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Relativismo/Assolutismo

Aperto da Jacopus, 05 Marzo 2017, 16:46:13 PM

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Angelo Cannata

Vedo in molti di questi ultimi interventi l'idea di sottofondo secondo cui per fare delle scelte o per lottare per qualcosa il relativista debba per lo meno avere una qualche fede o fiducia in ciò che sceglie o in ciò per cui lotta. Questo non è affatto indispensabile. Io posso benissimo operare una scelta senza avere alcuna fiducia in essa; posso lottare per una causa senza bisogno di fidarmi della sua bontà.
Per esempio, a me piace criticare la metafisica, ma non sono affatto convinto che ciò sia una cosa buona, né ripongo alcuna fiducia nelle mie critiche o nel mio relativismo. Ho aiutato tante persone, ma non sono affatto convinto di aver fatto un bene, e ciò non significa che io abbia dato tale aiuto senza metterci impegno.

Il mio si potrebbe definire un provare delle adozioni: oggi provo ad adottare l'idea di importanza della libertà, domani quella della giustizia, ma adottare un'idea e lottare per essa non significa doversi convincere che essa sia giusta o dare fiducia ad essa. Sono solo prove, tentativi.

Questa mentalità del convincersi per avere successo, per mettere molto impegno nelle cose, mi ricorda certe metodologie psicologiche di autoconvincimento che a mio parere non fanno altro che abituare alla falsità; mi ricorda la pratica dei lottatori e guerrieri, che per auto istigarsi emettono grida, si agitano oltre il necessario; mi ricorda Gesù, che rimproverò Pietro, che non riuscì a camminare sulle acque, dicendogli che ciò era successo perché aveva dubitato; mi ricorda il cartone di Disney Dumbo, in cui si trasmette il messaggio che quell'elefantino aveva bisogno solo dell'autoconvinzione per riuscire a volare. Questo a mio parere non abitua a coltivare armonia tra tutte le percezioni e tutte le capacità umane. Coltivare in sé armonia significa, a mio parere, piuttosto che insistere sul credere e autoconvincersi per avere successo, allenarsi, lavorare su se stessi, esercitarsi, autocriticarsi, cercare sempre di migliorarsi. Questo sì che fa diventare davvero persone capaci, persone che progrediscono, persone si guardano dal fanatismo.

Sariputra

Citazione di: Angelo Cannata il 09 Marzo 2017, 20:07:52 PMVedo in molti di questi ultimi interventi l'idea di sottofondo secondo cui per fare delle scelte o per lottare per qualcosa il relativista debba per lo meno avere una qualche fede o fiducia in ciò che sceglie o in ciò per cui lotta. Questo non è affatto indispensabile. Io posso benissimo operare una scelta senza avere alcuna fiducia in essa; posso lottare per una causa senza bisogno di fidarmi della sua bontà. Per esempio, a me piace criticare la metafisica, ma non sono affatto convinto che ciò sia una cosa buona, né ripongo alcuna fiducia nelle mie critiche o nel mio relativismo. Ho aiutato tante persone, ma non sono affatto convinto di aver fatto un bene, e ciò non significa che io abbia dato tale aiuto senza metterci impegno. Il mio si potrebbe definire un provare delle adozioni: oggi provo ad adottare l'idea di importanza della libertà, domani quella della giustizia, ma adottare un'idea e lottare per essa non significa doversi convincere che essa sia giusta o dare fiducia ad essa. Sono solo prove, tentativi. Questa mentalità del convincersi per avere successo, per mettere molto impegno nelle cose, mi ricorda certe metodologie psicologiche di autoconvincimento che a mio parere non fanno altro che abituare alla falsità; mi ricorda la pratica dei lottatori e guerrieri, che per auto istigarsi emettono grida, si agitano oltre il necessario; mi ricorda Gesù, che rimproverò Pietro, che non riuscì a camminare sulle acque, dicendogli che ciò era successo perché aveva dubitato; mi ricorda il cartone di Disney Dumbo, in cui si trasmette il messaggio che quell'elefantino aveva bisogno solo dell'autoconvinzione per riuscire a volare. Questo a mio parere non abitua a coltivare armonia tra tutte le percezioni e tutte le capacità umane. Coltivare in sé armonia significa, a mio parere, piuttosto che insistere sul credere e autoconvincersi per avere successo, allenarsi, lavorare su se stessi, esercitarsi, autocriticarsi, cercare sempre di migliorarsi. Questo sì che fa diventare davvero persone capaci, persone che progrediscono, persone si guardano dal fanatismo.

