura.
Ma bando alle ciance. Sicuramente si susseguono dei pareri, idee, visioni molto suggestive in ciascun topic, però vorrei provare a spostare le discussioni su un altro piano: ogni volta che cominciamo ad argomentare riguardo ad un qualsiasi tema, automaticamente l'intelletto inizia a ingranare, spaziando dall'induttivo al deduttivo, dal generale al particolare passando per l'a-priori e l'a-posteriori, ecc. ecc.

Ma se l'intelletto fosse fallace? Se ogni ragionamento fosse un paralogismo?

Qualcuno mi catalogherà nell' '' autocontraddittorio mondo degli scettici '' , però, in un certo qual modo, credo che anche il ragionamento e la fede nell'intelletto siano dei dogmi.

Porto a sostegno della mia tesi un appassionante visione di un filosofo scettico del I secolo d. C., Agrippa (Spero possa fare quello che sto per fare, in ogni caso ringraziamenti a filosofico.net e a Marco Machiorletti):


Citazione
Il filosofo scettico Agrippa non rimase soddisfatto della tavola dei dieci «tropi» redatta da Enesidemo.
Egli ne formulò una nuova, composta da cinque «tropi», che andò ad affiancarla al fine di rafforzare la conclusione della necessità di sospendere sempre il giudizio.
Il primo  «tropo» concerne la discrepanza dei giudizi (diaphonia) rilevabile sia presso i filosofi, sia nella gente comune, a proposito di qualsiasi questione si prenda in esame.
Il secondo «tropo» rileva come, se si vuole risolvere una questione, occorra addurre una prova: ora, nessuna prova si rivela esaustiva: ogni prova ha bisogno di un'altra prova, e, questa, di una ulteriore prova, e così si cade in un processo all'infinito.
Il terzo «tropo» chiama in causa la relatività, evidenziando come ogni oggetto appaia in un certo modo solo in relazione al soggetto che lo giudica.
Il quarto «tropo» mostra come i filosofi dogmatici, per tentare di sfuggire al processo all'infinito, assumano i loro principi primi senza dimostrazione, pretendendo che essi siano immediatamente degni di fede.
Il quinto  «tropo» riguarda il «diallele», che si verifica quando, per voler dar ragione della cosa ricercata, la si presuppone dalla ragione stessa che si adduce per spiegarla, o, meglio ancora, quando la cosa che si assume per spiegazione e la cosadi cui si vole dare spiegazione hanno bisogno l'una dell'altra. Scrive Sesto Empirico:


Citazione"nasce il diallele quando ciò che deve essere conferma della cosa cercata ha bisogno, a sua volta,  di essere provata dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue". (Schizzi pirroniani, I, 169).


I «tropi» di Agrippa cercano di colpire non solo le rappresentazioni, ma la possibilità stessa dei ragionamenti: chi si propone di spiegare qualcosa attraverso i ragionamenti, infatti, si ritrova imprigionato: (a) si perde in un processo all'infinito (b) o incappa nel circolo vizioso del diallele, (c) oppure assume punti di partenza ipotetici, quindi indimostrati.
La necessità di sospendere il giudizio su tutto ne risulta definitivamente confermata.

Resto in attesa di vostri pareri, un saluto a tutti!

(Ho notato che non riesco a togliere i ''justify'' dal testo, mi sento molto impedito in questo momento)

baylham

"La necessità di sospendere il giudizio su tutto ne risulta definitivamente confermata."

Le tesi scettiche di Agrippa sono autoreferenziali.

Phil

Citazione di: baylham il 29 Maggio 2017, 15:20:51 PM
Le tesi scettiche di Agrippa sono autoreferenziali.
Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 12:11:08 PMQualcuno mi catalogherà nell' '' autocontraddittorio mondo degli scettici '' , però, in un certo qual modo, credo che anche il ragionamento e la fede nell'intelletto siano dei dogmi.
Quando si tenta di giustificare logicamente i fondamenti, gli assiomi normativi del discorso, si incappa nell'indecidibilità (v. Godel). Come dire che nel momento in cui analizziamo una lingua, non possiamo che farlo ricorrendo alla lingua stessa, o ad un'altra lingua, poiché per parlare sensatamente è inevitabile usare una lingua (o un linguaggio)... parimenti, per ragionare logicamente è inevitabile ricorrere ad una logica, che sarà fondata su alcuni assiomi, che all'interno di quella logica restano inverificabili (in quanto la fondano ed essa li presuppone). Differente è la questione se mettiamo in gioco anche il mistico, il religioso, l'extra-logico...

