Relativo, Assoluto, Totalità

Aperto da viator, 09 Giugno 2018, 10:22:20 AM

Discussione precedente - Discussione successiva

viator

Salve. Decido di trasformare in ("nuovo" ??) argomento il tema del mio intervento di ieri in "Il relativismo è una tesi contradditoria?".
Scopo, l'esaminare se esista un rapporto tra relativo ed Assoluto.
Tanto per cominciare c'è il termine "rapporto" il quale dovrebbe evidenziare il fatto che potrebbe esistere appunto una relazione tra relativo ed Assoluto.
Diciamo subito che l'Assoluto è necessariamente unico, il che comporta l'esistenza di almeno due (in realtà, infiniti) enti relativi (se ce ne fosse solo uno, esso non potrebbe quindi che essere l'Assoluto !). Ciò va letto come il tramite, il passaggio dall'unicità del mondo alla molteplicità dei suoi componenti.
Ancora più singolare il fatto che l'unicità dell'Assoluto, risolvendosi nella molteplicità dei relativi, una volta che li includa tutti divenga quindi ovviamente la totalità dei contenuti del mondo. Cioè ci appare il Tutto che quindi non è che l'Assoluto rigorosamente singolare dal quale siamo partiti.
Perciò la molteplicità dei relativi - che rappresenta l'unica realtà vivibile dagli umani - nasce dalla singolarità (l'Assoluto), vive appunto di molteplcità (i relativi) ed infine "muore" nuovamente nella singolarità (il Tutto).
Ma tornando all'inizio, come può esistere una relazione tra Assoluto e relativo? Ovvio che se essa esistesse, rappresenterebbe la negazione dell'esistenza dell'Assoluto, il quale si rivelerebbe con ciò relativo.
Per mantenere in piedi la distinzione Assoluto/relativo, dobbiamo quindi postulare che l'Assoluto non sia in relazione con alcunchè. Poichè poi il concetto di Tutto rappresenta un semplice sinonimo di assoluto, ciò implicherebbe che il Tutto non sia in relazione con le sue parti.
In che modo dimostrare logicamente che l'Assoluto/Tutto non è in relazione con le sue parti? Semplice: Assoluto e Tutto restano identicamente sè stessi indipendendentemente dall'esistenza di qualsiasi loro parte. Il loro significato resta valido ed integro sia aggiungendo che togliendo una qualsiasi quantità di relativi (basta che ne restino al minimo due !). Quindi cade ogni relazione tra il concetto di Tutto e l'esistenza delle sue parti.
Ribadendo, l'Assoluto non è in relazione con i singoli relativi che pure contiene, ma è in relazione con la loro totalità, cioè con sè stesso, visto che Tutto ed Assoluto sono sinonimi.
Queste considerazioni secondo me sono quelle che permettono di sancire la validità del seguente aforisma : "Tutto è relativo ma il Tutto è Assoluto".
D'altra parte io ho sopra affermato che la molteplicità dei relativi nasce e muore nell'unicità del Tutto/Assoluto. Devo a questo punto sconfessarmi ?.
Secondo me, non necessariamente. Tutto ed Assoluto sono solamente puri concetti umani e solo per questa ragione riescono a sfuggire al rapporto con gli enti relativi del mondo fisico. Nascono, vivono e muoiono solo nelle nostre menti come estrapolazioni "ad infinitum" della nostra limitata esperienza fatta solo di percezione e conoscenza del relativo combinata con la nostra illimitata curiosità, ansia e capacità di astrazione. La quale genera masturbazioni mentali come la presente.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

0xdeadbeef

Per quel che mi riguarda, preferisco pensare all'assoluto (e quindi al relativo) in termini etimologici.
L'assoluto è, da questo punto di vista, l'"ab-solutus": lo "sciolto"; il libero da vincoli...
E da quale vincolo l'assoluto potrebbe essere "sciolto"? Ad esempio dal vincolo dell'interpretazione soggettiva.
L'assoluto si verrebbe quindi a configurare come il non-interpretato; come la "cosa in sè"; come, in definitiva,
la Verità (specularmente il relativo sarebbe a questo punto l'interpretato; il "fenomeno"; l'opinione).
Occorre qui accennare che per il "relativismo" (cioè la corrente di pensiero che fa del relativo l'unica verità),
ove esso non fosse "ingenuo", verità inconfutabile, dunque "ab-soluta", è proprio il relativo stesso nella misura
in cui esso annulla l'assoluto ovunque TRANNE, appunto, che nell'affermazione circa la sua stessa "natura".
saluti

baylham

Per me l'assoluto, il tutto, non esiste, ciò che esiste è relativo.  Quindi non c'è alcuna relazione tra il relativo e l'assoluto.