Ma messa così qual'è l''utilità di una simile discussione?...Se a te va di fare le cose "così, tanto per provare" prosegui pure su questa strada, senza pretendere che gli altri lo ritengano 'ragionevole'. Ognuno ha i suoi gusti... ;D
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

davintro

Non si dovrebbe confondere "violenza" con forza". La violenza è solo una delle possibili declinazioni della forza, la forza che distrugge, provocante sofferenza. Ma esiste anche una forza costruttiva. La casa solida che resiste ai terremoti, alle intemperie, alle bombe è forte, ma la sua forza non si esprime nel distruggere qualcos'altro ma nel conservare se stessa. Relativismo è confondere "forza" e "violenza", sostenendo che il superamento del pensiero violento sia l'avvento di un pensiero "debole", cioè non forte, e non considera che il pensiero "forte" non è necessariamente violento, e che, riprendendo la metafora della casa, trae la sua forza da delle fondamenta che lo rendono solido. Ora le fondamenta del pensiero che lo rendono forte è la razionalità, che consiste nel mostrare l'aderenza del discorso, soggettivo, alla realtà, oggettiva. Come le fondamenta rendono la casa forte, resistente alle varie cause di distruzione, la ragione rende il pensiero forte, resistente alle varie obiezioni tese a smontarlo. In fondo il relativismo ha una sua rispettabile nobiltà, che gli deriva dal nascere da motivazioni etiche apprezzabili e condivisibili: la tolleranza, la tutela del pluralismo, valori che verrebbero messi a repentaglio dalla pretesa di un singolo punto di vista di porsi come l'unico possibile. Il problema è che il relativismo mostra la sua autocontraddittorietà non solo nel senso teoretico, per cui l'affermazione che "tutto è relativo" o "tutto è relazione" sono affermazioni che presumono per la loro validità che siano oggettivamente vere, cioè l'assunzione di un punto di vista oggettivo che smentirebbe il principio di arbitrarietà e soggettività di ogni verità, ma anche nel senso etico, cioè il piano dove il relativismo sente più intensamente le esigenze del suo sorgere. I valori della tolleranza, del rispetto della libertà individuale, della pace sono valori che un relativismo coerente con se stesso dovrebbe negare come ASSOLUTAMENTE validi, limitarli a porli come arbitrari, frutto di preferenze meramente soggettive e sentimentali. Ciò è legittimo ed io stesso ritengo non esista una razionalità oggettiva che ponga un'etica come migliore di un'altra (in questo senso potrei definirmi un relativista etico, mentre sul piano teoretico, conoscitivo, mi considero "realista" ritengo assurdo negare l'esistenza di verità oggettive e assolute). Ora, nel momento in cui il relativismo si impone come visione dominante all'interno di una società, si demanda ai singoli individui di agire in relazione ai propri valor soggettivi senza alcun limite dato da norme universali, da rispettare in assoluto e, inevitabilmente si imporrà la legge del più forte, chi ha maggiori mezzi materiali per imporre i suoi principi finirà inevitabilmente con lo schiacciare chi ne ha meno. Per evitare ciò è necessario che i valori di tolleranza che ispirano il relativista vengano assolutizzati, non nel senso, come invece dovrebbe essere a livello teoretico, di essere giustificati dalla ragione che ne mostri una presunta oggettività, ma nel senso di porli come valori universalmente normativi all'interno di una società, ed in nome di tale normatività ispirare una giurisprudenza, un complesso di leggi teso a proteggere le persone dalla violenza, la discriminazione, l'intolleranza. Cioè le esigenze etiche che ispirano il relativismo presuppongono il superamento del relativismo stesso, fintanto che si resta in esso qualunque giudizio di condanna riguardo atti di violenza e intolleranza resterebbe insensato in quanto mancante di criteri di giudizio riconoscibili come assoluti e universali. Quando si parla di "assoluto", di nesso tra assolutismo e violenza cioè occorre distinguere tra il piano formale e quello contenutistico del concetto di assoluto: quello formale è necessitante per qualunque giudizio o affermazioni, comprese le asserzioni etiche del relativista: giudicare implica sempre applicare criteri e categorie a cui si attribuisce un significato universale all'interno di cui riconduciamo l'esperienza dell'oggetto particolare che giudichiamo: non si può reputare un massacro come "ingiusto" se non si pone un criterio universale di giustizia che funga come riferimento, modello regolativo in relazione a cui raffrontare come "più o meno" giusto un evento storico particolare.. Qui assoluto è una forma, un modo d'essere di qualcosa. L'associazione assolutismo-violenza diviene questione sensata nel momento in cui l'assoluto si debba "riempire" di un contenuto, di una determinazione particolare. Il cristianesimo, questo era il riferimento originario della discussione, può essere visto come prospettiva ispiratrice di violenza in base al modo in cui lo si interpreta, si riempiono di un certo significato determinato concetti come "Dio", "chiesa". Appare evidente come un credente che vede Dio come entità vendicativa o la chiesa come una comunità chiusa, al di fuori del numero di chi ad essa esplicitamente e ritualisticamente aderisce "nulla salus est" sarà ispirato da un atteggiamento molto più intollerante rispetto al credente che vede Dio come padre amoroso di un' intera umanità in cui ci si  riconosce come reciprocamente fratelli, al di là dei confini visibili della chiesa. Eppure per entrambi Dio e chiesa sono verità assolute. Insomma, trovo piuttosto superficiale e limitativo associare violenza e assunzione di verità assolute senza specificare di quale verità si sta parlando a livello contenutistico. C'è verità e verità come c'è forza e forza e dal modo con cui le si determina contenutisticamente dipende la loro carica di eventuale violenza e intolleranza.

