Menu principale

Relativismo assoluto

Aperto da fdisa, 12 Ottobre 2017, 18:30:48 PM

Discussione precedente - Discussione successiva

Phil

Citazione di: Il_Dubbio il 27 Gennaio 2018, 01:24:11 AM
Qualcuno diceva che le cose nascono per un qualche tipo di relazione e non c'è nulla di assoluto. Ma le relazioni causano dei relativi. [...] il meccanismo di relazione deve pur essere un assoluto (altrimenti non avremmo alcuna relazione) 
Secondo me, il meccanismo di relazione in-solubile (più che as-soluto) è la relazione mente/mondo: i problemi della fondazione dell'identità, della relazione fra le identità, dell'identità della presunta verità, etc. originano tutti dalla relazione (biologica, anzitutto) mente-mondo. Relazione che è di per sé relativa (immanente) a ogni mente che si relaziona al mondo, secondo quel prospettivismo inaggirabile del vivere coscientemente in prima persona (e quindi il mondo è sempre, di base, il "mio" mondo, il mondo-per-me, relativo alla mia relazione con esso... ed ecco perché gli altri potrebbero essere zombie, potrei essere una farfalla che sogna, etc.).

Citazione di: Apeiron il 28 Gennaio 2018, 12:55:44 PM
Il fatto che la "vacuità" sia vuota secondo me singifica semplicemente che anche il relativismo ontologico è una mappa, ovvero è un modello ontologico. Ma se ogni cosa in fin dei conti è priva di una identità proprio (perchè non può esseere pensata separata dal resto) allora segue chiaramente che in un certo senso "non esiste". In sostanza a livello "fondamentale" non c'è nessun "ente" e la vacuità stessa è una semplice mappa.
Direi che è tuttavia una mappa in cui non sono tracciate frontiere (che separano le identità), senza nomi di città, mari o monti (che identificano), senza nemmeno le linee delle coordinate topografiche (che sono una meta-mappa arbitraria, assente nel territorio tangibile).
A questo punto, più che una mappa, otteniamo un ritratto, una foto in scala, che magari non ci dice molto, proprio perché in fondo nemmeno la realtà ci dice molto spontaneamente, siamo piuttosto noi a farla "parlare" dal nostro ventre (scienziati e filosofi sono ventriloqui! ;D ), estorcendole informazioni basate sulle identità che noi stessi circoscriviamo convenzionalmente.
Intendiamoci: ciò è estremamente utile, ormai inevitabile, ci serve a muoverci nel mondo, a impostare il gioco della vita razionalizzata in società (anche se talvolta significa fantasticare su un'ontologia che possa guidarci oltre l'orizzonte umano, fino all'agognata cosa-in-sè).

Citazione di: Apeiron il 28 Gennaio 2018, 12:55:44 PM
Ma è anche vero che forse Nagarjuna aveva intenzione di "trascendere" anche la posizione del "no-thingness", andando oltre ogni opinione. Trascendendo quindi ogni "opinione" si sarebbe raggiunta l'imperturbabilità (ma ciò significa che la "realtà" non può essere concettualizzata... ma ciò non toglie che la "vacuità" sia la migliore mappa).
La presunta realtà può essere concettualizzata (e infatti lo è), ma farlo significa imporre una sovrastruttura alla realtà, un filtro razionalizzato che, in un certo senso, adombrandola tramite identità arbitrarie, ce la rende più oscura...
Se non c'è "qualcosa" (no-thingness), allora non c'è identità; se non c'è identità, non c'è opinione; se non c'è opinione, non c'è migliore/peggiore; se non c'è migliore/peggiore, resta solo una realtà che non è "qualcosa"  ;)

Citazione di: Apeiron il 28 Gennaio 2018, 12:55:44 PM
Quindi mentre l'ontologia riguarda la creazione di modelli sulla realtà, l'epistemologia riguarda il rapporto tra modelli e realtà. Dire che però nessun modello riesce ad "afferrare" la realtà-così-com'è è ben diverso da dire che non esistono modelli migliori di altri, che non esiste un modello migliore di tutti ecc.
Eppure, per dire che nessun modello afferra la realtà così com'è, dovremmo poter (ri)conoscere la realtà così com'è (o almeno fondare la sua possibilità): per dire che nessuno ha dato la risposta giusta, dovrei prima sapere qual'è, o almeno se c'è... la fisica newtoniana è stata la riposta giusta per molto tempo e, nella banale vita quotidiana, lo è ancora.
Uscendo dal quotidiano, per me, c'è invece una saggezza "gustosamente insipida" nel pensare che una non-mappa, sotto sotto, è la mappa migliore  :)