Allora non resta che la sospensione del giudizio, l'epochè, l'atarassia, l'afasia, l'aponia, etc.? Direi di no, questi sono tutti approcci molto bilanciati e statici, ma la vita è invece dinamica ed esige di sbilanciarsi... e sbilanciarsi nella prassi quotidiana con la consapevolezza dell'imperfezione, dell'arbitrarietà, della "relatività", proprie dell'impostazione che si adopera, è secondo me più un valore aggiunto che un limite (per chi crede ancora nell'ottimismo illuministico, ovviamente la questione è meno pacifica).
A farla breve, per ragionare sulla ragione occorre la ragione, in tutta la sua autoreferenzialità e in tutte le sue declinazioni possibili, non se ne esce...

paul11

#3
...... se non che la posizione di Wittgenstein è che non è possible recintare il linguaggio, da insegnante di matematica e famoso teorizzatore delle tavole della verità; ma Godel, che " non si poteva vedere" con Wittgenstein, capisce che se tutto è assiomatizzazione, basta mutare i primitivi per cambiare il ragionamento, e quindi apre un "mondo", è possibile costruire multi-domini come il multi-universo a dodici dimensioni, o ,come
era credente Godel (come Cantor famoso per l'insiemistica, ebreo che voleva arrivare a dimostrare Dio/infinito), costruire una dimostrazione logica dell'esistenza di Dio da parte di Godel.

Ma il punto è ancora un'altro e ha ragione Severino a prendersi gioco dei logici e pragmatisti..
Qualunque posizione di partenza, anche dello scettico, è ontologia, anche chi non crede alla metafisica, anche per Diogene.
Il non- credere è ancora credere, il non-dimostrare è ancora dimostrare il non dimostrabile.ecc.
Quindi sono d'accordo con il finale di Phil, non se ne esce.

Il problema dello scettico Agrippa, è legato soprattutto alla credenza del singolo.
Infatti l'esperienza, che è reiterazione di prassi/teoria, convalida in noi stessi quello che noi pensiamo.
Così come convalida la socializzazione e il dialogo delle esperienze.
Io posso dubitare di aver osservato una cometa, ma se altri l' hanno osservata nel medesimo punto e medesima orario, tenendo conto delle latitudini, convalida l'osservazione. Gli esperimenti hanno procedure e protocolli proprio per non far alterare la  relazione soggetto/oggetto. e per essere ripetuti .

Significa allora che una verità è interna alla limitatezza del cervello, linguaggio, sistema uomo. Ma se vine riconosciuta dalla comunità come verità, diventa convenzione.

L'uomo è fallibile, anche il giudizio giuridico, per questo vi sono più gradi di giudizio e una giurisprudenza, dove le sentenze seguono ad una casistica.

Altro problema è il rapporto prassi/teoria = pensiero. Tanto più il nostro pensiero si allontana dalle pratiche ,tanto più è slegato dal mondo "reale" sensibile e tanto più la correttezza del linguaggio formale dovrebbe garantire ,passo dopo passo, argomentazione dopo argomentazione, che una teoretica è ancora giustificabile e giudicabile come veritativa

Ma soprattutto, e questo è il punto fondamentale dell'attuale cultura, ritenere che non essendovi una verità costituiva originaria, allora tutto è opinione. se così fosse vince la forza bruta , non la forza del ragionamento.
Se tutto è falso, daccapo, allora tutto è anche vero.

quasar97

Citazione di: baylham il 29 Maggio 2017, 15:20:51 PM
"La necessità di sospendere il giudizio su tutto ne risulta definitivamente confermata."

Le tesi scettiche di Agrippa sono autoreferenziali.


Cerco di rispondere a tutti, usando il fallace intelletto  8)
Credo che l'autoreferenzialità possa viziare unicamente la conclusione di Agrippa, mentre ritengo che le premesse siano incontestabili. Poi se la vogliamo dire tutta, uno scettico non potrebbe assumere nulla come 'incontestabile', in quanto, appunto, si auto-contraddirebbe. Probabilmente ci troviamo in un sistema logico paraconsistente


Citazione di: Phil il 29 Maggio 2017, 16:25:10 PMQuando si tenta di giustificare [/size]logicamente i fondamenti, gli assiomi normativi del discorso, si incappa nell'indecidibilità (v. Godel). Come dire che nel momento in cui analizziamo una lingua, non possiamo che farlo ricorrendo alla lingua stessa, o ad un'altra lingua, poiché per parlare sensatamente è inevitabile usare una lingua (o un linguaggio)... parimenti, per ragionare logicamente è inevitabile ricorrere ad una logica, che sarà fondata su alcuni assiomi, che all'interno di quella logica restano inverificabili (in quanto la fondano ed essa li presuppone). Differente è la questione se mettiamo in gioco anche il mistico, il religioso, l'extra-logico... Allora non resta che la sospensione del giudizio, l'epochè, l'atarassia, l'afasia, l'aponia, etc.? Direi di no, questi sono tutti approcci molto bilanciati e statici, ma la vita è invece dinamica ed esige di sbilanciarsi... e sbilanciarsi nella prassi quotidiana con la consapevolezza dell'imperfezione, dell'arbitrarietà, della "relatività", proprie dell'impostazione che si adopera, è secondo me più un valore aggiunto che un limite (per chi crede ancora nell'ottimismo illuministico, ovviamente la questione è meno pacifica). A farla breve, per ragionare sulla ragione occorre la ragione, in tutta la sua autoreferenzialità e in tutte le sue declinazioni possibili, non se ne esce...