Per quanto riguarda il "dubbio" non credo che il relativista abbia il monopolio del dubbio. Perché il dubitare non si fonda sul soggettivismo arbitrario, bensì dall'OGGETTIVO riconoscimento, razionale, di mancanze o fallacie teoretiche di un certo pensiero. Dubito di qualcosa perché ritengo di avere delle oggettive ragioni per il fatto che ciò verso cui applico il dubito non sia convincente. Il dubbio è fondamentale per ricercatori della verità come Cartesio od Husserl, che certo non erano relativisti, ma miravano alla fondazione di un sapere certo e rigoroso. Tutto sta nel come considerare il dubbio, se come punto di arrivo, gioco intellettualistico fine a se stesso (valore dunque assolutizzato... di nuovo contraddizione del relativismo), oppure strumento di ricerca per smontare discorsi non validi in favore di discorsi più validi. Dove sta l'irragionevolezza nel cessare di dubitare nel momento in cui una certa verità ci appare massimamente evidente? Evidenza che, in un eventuale futuro momento in cui cesserà di apparire tale, potrà di nuovo tornare a subire l'azione critica del dubbio, ciò sta all'onesta intellettuale del ricercatore della verità, una virtù individuale, non certo una proprietà esclusiva di una certa ideologia come il relativismo. Ma fintanto che l'evidenza continua a manifestarsi come tale, continuare a dubitare equivale all'infantilismo del bambino dispettoso che si diverte a calpestare sulla spiaggia i castelli di sabbia senza preoccuparsi di costruirne di più alti e belli. E questo è estremamente più violento della tanto vituperata "certezza", che invece dovrebbe essere la meta a cui l'esercizio del dubbio si orienta, quantomeno nel massimo possibile avvicinarcisi

maral

Citazione di: Angelo Cannata il 09 Marzo 2017, 19:47:57 PM
In base a quale necessità l'assoluto dovrebbe essere richiamato dall'accadere? Chi ha stabilito che l'accadere debba richiamare l'assoluto?
Perché è solo il relativo che accade e se accadendo non richiamasse l'assoluto, come altro da sé, si porrebbe esso stesso (il relativo) come assoluto. Si avrebbe cioè un relativo assoluto che non è che una perifrasi del nulla. L'assoluto è l'antitesi dialettica del relativo e ne dà significato in quanto ne è la negazione e viceversa, per questo l'assoluto è sempre richiamato e minacciato dalla sua antitesi relativa, quanto il relativo lo è dalla sua antitesi assoluta. Si tratta di vedere i termini in reciproca implicazione proprio in quanto opposti, l'uno è in ragione dell'altro che lo nega.