Apeiron

PHIL
Direi che è tuttavia una mappa in cui non sono tracciate frontiere (che separano le identità), senza nomi di città, mari o monti (che identificano), senza nemmeno le linee delle coordinate topografiche (che sono una meta-mappa arbitraria, assente nel territorio tangibile).
A questo punto, più che una mappa, otteniamo un ritratto, una foto in scala, che magari non ci dice molto, proprio perché in fondo nemmeno la realtà ci dice molto spontaneamente, siamo piuttosto noi a farla "parlare" dal nostro ventre (scienziati e filosofi sono ventriloqui! ), estorcendole informazioni basate sulle identità che noi stessi circoscriviamo convenzionalmente.
Intendiamoci: ciò è estremamente utile, ormai inevitabile, ci serve a muoverci nel mondo, a impostare il gioco della vita razionalizzata in società (anche se talvolta significa fantasticare su un'ontologia che possa guidarci oltre l'orizzonte umano, fino all'agognata cosa-in-sè).

Risposta di APEIRON
Sì concordo che in ultima analisi la "vacuità della vacuità" costringe ad abbandonare tutte le mappe e quindi di fatto non è una mappa. In genere tale espressione secondo me ha due significati, non necessariamente distinti. Primo: la vacuità non è una "realtà effettiva", così come l'assenza di rinoceronti non è una "cosa". L'altro significato è che come ben fai notare tu ogni mappa è un "ventriloquio", ergo per liberarsi dalla nostra prospettiva bisogna "liberarsi" da tutte le mappe, vacuità/genesi dipendente/relativismo ontologico compreso. Quello che rimane è l'esperienza diretta, aldilà di ogni costruzione concettuale.

 PHIL
La presunta realtà può essere concettualizzata (e infatti lo è), ma farlo significa imporre una sovrastruttura alla realtà, un filtro razionalizzato che, in un certo senso, adombrandola tramite identità arbitrarie, ce la rende più oscura...
Se non c'è "qualcosa" (no-thingness), allora non c'è identità; se non c'è identità, non c'è opinione; se non c'è opinione, non c'è migliore/peggiore; se non c'è migliore/peggiore, resta solo una realtà che non è "qualcosa" 

Risposta di APEIRON
A livello ultimo Nagarjuna probabilmente concorderebbe con te. Ma ti direbbe che esistono, per esempio, il karma e il ciclo delle rinascite ecc. Come riuscire a concilirare queste due cose? In fin dei conti la scuola madhyamaka dice esplicitamente che il "soggetto" è un costrutto che imponiamo sulla realtà. Come superare l'empasse? Ecco, questo è una delle cose che non convince del buddhismo, specie madhyamaka. L'unica possibilità che rimane è riconoscere che "qui e ora" siamo "convinti" che le "cose" esistano. La "mappa migliore" è quella che porta alla "liberazione" da tale convinzione. Il problema è che, chiaramente, come ben fai notare non c'è né identitòà, non c'è opionione, non c'è "peggiore/migliore" a livello ultimo. A livello "convenzionale" sì, però. E per tutti gli esseri "non risvegliati" la vita "di fatto" è nella "realtà convenzionale", non ultima: ovvero per noi esistono "cose". La migliore "mappa" però è quella che, come una zattera, ci porta al realizzare la vacuità. Una volta realizzata la "no-thingness" si è trascesa la realtà convenzionale e quindi solo a questo punto si può abbandonare la distinzione tra "migliore e peggiore". Il problema della filosofia di Nietzsche è che vuole saltare dalla zattera prima del raggiungimento effettivo dell'altra sponda e questa importantissima distinzione distingue Nagarjuna e i buddhisti madhyamaka dai nichilisti, secondo me. Non a caso i buddhisti credono nell'efficacia della moralità, nel karma ecc. Nietzsche (e altri "relativisti") no. (Inoltre il karma vale allo stesso modo per tutti i soggetti, ergo è una verità universale ma non assoluta (o "ultima")).