viator

Salve. Per Baylham. Posizione intellettual-esistenziale rispettabilissima e che concorda con la logica della mia umile esposizione. Salutoni.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

sgiombo

Credo di concordare con Viator e Oxdeadbeef, per lo meno in larga misura (se ben capisco).

Il pensiero umano (e dunque la conoscenza umana) é messa in relazione di concetti, ciascuno dei quali definiti attraverso la messa in relazione di altri concetti.

Dunque dell' assoluto si può ragionare solo "adobrandolo", per così dire, solo in negativo, come di caratteristica che non é e non può essere propria del pensiero, delle conoscenze, delle realtà oggetto di conoscenza (umana), o al massimo come di una sorta di limite cui può tendere asintoticamente, non potendolo mai raggiungere pur avvicinandoglisi, la conoscenza (umana).

0xdeadbeef

#5
Perdonatemi ma trovo che la vostra posizione (certamente rispettabile e forse, per certi versi, anche condivisibile)
sia, come dire, esageratamente sbrigativa. E che poco faccia i conti proprio con il concetto di "relazione".
Affermare infatti che qualcosa (in questo caso l'assoluto) non "esiste" significa affermarlo in maniera assoluta.
Anche in questo caso mi rifaccio all'etimologia del termine "ex-sistere"; che vuol dire "stare saldamente fuori".
Fuori da che cosa? Naturalmente dall'interpretazione soggettiva; cioè dal relativo.
Trovo superfluo premettere "per me" (l'assoluto non esiste); ognuno di noi è in un certo qual modo "costretto" ad
esprimersi per assoluti (come il genio di Nietzsche ha intuito); essendo il silenzio la sola alternativa possibile.
Trovo perciò inevitabile, necessario, che tra il relativo e l'assoluto (come concetti, non certo come essenti
"concreti") si stabilisca una qualche relazione.
A mio modesto parere, l'identificazione fra assoluto e tutto (come fra relativo e molteplice) confonde e rende tutto
il discorso "distorto", ed appunto perchè troppo individua in questi due termini una esistenza "concreta" (che cioè
ha una posizione spazio-temporale).
saluti

(chiedo scusa all'amico Sgiombo: ho scritto questa risposta senza aver letto la sua)

Ecco si, appunto, carissimo Sgiombo, mi sembra tu abbia ben "inquadrato" il problema.
Dicevo di Nietzsche, il quale nei "Frammenti postumi" dice: "nell'eterno fluire delle cose di nulla potremmo dire
che è".
Cioè non potremmo mai, senza ricorrere all'assoluto, affermare che questa cosa E' questa cosa.
saluti e stima.
mauro

viator

Salve. Per Oxdeadbeef. Precisazione corretta la tua. Nella mia argomentazione ho usato il verso esistere senza indugiare sui diversi significati di esistere-insistere-essere. Purtroppo non si è mai abbastanza pedanti. Il problema è che la pedanteria aumenta la precisione ma purtroppo anche la complicazione di un discorso. Saprai benissimo che il verbo essere è la base di qualsiasi forma di comunicazione semantica. Se ogni volta che lo usiamo dovessimo stare a distinguere la sua localizzazione.................... diventeremmo tutti degli A.Cannata (personaggio che stimo). Saluti.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

viator


Salve. Per Sgiombo. La tua conclusione sarebbe (riporto):
"Dunque dell' assoluto si può ragionare solo "adobrandolo", per così dire, solo in negativo, come di caratteristica che non é e non può essere propria del pensiero, delle conoscenze, delle realtà oggetto di conoscenza (umana), o al massimo come di una sorta di limite cui può tendere asintoticamente, non potendolo mai raggiungere pur avvicinandoglisi, la conoscenza (umana):".