Citazione
Citazione di: maral il 09 Marzo 2017, 11:40:04 AM...Il problema non è se l'assoluto sia o non sia, chiaro che è, altrimenti che senso avrebbe mai il relativo?
Chi ha stabilito che il relativo debba per forza avere un senso?
Ho scritto senso, ma sarebbe stato giusto dire "significato" e dunque l'esigenza in termini di significato è chiarita da quanto ho scritto sopra. Un relativo senza assoluto altro da sé è esso stesso assoluto, resta solo l'autocontraddizione assoluta.
Non si tratta di un dovere morale, ma di una necessità ontologica rilevata su base dialettica.
Poi un relativista può respingere ogni accenno all'assoluto, ma in tal modo non fa altro che porsi lui stesso come assoluto relativista autocontraddicendosi.


CitazioneInoltre, quali che siano queste esigenze o logiche o meccanismi mentali, chi garantisce che essi non siano difettosi, contraddittori, incoerenti, ingannevoli?
Possono benissimo essere meccanismi ingannevoli, ma un relativo assoluto non è semplicemente una contraddizione, ma un'autocontraddizione e l'autocontraddizione demolisce in partenza qualsiasi tesi si voglia sostenere, qualsiasi cosa si dica, compreso che nulla può essere garantito. Chi può mai garantirlo?

maral

@davintro, l'assoluto non può assolutamente essere tollerante, se non rinunciando al suo essere assoluto. Nell'ottica dell'assoluto che definisce un contenuto particolare come assoluto (dice precisamente che cosa solo va considerato assoluto) è evidente che la forza può solo essere violenza e lo è sempre stata, per ogni assoluto che si è proclamato, fosse principio di fede o di ragione, comandamento dell'amore compreso e soprattutto (proprio in nome dell'amore, la caritas, si può raggiungere il massimo della violenza), perché qualsiasi assoluto può convincere solo con la fede e la fede è volontà di credere che con la volontà si deve imporre facendo violenza assoluta su se stessi quando si dubita e su ogni altro che non ci crede, altrimenti, di nuovo, che assoluto è?
L'assoluto assunto come contenuto specifico è la vera e unica matrice di ogni violenza, inevitabilmente, anche (e forse ancor di più) se inteso come relativo assoluto. In realtà tu e Angelo Cannata fate lo stesso discorso, entrambi avete pretese assolute anche se di segno opposto.
La fondatezza delle proprie tesi lasciamole lontane dall'assoluto, stiamoci lontani dall'assoluto se vogliamo sopravvivere un po' meglio insieme. L'assoluto c'è, ma va tenuto a giusta distanza finché viviamo, perché solo nello spazio di questa distanza possiamo vivere e convivere. La fondatezza dei nostri principi non sta nel porli come assoluti, ma al contrario, pur ritenendoli giusti e sommamente giusti perché ci fanno essere quello che siamo, nel porli come sempre discutibili quando si tratta di attuarli, commisurandoli ai contesti, confrontandoci con le altrui realtà che determinano modi diversi di vivere e sentire, affinché, se proprio deve essere qualcosa, l'assoluto lo si possa vedere solo come un parziale relativo in cammino insieme ad altri relativi. L'assoluto è il relativo percorrere il nostro cammino insieme per tornare sempre a ciò che siamo, nelle relazioni che sole ci fanno essere proprio ciò che siamo.

Sariputra

#65
Citazione di: maral il 09 Marzo 2017, 23:40:37 PM@davintro, l'assoluto non può assolutamente essere tollerante, se non rinunciando al suo essere assoluto. Nell'ottica dell'assoluto che definisce un contenuto particolare come assoluto (dice precisamente che cosa solo va considerato assoluto) è evidente che la forza può solo essere violenza e lo è sempre stata, per ogni assoluto che si è proclamato, fosse principio di fede o di ragione, comandamento dell'amore compreso e soprattutto (proprio in nome dell'amore, la caritas, si può raggiungere il massimo della violenza), perché qualsiasi assoluto può convincere solo con la fede e la fede è volontà di credere che con la volontà si deve imporre facendo violenza assoluta su se stessi quando si dubita e su ogni altro che non ci crede, altrimenti, di nuovo, che assoluto è? L'assoluto assunto come contenuto specifico è la vera e unica matrice di ogni violenza, inevitabilmente, anche (e forse ancor di più) se inteso come relativo assoluto. In realtà tu e Angelo Cannata fate lo stesso discorso, entrambi avete pretese assolute anche se di segno opposto. La fondatezza delle proprie tesi lasciamole lontane dall'assoluto, stiamoci lontani dall'assoluto se vogliamo sopravvivere un po' meglio insieme. L'assoluto c'è, ma va tenuto a giusta distanza finché viviamo, perché solo nello spazio di questa distanza possiamo vivere e convivere. La fondatezza dei nostri principi non sta nel porli come assoluti, ma al contrario, pur ritenendoli giusti e sommamente giusti perché ci fanno essere quello che siamo, nel porli come sempre discutibili quando si tratta di attuarli, commisurandoli ai contesti, confrontandoci con le altrui realtà che determinano modi diversi di vivere e sentire, affinché, se proprio deve essere qualcosa, l'assoluto lo si possa vedere solo come un parziale relativo in cammino insieme ad altri relativi. L'assoluto è il relativo percorrere il nostro cammino insieme per tornare sempre a ciò che siamo, nelle relazioni che sole ci fanno essere proprio ciò che siamo.