PHIL
Eppure, per dire che nessun modello afferra la realtà così com'è, dovremmo poter (ri)conoscere la realtà così com'è (o almeno fondare la sua possibilità): per dire che nessuno ha dato la risposta giusta, dovrei prima sapere qual'è, o almeno se c'è... la fisica newtoniana è stata la riposta giusta per molto tempo e, nella banale vita quotidiana, lo è ancora.
Uscendo dal quotidiano, per me, c'è invece una saggezza "gustosamente insipida" nel pensare che una non-mappa, sotto sotto, è la mappa migliore 

Risposta di APEIRON
Se per te una non-mappa è la migliore mappa (o più precisamente: è migliore anche della mappa migliore  :)  paradossale, no? Ma a noi i paradossi piacciono) allora direi che la tua "visione delle cose" è simile a quella del buddhismo madhyamaka. Ma qui c'è l'inghippo: questi filosofi indiani sono certamente convinti dell'esistenza di verità universali (genesi dipendente, karma, rinascite, bene/male ecc) che valgono per tutti i soggetti. Ma ironicamente a livello ultimo questi soggetti non ci sono (anatman, non-sé), quindi a livello ultimo le verità universali in realtà sono una sorta di "velo illusorio" da "oltrepassare". Ovvero: per i soggetti, per gli "esseri senzienti" ci sono verità universali. Ma è anche vero che a livello ultimo vige l'anatman secondo questa visione delle cose!

Personalmente la ritengo una filosofia molto affascinante, ma non  mi convince completamente. Paradossalmente ero più convinto del fatto che il mio "io" fosse un "epifenomemo" prima di studiare le filosofie buddhiste, advaita vedanta ecc una volta studiate seriamente però mi sono reso conto invece di quanto è "paradossale" che il mio "io" non sia sostanziale. Paradossalmente si può dire che lo studio del buddhismo mi ha fatto ri-scoprire l'io. Paradossale, no? Eppure a me i paradossi affascinano ecc
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Il_Dubbio

Citazione di: Phil il 28 Gennaio 2018, 16:28:20 PM
Citazione di: Il_Dubbio il 27 Gennaio 2018, 01:24:11 AM
Qualcuno diceva che le cose nascono per un qualche tipo di relazione e non c'è nulla di assoluto. Ma le relazioni causano dei relativi. [...] il meccanismo di relazione deve pur essere un assoluto (altrimenti non avremmo alcuna relazione)
Secondo me, il meccanismo di relazione in-solubile (più che as-soluto) è la relazione mente/mondo: i problemi della fondazione dell'identità, della relazione fra le identità, dell'identità della presunta verità, etc. originano tutti dalla relazione (biologica, anzitutto) mente-mondo. Relazione che è di per sé relativa (immanente) a ogni mente che si relaziona al mondo, secondo quel prospettivismo inaggirabile del vivere coscientemente in prima persona (e quindi il mondo è sempre, di base, il "mio" mondo, il mondo-per-me, relativo alla mia relazione con esso... ed ecco perché gli altri potrebbero essere zombie, potrei essere una farfalla che sogna, etc.).


Questo sembra un altro giochino filosofico. Siamo sempre nella medesima situazione di quando ci domandavamo qual è la domanda migliore che potremmo fare al genio. 

Che domanda ci stiamo ponendo? Ma ancora, di cosa vogliamo parlare? Se il punto di partenza è l'esperienza che noi abbiamo del mondo, cioè se partiamo gia dal considerare la relazione tra la nostra mente e il mondo, sembra che ce la siamo gia data una risposta.
Nella mia breve risposta ho invece fatto riferimento alla relazione più che agli "oggetti" messi in relazione. Ad esempio che relazione è quella tra la mia mente e il mondo? Se fosse simmetrica, io esisto (come coscienza di me stesso) in quanto ho una relazione con il mondo. Ma posso dire, cosi allegramente, che il mondo esiste solo perchè ha una relazione con me?
Per cui questa relazione può essere di due tipi, simmetrica o a-simmetrica. Ora il punto di partenza per poter parlare di assoluti o relativi è (credo) decidere se la relazione tra le nostre menti e il mondo è di tipo simmetrico o viceversa è a-simmetrico.
Se fosse a-simmetrico credo sia possibile gia poter sostenere che la relazione tra la nostra mente e il mondo assomiglia ad (come spesso ci ricordano gli scienziati fisici) una rottura di simmetria. Rompendosi la simmetria secondo me è chiaro che non è possibile piu sostenere che la relazione tra la nostra mente e il mondo determini in qualche modo il mondo stesso, per cui dobbiamo dare per scontato anche che il mondo è un oggetto che esiste a prescindere dalla nostra mente. Per cui il mondo è reale, mentre noi ci illudiamo di vederlo cosi com'è intrinsecamente ma non è vero. Il mondo è un oggetto che ha una sua realtà intrinseca.