Mi permetto di provare a modificare il tuo testo :
"Dunque dell'assoluto, concetto esclusivamente immateriale (i concetti appartengono tutti alla categoria dell'immateriale), si può solo ragionare senza potervi interagire concretamente. Esso non può far parte né della percezione né della conoscenza umane, ma solo dell'intuito, il quale non è altro che concepimento (concetto, appunto) metafisico generato dal nostro possedere la cosiddetta "capacità di astrazione". La quale, a sua volta è il frutto dell'albero della coscienza umana". Questo è il mio pensiero. Saluti.




Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Phil

Per me ci sono concetti che hanno una storia antica e funzionano a meraviglia nel loro contesto originario, tuttavia fuori da quella metafisica, o da quella "poetica", o da quel dizionario "canonico", meriterebbero una sana rasoiata di Ockham, poiché, sornioni, creano più falsi problemi (irrisolvibili) di quanti ne risolvano... chiaramente, non per tutti i concetti è così: fare a meno dei concetti di coerenza logica, di percezione, di causa/effetto, di casistica, di scrittura, etc. mutilerebbe drasticamente la fruibilità della ragione umana.

I tre termini in oggetto al topic, secondo me, rientrano in quelli da usare (con cautela) solo una volta che ci si è ben inquadrati in determinati contesti settoriali, accettandone dunque le regole del gioco (semantico). Al netto di ogni sofismo o retorica, il senso di ogni concetto è inscindibile dal contesto di senso (quindi culturale, storico, ma anche individuale, etc.) in cui si innesta, a cui si relaziona, a cui cioè è relativo (re-latus, "che riporta a", al contesto che lo identifica).
Anche il concetto stesso di "relativo" è sempre pensato da qualcuno che lo intende in una determinata accezione (più o meno soggettiva), e quindi è inevitabilmente a sua volta relativo al chi/quando/come viene pensato, definito, argomentato, etc. 
Questo meccanismo di senso dell'essere relativo ad altro da sé è così inaggirabile che è forse superfluo evidenziarlo (come uomo sono biologicamente relativo alla specie umana ad un determinato stadio evolutivo, come votante sono relativo alla società attuale e alla legislazione vigente, come parlante uso una lingua con una relativa grafia, fonetica, etc.).

"Assoluto" e "Totalità" sono, in filosofia, parole ambigue (così "aperte" da risultare quasi vuote) di matrice metafisica, mentre in matematica, se non erro, hanno significati spendibili schiettamente nel calcolo (valore assoluto) e nell'insiemistica (totalità degli elementi dell'insieme), senza creare troppi dilemmi ed antinomie. Forse converrebbe lasciarli dove funzionano meglio  ;)
Anche se affermo qualcosa stimandola come assoluta, tale assolutezza è solo prospetticamente mia, ma per la comunità a cui mi rivolgo (e persino in caso di soliluquio intellettualmente onesto) è sempre una costatazione relativa a un parlante, a un tempo, a un luogo, a un contesto, etc. tuttavia se invece per "assolutezza" intendiamo "certezza", tutto il discorso slitta un bel po', perchè l'"assoluto" diventa allora l'"assolutamente certo" e dunque spalanchiamo le porte tanto all'epistemologia quanto allo psicologismo (e quell'"assolutamente" viene degradato a mero avverbio "rafforzativo", nulla di troppo possentemente filosofico  ;D ).