Sulla conclusione mi trovo d'accordo, l'epochè non mi sembra una soluzione realistica. Sulla prima parte, oltre a farti i complimenti perchè hai reso benissimo l'idea attraverso l'esempio, devo per forza dedurre che tra noi (anche il più razionalista) ed un credente (ad es.) non c'è alcuna differenza, il che mi rende alquanto pensieroso.
Credo però che il trucco nascosto stia proprio in quel ''per ragionare occorre la ragione'', proprio in quelle norme che fondano la logica, norme indimostrabili, come hai giustamente osservato. Se è vero che rispetto al I secolo abbiamo fatto dei passi avanti da gigante per quanto riguarda la qualità di vita (anche questo sarebbe opinabile in realtà), oggi come allora resta l'enigma di ragione e ragionamenti


Citazione di: paul11 il 29 Maggio 2017, 18:46:14 PM...... se non che la posizione di Wittgenstein è che non è possible recintare il linguaggio, da insegnante di matematica e famoso teorizzatore delle tavole della verità; ma Godel, che " non si poteva vedere" con Wittgenstein, capisce che se tutto è assiomatizzazione, basta mutare i primitivi per cambiare il ragionamento, e quindi apre un "mondo", è possibile costruire multi-domini come il multi-universo a dodici dimensioni, o ,come era credente Godel (come Cantor famoso per l'insiemistica, ebreo che voleva arrivare a dimostrare Dio/infinito), costruire una dimostrazione logica dell'esistenza di Dio da parte di Godel. Ma il punto è ancora un'altro e ha ragione Severino a prendersi gioco dei logici e pragmatisti.. Qualunque posizione di partenza, anche dello scettico, è ontologia, anche chi non crede alla metafisica, anche per Diogene. Il non- credere è ancora credere, il non-dimostrare è ancora dimostrare il non dimostrabile.ecc. Quindi sono d'accordo con il finale di Phil, non se ne esce. Il problema dello scettico Agrippa, è legato soprattutto alla credenza del singolo. Infatti l'esperienza, che è reiterazione di prassi/teoria, convalida in noi stessi quello che noi pensiamo. Così come convalida la socializzazione e il dialogo delle esperienze. Io posso dubitare di aver osservato una cometa, ma se altri l' hanno osservata nel medesimo punto e medesima orario, tenendo conto delle latitudini, convalida l'osservazione. Gli esperimenti hanno procedure e protocolli proprio per non far alterare la relazione soggetto/oggetto. e per essere ripetuti . Significa allora che una verità è interna alla limitatezza del cervello, linguaggio, sistema uomo. Ma se vine riconosciuta dalla comunità come verità, diventa convenzione. L'uomo è fallibile, anche il giudizio giuridico, per questo vi sono più gradi di giudizio e una giurisprudenza, dove le sentenze seguono ad una casistica. Altro problema è il rapporto prassi/teoria = pensiero. Tanto più il nostro pensiero si allontana dalle pratiche ,tanto più è slegato dal mondo "reale" sensibile e tanto più la correttezza del linguaggio formale dovrebbe garantire ,passo dopo passo, argomentazione dopo argomentazione, che una teoretica è ancora giustificabile e giudicabile come veritativa Ma soprattutto, e questo è il punto fondamentale dell'attuale cultura, ritenere che non essendovi una verità costituiva originaria, allora tutto è opinione. se così fosse vince la forza bruta , non la forza del ragionamento. Se tutto è falso, daccapo, allora tutto è anche vero.



Provo a risponderti anche se, lo anticipo, non è facile controbattere in maniera esaustiva al tuo messaggio senza andare off-topic (del resto succede molto spesso, dalla filosofia si arriva alla matematica, alla psicologia ecc., sarà un caso??). Mentre concordo con Severino, l'unica osservazione che mi permetto di fare è che non credo che l'errore di Agrippa sia nella credenza del singolo: i 5 ''tropi'', per essere nel I secolo , sono davvero accurati e pertinenti a mio parere, non riesco a trovare niente con cui confutarli (che nessuno mi dica che mi sto autocontraddicendo, lo so, ma non è questo il punto); come ho già detto, la conclusione non è ''il massimo del fichissimo'', ma del resto con qualcosa doveva pur concludere.