Maral, ma se io, per esempio, sostenessi che la Tolleranza è l'Assoluto, sarebbe lo stesso una forma di violenza? SE impongo che tutti DEVONO essere tolleranti cadrei in contraddizione, perché la mia prassi sarebbe la tollerenza,  e quindi sarei semplicemente incoerente. Avendo 'fiducia' che l'assoluto  è tolleranza tollererei coloro che non sono tolleranti, per essere coerente con il mio assolutismo.
Non so...c'è qualcosa che non mi torna nel tuo ragionamento... :)
Sono d'accordo con davintro che è il contenuto che determina la carica violenta di una particolare visione teorica,quando si fa prassi impositiva. 
Mi sembra anche che , in questa discussione, ci sia un uso ambiguo del termine 'violenza'. Come fa la forza ad essere sempre violenta? Per costruire qualunque cosa è necessaria la forza. La forza può essere costruttiva o distruttiva a seconda dell'uso che se ne fa. Illudersi di poter vivere in un mondo privato di una certa forza è assurdo, a parer mio. Anche solo per poter superare una grave malattia, per es., è necessaria la forza (d'animo in questo caso) e un imposizione ( a se stessi ). E' possibile 'educare' un bimbo senza usare un certo grado di imposizione?  Chi ha dei figli credo comprenda perfettamente quello che intendo. A meno che, per voler evitare qualsiasi grado d'imposizione ( a se stessi e agli altri) non si ritenga preferibile tornare a saltellare su e giù dagli alberi gridando 'bunga, bunga!', ma allora s'imporrà su di noi la forza del predatore che ci farà correre in modo assai poco relativo... ;D
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.

Angelo Cannata

Tutti questi ultimi interventi continuano a trattare il relativismo come se fosse una metafisica.

Trovo interessante che maral, dopo aver sostenuto l'innegabilità dell'assoluto, lo dichiari fonte di ogni violenza. Da un particolare punto di vista mi troverei d'accordo: non parlo metafisicamente, ma esistenzialmente: come percezione esistenziale, trovo innegabile (non venitemi a dire che ora sto facendo un'affermazione di certezza metafisica) l'esistenza del male. Per me il male è la realtà, nel momento in cui essa s'impone alla mia libertà di pensiero e mi impedisce di pensare diversamente. Per esempio, una pietra che sta cadendo sulla mia testa forse non esiste, ma come esperienza di vita sono costretto a trattarla come esistente. Ciò è violenza. Non mi sto riferendo alla violenza nel senso del dolore che la pietra causerebbe alla mia testa: il dolore è solo un'arma di ricatto che la realtà usa contro di me per un'imposizione molto più grave e pesante: l'imposizione sulla mia libertà di pensiero.

Da questo punto di vista la realtà c'impone forzatamente di pensarla metafisicamente, ma non tutto è perduto: per lo meno io posso tentare di non imporre agli altri i miei modi di pensare, i miei schemi mentali: questo è il tentativo del relativista: lavorare per vedere se sia possibile non imporre qualcosa.

Questa è anche una chiave di lettura con cui è possibile interpretare la vicenda di Gesù: male, violenza, morte, sono la stessa cosa. La morte di Gesù è la vittoria della realtà che riesce ad imporsi sul soggetto e lo costringe a non dubitare, non perché essa riesca a dimostrarsi vera, ma attraverso il ricatto della violenza; la risurrezione rappresenta il tentativo di esistere umanamente senza imporsi.