Resta indubbiamente possibile continuare a "flirtare" con le maiuscole: l'Assoluto, il Tutto, etc. stabilendo ("inventando" e non "scoprendo") una definizione roboante (ed autoreferenziale) di concetti estremi, proprio come capita con altre, guarda caso affini, definizioni in negativo (il Nulla, il Vuoto, etc.), eppure più la definizione è impervia (tirando in ballo tempi e modi inverificabili e "poetanti") più diventa una questione di avere senso solo all'interno di una scelta di "fede" (e non mi riferisco solo al dogmatismo religioso), che rischia di restare assoggettata ad una parola senza radici (ovvero annaffiata con amore dall'alto, ma non alimentata dal basso, la sua linfa vitale scarseggia...)
Ad esempio, prima di interrogarmi su come funziona e come si relaziona ad altro da sé, sono certo che l'Assoluto esista? Se esiste solo come concetto, astratto per "sublimazione" da ciò che assoluto non è, è lecito usarlo come fosse più di una bella metafora? In matematica si usa l'infinito (astratto via negationis dal finito) come "tappo", come limite; che in filosofia sia necessario fare altrettanto con l'assoluto? Certo, si può farlo e lo si è anche fatto, ma è davvero necessario, oggi, o conviene usare il suddetto rasoio per rastrellare le piante senza radici?

0xdeadbeef

Beh, capisco come certi discorsi possano sembrare pedanti, "onanistici", riferiti cioè relativi a ristrette cerchie
di "iniziati" e che, tutto sommato, meritino una bella "rasoiata".
Però, appunto, sembrano soltanto...
Visto che, personalmente, ritengo la filosofia non esercizio astratto e sterile, ma ricerca dei fondamenti più
profondi di tutto ciò che risulta, poi, terribilmente immanente e concreto, farò qui l'esempio forse più
macroscopico della "realtà" dell'assoluto. Nelle aule di tribunale, infatti, c'è scritto: "la legge è uguale per tutti";
che vuol semplicemente dire che la legge viene intesa assolutamente.
Dunque l'assoluto "esiste" (...) eccome: lo si chieda a coloro che vengono condannati da una corte che, magari, non
"comprende" le motivazioni personali (relative) che hanno portato l'imputato a trasgredire l'assoluto rappresentato
dalla legge.
Quindi non ci si illuda pensando di aver liquidato una volta e per tutte certi concetti, perchè poi quei concetti, come
si suol dire, rientrano dalla finestra...
Proprio il "rasoio di Okham", fra l'altro, è un esempio di questo rientrare dei concetti per vie che non si erano
considerate. Ma non è questo il punto, e non divaghiamo.
saluti

Phil

L'assoluto della legge è... relativo: le leggi cambiano sia nel tempo (storia del diritto), che nello spazio (oggi le leggi italiane non sono quelle americane), sia talvolta persino nell'interpretazione (i casi anomali che costituiscono un "precedente" e condizionano la casistica di riferimento, v. corte di cassazione etc.). 
La legge, come concetto astratto, è assoluta, ovvero "sciolta, indipendente, incondizionata", solo dalla contaminazione di ciò che le si oppone (l'illegale); quindi in questo arbitrario "gioco delle parti" (e dei contrari), l'assolutezza non è, concedetemelo, filosofica, proprio perché è soltanto un "assoluto" relativo ad una coppia dicotomica (vero/falso, giusto/sbagliato, etc.). Restando all'esempio, se vengo condannato, non è in virtù dell'assoluto (come direbbe l'inquisizione  ;D ), ma solo per una convenzione stabilità da una comunità e applicata da alcuni dei suoi membri fiduciari (tutto molto immanente e contingente...).

Ritorna allora ad essere una questione meramente linguistica: assoluto è semplicemente ciò che è indipendente dal suo contrario? Si tratta dunque di una funzione logica identitaria (x è assoluto rispetto a non-x)? 
L'Assoluto dei filosofi antichi forse era di altra pasta... riservata agli "iniziati", come hai giustamente osservato, poiché richiedeva il "salto nella fede" (intesa come fiducia nel dogma, inverificabile, che l'Assoluto ci sia, e se ne possa persino predicare qualcosa, foss'anche "negativamente").

Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 09:28:40 AMVisto che, personalmente, ritengo la filosofia non esercizio astratto e sterile, ma ricerca dei fondamenti più profondi di tutto ciò che risulta, poi, terribilmente immanente e concreto
Concordo, tuttavia la storia della filosofia recente sembra metterci in guardia dal cercare tale "profondità" nell'ontologico (ormai lo fanno meglio le scienze ;) ), invitandoci piuttosto alla profondità ermeneutica (profondità del senso, non dell'Essere, anche se i due sono stati ben saldati, con-fusi assieme dalla metafisica occidentale, e a separarli forse non basta la decostruzione del postmoderno...).