Resta il fatto che per quanto ne sappiamo il ''demone'' di Cartesio potrebbe essere più reale che mai, e il fatto che ne siamo ''coscienti'' non ci libera dalla prigionia

Un saluto e un ringraziamento per gli ottimi spunti!

maral

#5
CitazioneMa se l'intelletto fosse fallace? Se ogni ragionamento fosse un paralogismo?
Se l'intelletto fosse fallace sarebbe fallace anche il ragionamento di Agrippa (per quanto accurato e pertinente possa risultare), quindi saremmo comunque daccapo, lo scettico coerente non può non mettere in dubbio il suo scetticismo coerente e dunque non può non sospendere il giudizio pure sulla sospensione del giudizio.
E allora come se ne esce? semplice, rinunciando a ogni pretesa di certezza epistemica fondata sull'intelletto e basandosi sulla necessità di convenire sulla inevitabile possibilità di errore in ogni giudizio, per quanto corretto possa formalmente apparire. Questo implica che il fondamento su cui ci si basa è frutto di una parzialità espressa da un contesto di pratiche in continua trasformazione di cui noi stessi, con i nostri giudizi, non siamo che il prodotto variante.

quasar97

Citazione di: maral il 29 Maggio 2017, 22:05:11 PM
CitazioneMa se l'intelletto fosse fallace? Se ogni ragionamento fosse un paralogismo?
Se l'intelletto fosse fallace sarebbe fallace anche il ragionamento di Agrippa (per quanto accurato e pertinente possa risultare), quindi saremmo comunque daccapo, lo scettico coerente non può non mettere in dubbio il suo scetticismo coerente e dunque non può non sospendere il giudizio pure sulla sospensione del giudizio.
E allora come se ne esce? semplice, rinunciando a ogni pretesa di certezza epistemica fondata sull'intelletto e basandosi sulla necessità di convenire sulla inevitabile possibilità di errore in ogni giudizio, per quanto corretto possa formalmente apparire. Questo implica che il fondamento su cui ci si basa è frutto di una parzialità espressa da un contesto di pratiche in continua trasformazione di cui noi stessi, con i nostri giudizi, non siamo che il prodotto variante.
Rinunciare a ogni pretesa di certezza epistemica è una certezza epistemica  ::)
Ripeto, a mio parere non è il principio di non contraddizione che può fermarci

maral

Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 22:18:59 PM
Rinunciare a ogni pretesa di certezza epistemica è una certezza epistemica  ::)
Ripeto, a mio parere non è il principio di non contraddizione che può fermarci
No, significa semplicemente ammettere che ogni certezza ha in sé il suo errore che la contraddice e proprio in quanto è errore si apre alla verità. E dunque sì, il principio di non contraddizione non ci ferma, ma non ci ferma perché il principio di non contraddizione non può che avere in sé stesso la contraddizione di sé, non essendoci nulla al di fuori di esso che possa contraddirlo.

Phil

Commento
Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 21:23:18 PM
devo per forza dedurre che tra noi (anche il più razionalista) ed un credente (ad es.) non c'è alcuna differenza, il che mi rende alquanto pensieroso.
e
Citazione di: paul11 il 29 Maggio 2017, 18:46:14 PM
Se tutto è falso, daccapo, allora tutto è anche vero.
Non vorrei deviare il discorso verso sentieri già ampiamente battuti (in altri topic), ma se la Verità Assoluta non c'è, allora diventa ancor più importante discriminare le gradazioni delle "verità relative": per questo, in alcuni casi, espressioni come "fino a prova contraria" sono un fattore più rilevante del famigerato "inconfutabilmente", pur non essendo parimenti assolute. 
Ci sono gradazioni di falsità e di verità che prescindono dall'identificazione della verità assoluta e, anzi, in sua assenza, sono quanto di più funzionale, prezioso e plausibile la nostra ragione possa offrire. Propongo un esempio sciocco ma, spero, adeguatamente allusivo: dire che sto scrivendo tirando i peli di un gatto a tre code, o sostenere che sto scrivendo usando un computer vecchio di 10 anni, sono due affermazioni entrambe false, ma possiamo concludere davvero che una vale l'altra? Direi di no: se non avessi svelato che sono entrambe false, da una delle due può partire un'indagine di verifica, l'altra indica invece che sono un soggetto burlone, fantasioso o sotto effetto di stupefacenti  ;D  
Detto in altro modo: appiattire tutte le verità e tutte le falsità (valore "1" vs valore "0") funziona (forse) nella compilazione delle tavole di verità, ma nella vita umana le ripercussioni nella prassi (sociale o individuale) delle "differenti sfumature di falsità" sono ben più sfaccettate...