Sariputra

Citazione di: Angelo Cannata il 10 Marzo 2017, 08:12:32 AMTutti questi ultimi interventi continuano a trattare il relativismo come se fosse una metafisica. Trovo interessante che maral, dopo aver sostenuto l'innegabilità dell'assoluto, lo dichiari fonte di ogni violenza. Da un particolare punto di vista mi troverei d'accordo: non parlo metafisicamente, ma esistenzialmente: come percezione esistenziale, trovo innegabile (non venitemi a dire che ora sto facendo un'affermazione di certezza metafisica) l'esistenza del male. Per me il male è la realtà, nel momento in cui essa s'impone alla mia libertà di pensiero e mi impedisce di pensare diversamente. Per esempio, una pietra che sta cadendo sulla mia testa forse non esiste, ma come esperienza di vita sono costretto a trattarla come esistente. Ciò è violenza. Non mi sto riferendo alla violenza nel senso del dolore che la pietra causerebbe alla mia testa: il dolore è solo un'arma di ricatto che la realtà usa contro di me per un'imposizione molto più grave e pesante: l'imposizione sulla mia libertà di pensiero. Da questo punto di vista la realtà c'impone forzatamente di pensarla metafisicamente, ma non tutto è perduto: per lo meno io posso tentare di non imporre agli altri i miei modi di pensare, i miei schemi mentali: questo è il tentativo del relativista: lavorare per vedere se sia possibile non imporre qualcosa. Questa è anche una chiave di lettura con cui è possibile interpretare la vicenda di Gesù: male, violenza, morte, sono la stessa cosa. La morte di Gesù è la vittoria della realtà che riesce ad imporsi sul soggetto e lo costringe a non dubitare, non perché essa riesca a dimostrarsi vera, ma attraverso il ricatto della violenza; la risurrezione rappresenta il tentativo di esistere umanamente senza imporsi.

Ma che problema c'è nell'imporsi qualcosa? Nella tua visione , che da quel che capisco ruota attorno al tentativo di sentirsi libero da qualunque imposizione ( libertà...assoluta :)) non parli mai della necessità, per l'esistere stesso, di un certo grado d'imposizione, in primo luogo a se stessi. Imporsi di fare qualcosa è un atto stesso dell'esistere, per cui devo necessariamente esercitare una data forza ( mentale, morale , materiale, ecc.) e una certa violenza ( pensa solo a tutto il processo della nutrizione e della sofferenza che genera negli esseri senzienti e la cui violenza che esercitiamo è necessaria per la nostra sopravvivenza...). La pietra che cade in testa non è "il male", ma "fa male". La pietra non vuole imporci nulla, è la nostra frustrazione generata dalla botta che ci fa urlare ' la vita è un male'. Non sta esercitando un ricatto, è l'Io che esplode infuriato e pensa che la realtà genera un'"imposizione sulla mia libertà di pensiero". Il problema è dalla nostra parte e non dalla parte della realtà. La realtà è la realtà, è quello che è ( che ci appare). E' l'Io nevrotico che vive la realtà come fosse qualcosa che vuole imporsi contro la sua libertà ( da che cosa poi? Da cosa vuol essere libero l'Io? Dal soffrire?). Se osserviamo questa nevrosi dell'io con distacco, con consapevolezza, non c'è nulla che può esserci imposta, nulla che può attaccarsi alla nostra libertà dalla nevrosi dell'io.
Ma sto facendo del buddhadharma e quindi la tronco qui... ;D
Sulla strada del bosco
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donquixote

Citazione di: Angelo Cannata il 10 Marzo 2017, 08:12:32 AMio posso tentare di non imporre agli altri i miei modi di pensare, i miei schemi mentali: questo è il tentativo del relativista: lavorare per vedere se sia possibile non imporre qualcosa.

Bisogna dire che questo ti riesce benissimo, soprattutto quando dai giudizi "tranchant" su normalissime affermazioni altrui e ti rivolgi anche agli "sbirri" per tentare di imporli. A parte tutta una serie di ragionamenti a mio avviso senza capo né coda che si riducono ad un semplice parolare intorno al nulla quando poi si tratta di "metterli in pratica" nell'ambito di argomenti specifici emerge esattamente l'opposto di ciò che predichi, e tutta la proclamata "libertà di pensiero" del "relativista" si riduce al banale appiattimento sull'ideologia unica del modernissimo politically correct, che la maggioranza della gente ha assimilato naturalmente senza aver avuto la necessità di "pensarlo" nemmeno per un secondo. Se l'albero si riconosce dai frutti...
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