0xdeadbeef

#11
Beh, io direi che se vengo condannato è sì in virtù di una convenzione stabilità da una società; ma una convenzione che
pretende di valere assolutamente, cioè per tutti i membri di quella società.
Naturalmente è verissimo che le leggi cambiano nel tempo e nello spazio, ma è altrettanto vero che in un certo tempo e
in un certo spazio quelle leggi hanno una validità assunta come assoluta (seppur per convenzione).
L'assoluto, da questo punto di vista, non è da me inteso come relativo alla coppia dicotomica legale/illegale, ma
come riferentesi alla "universalità" del valore ascritto alla norma giuridica (cioè alla sua prescrittività "per tutti").
Ma dirò di più (lo accennavo): tutto il linguaggio è fondato su una pretesa di assolutezza, senza la quale nemmeno
potremmo alzarci e dire: "guarda che bella giornata è oggi". L'assoluto, da questo punto di vista, permea di sè
ogni aspetto della nostra vita quotidiana (Nietzsche diceva infatti che se dicìamo di qualcosa che "è" lo diciamo "così,
per vivere" - cioè legava la concezione di assoluto ad una visione convenzionale ed utilitaristica).
Chiaramente, ma lo dicevo, non è dell'assoluto "classicamente inteso", come è insomma in Aristotele, che sto parlando.
Diciamo che la mia visione dell'assoluto è più, come dire, "kantiana". Ma, visto che si parlava di "relazione", e da
quel punto di vista si escludeva categoricamente l'"esistenza" dell'assoluto, beh, io dico che invece quel termine
(esistenza-dell'assoluto) vada molto ma molto ben più ponderato e specificato.
saluti

sgiombo

#12
Citazione di: Phil il 10 Giugno 2018, 12:40:56 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 09:28:40 AMVisto che, personalmente, ritengo la filosofia non esercizio astratto e sterile, ma ricerca dei fondamenti più profondi di tutto ciò che risulta, poi, terribilmente immanente e concreto
Concordo, tuttavia la storia della filosofia recente sembra metterci in guardia dal cercare tale "profondità" nell'ontologico (ormai lo fanno meglio le scienze ;) ), invitandoci piuttosto alla profondità ermeneutica (profondità del senso, non dell'Essere, anche se i due sono stati ben saldati, con-fusi assieme dalla metafisica occidentale, e a separarli forse non basta la decostruzione del postmoderno...).

Concordo anch ' io con Oxedadbeef, ma non con la successiva postilla di Phil.

La storia della filosofia recente secondo me é molto variegata, comprende derive idealistiche irrazionalistiche e derive scientistiche più o meno altrettanto irrazionalistiche, entrambe a mio avviso errate e negative, e "in mezzo" tante proposte (in varia misura razionalistiche e) più o meno valide.

Soprattutto dissento dalla tesi che nell' ontologia ormai bastino (o comunque "siano meglio") le scienze (in senso stretto o forte ovvero le "scienze naturali"; che ovviamente ritengo comunque necessario conoscere; e per parte mia più per il loro interesse teorico, di "conoscenza pura" che per le possibili applicazioni tecniche).
E questo principalmente per due motivi.
Il Primo è che ritengo che le scienze naturali si occupino ottimamente della ricerca della conoscenza vera nell' ambito naturale - materiale della realtà (più o meno la cartesiana res extensa), ma anche che la realtà non sia limitata ad essa ma invece comprenda anche la cartesiana res cogitans in nessun modo riducibile alla, né (qualsiasi cosa questi concetti possano significare) emergente dalla o sopravveniente alla res extensa (e lo stesso dicasi per i rapporti fra coscienza e cervello, che peraltro non sono in tutto e per tutto esattamente la stessa cosa che i rapporti fra pensiero e materia).
Il secondo é che la verità delle conoscenze scientifiche necessita di una "critica filosofica" che ne analizzi limiti, significato, condizioni; una severa critica razionale che implica anche importanti "considerazioni ed elementi di ontologia" (circa la realtà e la reale natura di ciò che é possibile conoscere, più o meno scientificamente) non assolutamente ricavabili dalla conoscenza scientifica stessa.