Citazione di: paul11 il 29 Maggio 2017, 18:46:14 PM
Ma soprattutto, e questo è il punto fondamentale dell'attuale cultura, ritenere che non essendovi una verità costituiva originaria, allora tutto è opinione. se così fosse vince la forza bruta , non la forza del ragionamento.
Non saprei... stando alla nostra società, direi che, in assenza di valori forti, non vince affatto la forza bruta (che era più diffusa all'epoca dei valori forti, se non erro  ;) ), ma domina proprio il ragionamento-come-discorso, tuttavia non quello logico e orientato di verità, bensì quello retorico, affabulatore, strumentale, che impregna la "società delle comunicazioni forti installate su pensieri deboli" (il vecchio adagio "ne uccide più la lingua che la spada" è forse più attuale oggi che in passato...). 
Così come, nella vita vissuta, una falsità non vale l'altra (vedi sopra), ugualmente un'opinione non vale l'altra...

sgiombo

#9
CitazioneSecondo me a voler essere razionalisti conseguenti, fino in fondo necessariamente si abbraccia lo scetticismo, il dubbio circa la verità o meno di qualsiasi giudizio, che conseguentemente non viene predicato ma rimane sospeso (e in questo, modo uno scettico "non assume nulla come 'incontestabile', in quanto, appunto, si auto-contraddirebbe". Ma dunque, secondo me, non ci troviamo "in un sistema logico paraconsistente", bensì nel rifiuto di ogni logica, cioé di ogni predicazione o giudizio).

Concordo con quasar97 che lo scetticismo (dubbio) è razionalmente insuperabile.
Dissento da Paul11 (e Severino) sulla tesi che "Qualunque posizione di partenza, anche dello scettico, è ontologia, anche chi non crede alla metafisica, anche per Diogene": per me sospendere il giudizio in generale è in particolare sospendere il giudizio anche circa l' ontologia (la realtà considerata nelle sua caratteristiche più generali e astratte, più "fondamentali").

Ma con Phil non riesco ad accettare "la sospensione del giudizio, l'epochè, l'atarassia, l'afasia, l'aponia, etc." (non riesco ad essere razionalista conseguente, ergo: scettico; come forse vorrei) dal momento che "questi sono tutti approcci molto bilanciati e statici, ma la vita è invece dinamica ed esige di sbilanciarsi... e sbilanciarsi nella prassi quotidiana"; detto con parole mie: il razionalismo conseguente (ergo: lo scetticismo) mi condannerebbe a un' impotenza pratica che non riesco ad accettare.

Ritengo perciò personalmente di optare per una "limitata ragionevolezza" non conseguente fino in fondo, limitando il più possibile le credenze indimostrabili, sulle quali costruire (la credenza in) una conoscenza filosofica e scientifica insicura, sempre degna di dubbio, di cui non riesco comunque a disfarmi, nella piena consapevolezza, per dirlo sempre con Phil, "dell'imperfezione, dell'arbitrarietà, della "relatività", proprie dell'impostazione che adopero".
D' altra parte essere consapevoli dei limiti, della relatività, dell' imperfezione del proprio razionalismo significa comunque essere pur sempre (relativamente!) più razionalisti che ignorarli.

sgiombo

#10
Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 22:18:59 PM
Citazione da: quasar97 - Oggi alle 22:18:59
CitazioneRinunciare a ogni pretesa di certezza epistemica è una certezza epistemica  
Ripeto, a mio parere non è il principio di non contraddizione che può fermarci

CitazioneSecondo me il pr. di non contraddizione non può fermare lo scetticismo proprio perché lo scetticismo é dubbio, sospensione del giudizio isnuperata (e non: certezza epistemica di alcunché, nemmeno del dubbio e della sospensione del giudizio): se non si dice, allora (fra l' altro) non (ci) si contraddice.

quasar97

#11
Citazione di: maral il 29 Maggio 2017, 22:32:26 PM
Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 22:18:59 PM
Rinunciare a ogni pretesa di certezza epistemica è una certezza epistemica  ::)
Ripeto, a mio parere non è il principio di non contraddizione che può fermarci
No, significa semplicemente ammettere che ogni certezza ha in sé il suo errore che la contraddice e proprio in quanto è errore si apre alla verità. E dunque sì, il principio di non contraddizione non ci ferma, ma non ci ferma perché il principio di non contraddizione non può che avere in sé stesso la contraddizione di sé, non essendoci nulla al di fuori di esso che possa contraddirlo.

Ho studiato filosofia politica quest'anno, devo concordare con Spinoza quando dice che, in virtù della natura umana, la comunicazione tra uomini non sarà mai limpida: alla fine è ovvio, ognuno con i propri schemi, il proprio lessico e così via; questo preambolo serve per dirti che non riesco a capirti al 100%, sei criptico  ;D  
Ovviamente non sto affatto offendendo o altro, però non saprei cosa risponderti, inizialmente mi hai detto di aver rinunciato alle certezze, qui invece me ne stai parlando!