sgiombo

#69
Citazione di: maral il 09 Marzo 2017, 23:40:37 PM
@davintro, l'assoluto non può assolutamente essere tollerante, se non rinunciando al suo essere assoluto. Nell'ottica dell'assoluto che definisce un contenuto particolare come assoluto (dice precisamente che cosa solo va considerato assoluto) è evidente che la forza può solo essere violenza e lo è sempre stata, per ogni assoluto che si è proclamato, fosse principio di fede o di ragione, comandamento dell'amore compreso e soprattutto (proprio in nome dell'amore, la caritas, si può raggiungere il massimo della violenza), perché qualsiasi assoluto può convincere solo con la fede e la fede è volontà di credere che con la volontà si deve imporre facendo violenza assoluta su se stessi quando si dubita e su ogni altro che non ci crede, altrimenti, di nuovo, che assoluto è?

CitazioneIn premessa ringrazio Davintro per la sua lucidissima esposizione che condivido pienamente.

Come tu stesso hai rilevato nella tua ultima risposta ad Angelo Cannata, caro Maral, il significato di ogni concetto é relativo (ad altri concetti che negandolo, almeno in qualche misura, lo determinano: "omnis determinatio est negatio" - Spinoza).

Ma "relativo" é negazione di "assoluto" e non di "intollerante", mentre "assoluto" é negazione di !"relativo" e non di "tollerante"; negazione di "tollerante" é invece "intollerante" e viceversa (il relativismo e/o l' assolutismo riguardano soprattutto, almeno nella mia personale, relativa -!-  alle mie convinzioni, interpretazione, le credenze, mentre la tolleranza e l' intolleranza riguardano soprattutto l' agire verso gli altri, imponendo loro le proprie convinzioni teoriche e/o le proprie pratiche o lasciandoli liberi di pensare e fare come gli pare).

Ergo: si può benissimo essere relativisti e intolleranti e assolutisti e tolleranti, oltre che viceversa; e lo confermano pratiche intolleranti (ignorerò ovviamente qualsiasi eventuale obiezione o commento di Fahreneit in proposito) come il divieto del velo cosiddetto molto impropriamente "islamico" (la mia nonna -del nord Italia: Cremona- che l' ha sempre portato era cattolicissima!) in Francia in nome dell' ideologia relativistica ivi dominante.

Assolutisti (nel pensiero, in campo teorico) possono benissimo mettere in dubbio il proprio assolutismo e cercare di fondarlo su ragionamenti vagliati criticamente (giusti o sbagliati teoricamente che siano) e convincere altri (di fatto; nella verità e/o nella coerenza logica o meno delle loro argomentazioni) delle loro credenze col ragionamento e la critica razionale e non esigendo una fede acritica. Un assolutismo teorico che si coniugasse con questa pratica sarebbe semplicemente un logicamente coerentissimo assolutismo tollerante.
Infatti "assoluto" non é negazione di "razionale"* o di "critico" e "relativo" non é negazione di "irrazionale" o di "acritico".



____________________
* Anche se lontanamente nella sua etimologia la "ratio" deriva dalla "relazione" di cui era originariamente sinonimo; ma le parole possono cambiare e a volte di fatto cambiano significato.

Duc in altum!

**  scritto da Angelo Cannata:
Citazionequesto è il tentativo del relativista: lavorare per vedere se sia possibile non imporre qualcosa.
Arrivi in ritardo c'è già Gesù che ci è riuscito! E come ex/sacerdote dovresti sapere che questa dimensione che tu definisci relativista, è possibile raggiungerla anche da chi a Lui si abbandona. E' questo il vero tentativo.
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

Duc in altum!

**  scritto da Angelo Cannata:
Citazioneil relativismo può essere seguito solo da chi è disposto a perenne irrequietezza, continue sconfitte, un continuo essere su strada senza mai poter avere chiarezza su quale sia la destinazione.
Quindi è una scelta di vita (secondo me molto sado), e se hai scelto questo sentiero, siccome non c'è prova che sia una decisione ragionevole, è per la fiducia (leggasi fede) che volente o nolente stai riponendo in esso. Non sai se la destinazione sia vera, prendi bastonate, ma continui nello stesso sentiero, né più né meno di ciò che fanno e hanno fatto da sempre, con e per fede, i seguaci di qualsiasi religione.
Non c'è peggior cieco di colui che decide di non voler osservare.