Phil

Secondo me, appurato che parliamo di assoluto con la minuscola, si fanno convergere in tale vago termine ("assoluto") tanti significati specifici, e il risultato rischia di essere incline alla confusione (per eccessiva approssimazione); per questo alludevo alla rasoiata emendatrice:
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 14:21:50 PM
io direi che se vengo condannato è sì in virtù di una convenzione stabilità da una società; ma una convenzione che
pretende di valere assolutamente, cioè per tutti i membri di quella società
assolutamente, ovvero "in ogni caso"; ma esistono, in fondo, leggi giuridiche che non sono assolute (al netto delle rispettive postille)? Dire "legge che vale assolutamente" non è ridondante ed equivalente rispetto a semplicemente "legge"?
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 14:21:50 PM
tutto il linguaggio è fondato su una pretesa di assolutezza, senza la quale nemmeno
potremmo alzarci e dire: "guarda che bella giornata è oggi".
L'assolutezza del linguaggio è quella di essere fondato su definizioni, regole sintattiche, etc. atte a descrivere e comunicare? Anche qui: esistono forse linguaggi non assoluti, nel senso che non hanno questa "funzione strutturata"?
Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 14:21:50 PM
L'assoluto, da questo punto di vista, permea di sè
ogni aspetto della nostra vita quotidiana (Nietzsche diceva infatti che se dicìamo di qualcosa che "è" lo diciamo "così,
per vivere" - cioè legava la concezione di assoluto ad una visione convenzionale ed utilitaristica).
Nel senso che ogni identità logica è intesa come assoluta? Ciò è già implicito nella definizione di identità: A è diverso da non-A; allora A è assoluto? Si rischia anche qui l'abuso, o meglio, l'uso superfluo del concetto di assolutezza (già presupposto da quello di identità logica).

Dirò forse che la mia chiave inglese ha una "utilità assoluta" se si tratta di avvitare o svitare un bullone n.12?
In tutti questi casi mi pare che l'appellativo "assoluto" (e l'assolutezza sottintesa come "l'essere ciò che si è, come si è, senza essere ciò che non si è") sia una ragnatela: non serve, anche se non danneggia troppo...

Citazione di: 0xdeadbeef il 10 Giugno 2018, 14:21:50 PM
io dico che invece quel termine
(esistenza-dell'assoluto) vada molto ma molto ben più ponderato e specificato.
Se per "assoluto" non intendiamo semplicemente "autonomo" o "estendibile a tutta la sua casistica pertinente", bisogna chiedersi qual'è il piano di esistenza dell'assoluto (se non è puramente linguistico-concettuale) e, soprattutto, su cosa si fonda l'assoluto (che non sia astrazione concettuale).
Certo, parliamo di assouto per tradizione (indizio: citiamo autori metafisici di secoli passati...), ma ci fidiamo ciecamente del fatto che ci "sia", per passare così direttamente alla questione del "come" sia (prima di chiederci "se" sia)?
Una certa filosofia, più fresca di stampa (quindi con meno ragnatele), ci suggerisce che potrebbe essere un passo falso...


Citazione di: sgiombo il 10 Giugno 2018, 14:25:34 PM
Soprattutto dissento dalla tesi che nell' ontologia ormai bastino (o comunque "siano meglio") le scienze (in senso stretto o forte ovvero le "scienze naturali"; che ovviamente ritengo comunque necessario conoscere; [...]
E questo principalmente per due motivi.
Il Primo è che ritengo che le scienze naturali si occupino ottimamente della ricerca della conoscenza vera nell' ambito naturale - materiale della realtà (più o meno la cartesiana res extensa), ma anche che la realtà non sia limitata ad essa ma invece comprenda anche la cartesiana res cogitans
Dubito (visto che si parla di Cartesio!) che la filosofia sia la disciplina più adatta a studiare la "res cogitans" (sebbene sia la più incline ad usarla) il cui "campo", non a caso, mi pare si sta riducendo e riconfigurando man mano che avanzano le neuroscienze (ad esempio, il pensiero non è una "voce immateriale" che abita la testa, come magari pensava Cartesio); tuttavia non voglio deviare il discorso off topic.