Citazione di: Phil il 29 Maggio 2017, 22:47:00 PMCommento
Citazione di: quasar97 il 29 Maggio 2017, 21:23:18 PMdevo per forza dedurre che tra noi (anche il più razionalista) ed un credente (ad es.) non c'è alcuna differenza, il che mi rende alquanto pensieroso.
e
Citazione di: paul11 il 29 Maggio 2017, 18:46:14 PMSe tutto è falso, daccapo, allora tutto è anche vero.
Non vorrei deviare il discorso verso sentieri già ampiamente battuti (in altri topic), ma se la Verità Assoluta non c'è, allora diventa ancor più importante discriminare le gradazioni delle "verità relative": per questo, in alcuni casi, espressioni come "fino a prova contraria" sono un fattore più rilevante del famigerato "inconfutabilmente", pur non essendo parimenti assolute. Ci sono gradazioni di falsità e di verità che prescindono dall'identificazione della verità assoluta e, anzi, in sua assenza, sono quanto di più funzionale, prezioso e plausibile la nostra ragione possa offrire. Propongo un esempio sciocco ma, spero, adeguatamente allusivo: dire che sto scrivendo tirando i peli di un gatto a tre code, o sostenere che sto scrivendo usando un computer vecchio di 10 anni, sono due affermazioni entrambe false, ma possiamo concludere davvero che una vale l'altra? Direi di no: se non avessi svelato che sono entrambe false, da una delle due può partire un'indagine di verifica, l'altra indica invece che sono un soggetto burlone, fantasioso o sotto effetto di stupefacenti ;D Detto in altro modo: appiattire tutte le verità e tutte le falsità (valore "1" vs valore "0") funziona (forse) nella compilazione delle tavole di verità, ma nella vita umana le ripercussioni nella prassi (sociale o individuale) delle "differenti sfumature di falsità" sono ben più sfaccettate...
Citazione di: paul11 il 29 Maggio 2017, 18:46:14 PMMa soprattutto, e questo è il punto fondamentale dell'attuale cultura, ritenere che non essendovi una verità costituiva originaria, allora tutto è opinione. se così fosse vince la forza bruta , non la forza del ragionamento.
Non saprei... stando alla nostra società, direi che, in assenza di valori forti, non vince affatto la forza bruta (che era più diffusa all'epoca dei valori forti, se non erro ;) ), ma domina proprio il ragionamento-come-discorso, tuttavia non quello logico e orientato di verità, bensì quello retorico, affabulatore, strumentale, che impregna la "società delle comunicazioni forti installate su pensieri deboli" (il vecchio adagio "ne uccide più la lingua che la spada" è forse più attuale oggi che in passato...). Così come, nella vita vissuta, una falsità non vale l'altra (vedi sopra), ugualmente un'opinione non vale l'altra...

A parte eleggerti a re degli esempi, vorrei fare solo una domanda: ma se la verità assoluta non esiste. come possiamo discriminare tra ''verità parziali''?
Lo so. è un discorso del tutto alieno dalla vita quotidiana, perchè effettivamente nella ''realtà'' sembrano esistere dei diversi gradi di verità, l'esempio più banale che mi viene da fare è eliocentrismo vs geocentrismo. Però, se abbiamo appurato, seppur velocemente, che da un punto di vista epistemologico non possiamo giungere ad una verità assoluta poiché tutto, anche il ragionamento, si risolve in un atto di fede, di conseguenza eliocentrismo e geocentrismo, su un piano ''più ampio'' sono entrambi già ''viziati'' da un problema conoscitivo di base, a prescindere dalla applicazione nella realtà.  (Provo a fare un esempio: è come se stessimo facendo un'equazione senza sapere di aver sbagliato qualcosa durante il procedimento)
Per quanto utile nella vita reale, la ricerca tra verità parziali sposta il focus dai problemi conoscitivi!

Anche qui, non so se sono riuscito a farmi capire, in quanto si tratta di argomenti davvero ma davvero astratti e intricati

Poi concordo con sgiombo sul non riuscire ad accettare l'impotenza pratica dello scetticismo, nonostante questo sia praticamente ''''' inattaccabile dal punto di vista logico '''''' (notare le virgolette). Mi verrebbe da dire che, mentre Falcone e Borsellino tentarono di sconfiggere la mafia con le leggi, qua cerchiamo di sconfiggere la logica con logica, le contraddizioni sbucano come funghi, di conseguenza.

Arrivati a questo punto, è molto facile finire a contemplare l'esistenza individuale, ed è per questo che sono molto vicino anche all'esistenzialismo

acquario69

Credo che possa venirci in soccorso Raimon panikkar con la "sua" intuizione cosmoteandrica che poi era, (ed e') la stessa (non potendo essere diversamente) di sempre. 

qualche spunto di riflessione in tal senso può venire da queste brevi citazioni qui sotto e che riporto perché le spiegano sicuramente meglio di quanto potrei fare io..povera creatura inadeguata (Sariputra docet  ;D ) estremamente limitata e imperfetta :) 

—————

Panikkar non propone un ritorno indietro ad una specie di primitivismo, ad un Paradiso perduto, non ha una visione romantica del passato o della natura.
Invita, invece, a trovare una "nuova innocenza", un modo di conoscere e vivere che non crei contrapposizioni, dualismi, come quello fra soggetto e oggetto tanto caro alla cultura occidentale moderna, e così non ferisca (nocère), non manipoli la realtà 
Invita cioè a rinunciare a quella volontà di potenza, a quella smania di dominio sulla realtà che ha guidato per secoli l'umanità conducendola sull'orlo del baratro e ad abbracciare una visione del mondo fondata sulla relazione. Per realizzare la nuova innocenza è fondamentale, per Panikkar, ripristinare una relazione "cosmoteandrica" fra le tre fondamentali dimensioni della realtà ed una visione contemplativa dell'esistenza. 