Pace&Bene
"Solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso;
allora sei ormai soltanto un prodotto casuale dell'evoluzione".
(Benedetto XVI)

baylham

L'assoluto non è tollerante o intollerante, violento o non violento, l'assoluto non dipende dalla forza o dalla debolezza, semmai è il relativo ad essere tollerante o intollerante, violento o nonviolento, a dipendere dalla forza o dalla debolezza. E' appunto il relativo che pretende di essere assoluto a diventare violento o non violento, tollerante o intollerante. L'assoluto è tutto, comprende ogni parte, ogni uomo è parte del tutto, quindi relativo.

donquixote

Citazione di: baylham il 10 Marzo 2017, 10:08:21 AML'assoluto non è tollerante o intollerante, violento o non violento, l'assoluto non dipende dalla forza o dalla debolezza, semmai è il relativo ad essere tollerante o intollerante, violento o nonviolento, a dipendere dalla forza o dalla debolezza. E' appunto il relativo che pretende di essere assoluto a diventare violento o non violento, tollerante o intollerante. L'assoluto è tutto, comprende ogni parte, ogni uomo è parte del tutto, quindi relativo.

Sono anni che scrivo che il problema non è l'assoluto (che essendo ab-solutus ovverosia slegato è in sé e per sé e non necessita di altro che di se stesso) ma l'assolutizzazione del relativo, che a quanto pare è un concetto molto difficile da comprendere. Tutto dipende dall'assoluto ed è relativo ad esso (ovvero in relazione di dipendenza con questo), e porre come assoluto qualcosa che non lo è (sia questo la vita, il bene, l'uomo, la natura, un dio particolare, l'economia, l'uguaglianza o qualunque altro relativo) è proprio ciò che genera la violenza di doverlo imporre, dato che essendo un relativo non si può imporre da solo, determinando conseguenze disastrose. Solo assumendo il punto di vista dell'assoluto si può riuscire a comprendere tutti i relativi (e anche le relazioni sussistenti non solo con l'assoluto ma anche fra di loro) e dar loro il corretto valore senza necessità di alcun tipo di imposizione.
Non c'è cosa più deprimente dell'appartenere a una moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell'appartenere a una moltitudine nel tempo. NGD

Sariputra

#74
Citazione di: donquixote il 10 Marzo 2017, 10:46:07 AM
Citazione di: baylham il 10 Marzo 2017, 10:08:21 AML'assoluto non è tollerante o intollerante, violento o non violento, l'assoluto non dipende dalla forza o dalla debolezza, semmai è il relativo ad essere tollerante o intollerante, violento o nonviolento, a dipendere dalla forza o dalla debolezza. E' appunto il relativo che pretende di essere assoluto a diventare violento o non violento, tollerante o intollerante. L'assoluto è tutto, comprende ogni parte, ogni uomo è parte del tutto, quindi relativo.
Sono anni che scrivo che il problema non è l'assoluto (che essendo ab-solutus ovverosia slegato è in sé e per sé e non necessita di altro che di se stesso) ma l'assolutizzazione del relativo, che a quanto pare è un concetto molto difficile da comprendere. Tutto dipende dall'assoluto ed è relativo ad esso (ovvero in relazione di dipendenza con questo), e porre come assoluto qualcosa che non lo è (sia questo la vita, il bene, l'uomo, la natura, un dio particolare, l'economia, l'uguaglianza o qualunque altro relativo) è proprio ciò che genera la violenza di doverlo imporre, dato che essendo un relativo non si può imporre da solo, determinando conseguenze disastrose. Solo assumendo il punto di vista dell'assoluto si può riuscire a comprendere tutti i relativi (e anche le relazioni sussistenti non solo con l'assoluto ma anche fra di loro) e dar loro il corretto valore senza necessità di alcun tipo di imposizione.

E' nell'assoluto che si risolvono le apparenti ( per l'uomo) contraddizioni del relativo. Come si 'attinge' all'assoluto per risolvere le contraddizioni? Si potrebbe forse iniziare con il non-attaccarsi e identificarsi con le contraddizioni relative?...Chiaro che non si deve trattare di formulare l'ennesima teoria ( relativa) sull'assoluto...
Sulla strada del bosco
Una ragazza in lacrime
Trattiene rondini nei capelli.