Citazione di: sgiombo il 10 Giugno 2018, 14:25:34 PM
Il secondo é che la verità delle conoscenze scientifiche necessita di una "critica filosofica" che ne analizzi limiti, significato, condizioni; una severa critica razionale che implica anche importanti "considerazioni ed elementi di ontologia"
Concordo con l'istanza della "supervisione filosofica", ma l'ontologia filosofica è a un vicolo cieco da molto tempo (almeno dalla nascita delle scienze fisiche moderne), vicolo cieco che termina con una porta di cui solo le scienze naturali che citi hanno la chiave (ad esempio, la "causa formale" dell'uomo, di cui si parlava in filosofia antica. è, banalizzo per ignoranza, nella "programmazione" del Dna: da qui in poi la scienza può indagare sulla "forma" degli uomini, e alla filosofia non resta che osservare i passi della ricerca scientifica...).

viator

#14
Salve. per Phil (tua risposta nr.otto): Cito : Anche il concetto stesso di "relativo" è sempre pensato da qualcuno che lo intende in una determinata accezione (più o meno soggettiva). Quindi siamo alla relatività del relativo. Bene.

La mia accezione di relativo è quella data dalla definizione "ciò che influisce su altro o è oggetto di influenza da parte di altro". Certo, se ciascuno ha proprie definizioni (che nelle discussioni- guarda caso - si ostinano a non venir mai fuori se non da parte mia) che sono diverse da questa.......allora si spiega - e in realtà si spiega proprio ! - perché le discussioni forumistiche continuano (fortunatamente) all'infinito. Su principi essenziali come questi però si dovrebbe far chiarezza, non crear variegatezza.

Ricito :"Assoluto" e "Totalità" sono, in filosofia, parole ambigue (così "aperte" da risultare quasi vuote) di matrice metafisica, mentre in matematica, se non erro, hanno significati spendibili schiettamente nel calcolo (valore assoluto) e nell'insiemistica (totalità degli elementi dell'insieme), senza creare troppi dilemmi ed antinomie. Forse converrebbe lasciarli dove funzionano meglio .

Se prima andavamo bene, ora andiamo meglio! Come parole (significato letterale-letterario) possono anche risultare ambigue ma solo perché esse, come tutte le parole importanti, fondanti, vengono volontariamente od inconsapevolmente mistificate da chi le usa.
Ma avete idea di quanta gente, anche in possesso di superba formazione culturale, non saprebbe fornire d'acchito (e spesso neppure dopo lunga cogitazione) una definizione dell'Assoluto ? Ovvio che, una volta che costoro vogliano o debbano usare tale termine lo facciano impropriamente od addirittura in senso relativo !.

Come concetti matematici, invece, siamo proprio fuori dalla "grazia di Dio"! La matematica (linguaggio figlio della logica e solo lontanamente nipote della filosofia) può occuparsi solo di molteplicità e non certo di unicità e totalità, le quali non rappresentano unità discrete. Non per nulla la radice quadrata di 1 è 1, mentre il quadrato dell'infinito (totalità) è l'infinito. Sono d'accordo con te sul fatto che Assoluto e Totalità vadano lasciati dove funzionano meglio.......cioè in filosofia !!.
Tutte le elucubrazioni matematiche che si occupino di nulla, unicità, totalità sono solo forzosi artifici creati per mantenere in vita teorie e convenzioni che dovrebbero reggere baracche utili a dare lustro a qualcuno.

Infine e quindi, a livello filosofico, "Assoluto" e "Totalità" secondo me sono concetti (i concetti son cosa diversa dalle parole) ambigui solo per menti limitate (anche la mia mente è limitata, ma non trovando ambiguità vorrà dire che sono l'eccezione che conferma la regola).

Sempre a proposito di definizioni, vorrei che qualcuno mi spiegasse l'oscurità, la complessità, l'ambiguità della seguente definizione di Assoluto : "Ciò che contiene senza essere contenuto da altro più grande di esso". La "Totalità" poi che sarebbe ? "il contenuto dell'Assoluto". Salutoni.
Esiste una sola certezza : non esiste alcuna certezza.

Discussioni simili (5)