L'intuizione cosmoteandrica 
Il divino, l'umano e il terrestre -o comunque li si voglia chiamare- sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono il reale, cioè qualsiasi realtà in quanto tale. Tutto ciò che esiste presenta questa struttura, triplice e unica, espressa in queste tre dimensioni che si generano reciprocamente ma non sono riducibili l'una all'altra. Vi è un'unica relazione, benché intrinsecamente triplice, che esprime la costituzione ultima della realtà: è questa l'intuizione cosmoteandrica. 
Panikkar è consapevole di riformulare, in questi termini, un principio ben noto alle varie tradizioni spirituali e che egli stesso ritrova, ad esempio, nella concezione cristiana della Trinità o in quella buddhista della pratityasamutpada . La realtà mostra questa triplice dimensione: un aspetto metafisico (trascendente o apofatico), un fattore noetico (o cosciente, pensante) e un elemento empirico (fisico o materiale). A livello umano, poi, questo principio si esplica nei tre fondamentali modi di percepire la realtà: l'esperienza sensibile (aisthêsis), l'esperienza intellettuale (noêsis) e l'esperienza sovraconoscitiva e globale che trascende il pensiero (mystika).
La visione cosmoteandrica o relazionale della realtà supera sia il monismo sia il dualismo, tanto che potrebbe essere definita non-dualista, ed è il frutto, in ultima analisi, di un'esperienza mistica, e come tale ineffabile, che rimanda ad un dimensione contemplativa venuta meno con la cultura moderna. 



«L'essere, in definitiva, deve essere liberato da regole logiche prestabilite. È vero che il pensare è diretto all'essere, a ciò che è [ma] l'essere o realtà trascende il pensare. Può espandersi, saltare, sorprendere se stesso. La libertà è l'aspetto divino dell'essere. L'essere ci parla: questa è un'esperienza religiosa fondamentale consacrata da più di una tradizione. E sentire l'"essere" è più che pensarlo». In questa prospettiva, dunque, non solo il pensiero «non può dirci se abbraccia completamente la totalità dell'essere», ma si rende ben conto che «l'Essere non si identifica con il pensiero» e che «la consapevolezza è superiore all'intelligibilità; insomma, io mi rendo conto di qualcosa che non capisco». In breve: l'ontologia non coincide con l'epistemologia.


È possibile osservare quanto detto – e cioè che l'oggettività è un'astrazione, che non esiste se non nel pensiero – in ogni ambito. Panikkar è chiaro al riguardo: «L'oggettività è tale per una soggettività. L'oggettività ha un senso perché c'è la soggettività che la scopre come oggettività e come irriducibile alla soggettività.


l'intelletto può operare distinzioni, ma non separazioni.


La verità non è qualcosa che sta fermo in qualche posto in attesa della scoperta da parte della coscienza umana; la verità è piuttosto qualcosa che nasce dall'incontro, dalla relazione tra i due poli della stessa: la verità è «quella qualità o proprietà della realtà che permette alle cose di entrare in un rapporto sui generis con la mente umana». Al di fuori di questo rapporto, non esiste verità. Non esiste la verità di un oggetto "in sé", proprio perché, come abbiamo visto, non esiste alcun oggetto "in sé": la realtà è simbolica.


Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l'oggetto e il soggetto» Questo legame costitutivo è diretto, senza intermediari; non ha bisogno, cioè, di alcuna spiegazione: il simbolo è per me ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione.


C'è pneuma, spirito, dietro ogni logos. Un termine classico per questa apertura è trascendenza. E trascendenza sperimentata nel corso ordinario del dialogo. Nessun singolo partecipante, e neppure tutti i partecipanti assieme, hanno a loro disposizione l'interezza della realtà. Dialoghiamo di qualcosa che ci trascende, qualcosa di cui non possiamo disporre a piacere. C'è sempre qualcosa che fa sorgere il dialogo. Questo "qualcosa" è sotteso al potere di ogni partecipante. Si potrebbe dire che entrambi i partecipanti sono trascesi da un terzo, che lo si chiami Dio, Verità, Logos, karman, provvidenza, compassione o in qualunque altro modo.

baylham

Il primo  «tropo» concerne la discrepanza dei giudizi (diaphonia) rilevabile sia presso i filosofi, sia nella gente comune, a proposito di qualsiasi questione si prenda in esame.

Antitesi: allora c'è concordanza del giudizio sulla questione e sul disaccordo. Inoltre la tesi è smentita, falsificata in numerosi casi: i giudizi possono convergere.

Il secondo «tropo» rileva come, se si vuole risolvere una questione, occorra addurre una prova: ora, nessuna prova si rivela esaustiva: ogni prova ha bisogno di un'altra prova, e, questa, di una ulteriore prova, e così si cade in un processo all'infinito.

Antitesi: come si dimostra che una prova non è esaustiva se non c'è l'accordo tra le parti? Se invece le parti sono d'accordo allora la prova è esaustiva oppure non è considerata una prova. Si ritorna alla prima tesi.

Il terzo «tropo» chiama in causa la relatività, evidenziando come ogni oggetto appaia in un certo modo solo in relazione al soggetto che lo giudica

Antitesi: parti della prospettiva dell'oggetto sono individuali, ma parti della prospettiva dell'oggetto sono comuni, a partire dall'esistenza dell'oggetto. Altrimenti si ritorna alla prima tesi.

Il quarto «tropo» mostra come i filosofi dogmatici, per tentare di sfuggire al processo all'infinito, assumano i loro principi primi senza dimostrazione, pretendendo che essi siano immediatamente degni di fede.

Antitesi: sono principi primi proprio perché non sono dimostrabili, ciascuna parte è libera di accettarli o respingerli. Si ritorna alla prima tesi.

Il quinto  «tropo» riguarda il «diallele», che si verifica quando, per voler dar ragione della cosa ricercata, la si presuppone dalla ragione stessa che si adduce per spiegarla, o, meglio ancora, quando la cosa che si assume per spiegazione e la cosa di cui si vuole dare spiegazione hanno bisogno l'una dell'altra.

Qualche esempio?

Phil

Citazione di: quasar97 il 30 Maggio 2017, 01:10:35 AM
ma se la verità assoluta non esiste. come possiamo discriminare tra ''verità parziali''?
Secondo me, sul tema della "verità assoluta", è necessario fare un passo indietro (fenomenologico) per riconoscere il "pregiudizio metafisico" che (pre)suppone tale verità: una verità fuori dal tempo (eterna, trascendente) è il "sogno proibito" della filosofia classica, mentre una (o più) verità nel tempo (attuale, immanente) è ciò che la filosofia attuale riscontra, di volta in volta, come operativa... siamo quindi sicuri che cercare la verità assoluta non sia un vano andare a caccia di mitiche chimere?

Il tema della temporalità credo sia il fattore cruciale (anche se non può di certo essere sbrogliato qui in poche righe) e, tanto per cercare di meritarmi il tuo generoso appellativo, provo a spiegarmi con un esempio: molti, presi dal pathos di un momento felice, dicono "ti amerò per sempre!", salvo poi accorgersi (al momento del divorzio, o dopo aver conosciuto un'altra fanciulla) che quel "per sempre" è stata una specificazione quantomeno sprovveduta e ingenua... parimenti, se la verità viene declinata nella temporalità (e perché non dovrebbe?), non c'è una verità per sempre (e dobbiamo ammettere che se anche ci fosse non potremmo certo verificarla con certezza!), ma sempre in itinere, provvisoria, contestualizzata dai criteri di verificazione usati (che, ci insegna la storia, possono cambiare di molto nel tempo).

D'altronde, provando una dimostrazione per assurdo: possiamo ragionare sensatamente senza una verità assoluta? Se rispondiamo "no", significherebbe che allora non ragioniamo mai sensatamente, quindi propenderei piuttosto per un "si" (che non è ovviamente un "si, sempre", ma un "si, è possibile", il che comprende dunque la possibilità dell'errore...). Ciò dimostra che non c'è alcuna necessità pratica (e nemmeno teoretica!) di una verità assoluta, ma è necessaria e sufficiente una "verità debole" (e qui scatta la rasoiata firmata Ockham), "verità debole" che poi, senza ossequi per il passato e per "disambiguarla", potremmo anche ribattezzare in altro modo...


@acquario69
Su Panikkar: giocare la carta jolly del divino, semplifica e contemporaneamente complica il discorso (a seconda di dove si rivolge l'attenzione...).

Inoltre se, da un lato,
Citazione di: acquario69 il 30 Maggio 2017, 04:40:55 AM
Non esiste la verità di un oggetto "in sé", proprio perché, come abbiamo visto, non esiste alcun oggetto "in sé": la realtà è simbolica.[/i][/font][/size][...]il simbolo è per me ciò che non ha bisogno di nessuna interpretazione.[/i][/font][/size]
dall'altro lato, bisogna pur riconoscere che tale interpretazione è invece un bisogno cogente per il soggetto, per strutturare il suo orizzonte di senso, per orientarsi, etc. per cui, il "terzo", la relazione, non è affatto indifferente se lo si identifica con
Citazione di: acquario69 il 30 Maggio 2017, 04:40:55 AMDio, Verità, Logos, karman, provvidenza, compassione o in qualunque altro modo
la differenza fra tutte quelle (ipotetiche) identità è esattamente ciò che è problematico per la ragione umana (almeno per quella classicamente metafisica...).