Tutti i discorsi filosofici quindi io credo si dissolverebbero se stabiliamo quale risposta dare alla domanda: la nostra relazione con il mondo è simmetrica o a-simmetrica?
Credo che le domande (filosofiche) risulterebbero ancora interessanti se si stabilisse che la risposta sia la prima. Ma non credo si possa scavalcare questa domanda e passare immediatamente alle relazioni tra gli oggetti se non abbiamo ancora capito quale sia e di che tipo sia questa relazione.

Il_Dubbio

in un certo senso io sono dalla parte della "vacuità" di certi discorsi filosofici. Chiaramente il discorso filosofico nasce nella nostra mente, e potremmo anche stabilire che il mondo reale la fuori abbia contribuito a creare nelle nostre menti certi discorsi filosofici. Se la relazione che hanno i nostri discorsi (filosofici o meno) con il mondo esterno fossero simmetrico, sembrebbe che la fuori ci siano i nostri discorsi filosofici. E' mai possibile?
Allora come nascono questi discorsi se non esiste nulla la fuori che assomiglia ad un discorso filosofico?
E' chiaro che se non c'è simmetria, mente e realtà fuori sono entità che vivono in relazione ma che sono anche entità esistenti non dipendi dalla loro relazione.
Quello che pensa il filosofo non dipende dalla realtà, e la realtà non dipende da quello che pensa il filosofo.

Per finire, se la relazione fosse assimetrica sarebbe una relazione vera per tutti i soggetti. Per cui non è possibile dire che ogni relazione raggiunge una verità (per dirla in altro modo, che tutto è relativo e questo sarebbe l'assoluto), o che sia la relazione a identificare una realtà. La realtà esisterebbe a prescindere dalle relazioni.

Come ho gia detto sopra, sarebbe molto più interessante se la risposta fosse per una relazione simmetrica. Ma non credo che si possa dire che queste due idee (simmetria o assimetria) siano relative. Relative a cosa? O vale una o l'altra...per cui il tipo di relazione (come ho tentato di dire due post prima di questo) è di tipo assoluto.

Phil

Citazione di: Apeiron il 29 Gennaio 2018, 12:37:15 PM
L'unica possibilità che rimane è riconoscere che "qui e ora" siamo "convinti" che le "cose" esistano. La "mappa migliore" è quella che porta alla "liberazione" da tale convinzione. Il problema è che, chiaramente, come ben fai notare non c'è né identità, non c'è opionione, non c'è "peggiore/migliore" a livello ultimo. A livello "convenzionale" sì, però. E per tutti gli esseri "non risvegliati" la vita "di fatto" è nella "realtà convenzionale", non ultima: ovvero per noi esistono "cose".
Le due realtà, convenzionale e "ultima" (che sarebbe poi "prima", sia onto-logicamente che crono-logicamente), sono due prospettive che comportano uno strabismo quasi schizofrenico (il rischio c'è  ;D ), ma che, in fondo, secondo me, non si escludono necessariamente: pur avendo intuito la realtà ultima, posso attenermi alle regole del "gioco di società" che mi circonda, secondo il quale esistono cose, identità, valori, il mio "io", etc.
Non sono convinto che intravvedere la realtà ultima sia un punto di non ritorno, anzi... non scommetterei che una volta compresa la realtà ultima, il mio corpo debba sublimarsi in un raggio di luce o ascendere nel paradiso dei Budda  ;D  e anche le presunte verità assolute (non parlo da buddista!) risultano plausibilmente tali solo nella realtà convenzionale, poiché in quella "ultima" la categoria di verità o di contraddizione non potrebbero (im)porsi; il karma, i piani dell'esistenza, etc. fanno parte della narrazione convenzionale che invita ad orientarsi verso l'altra realtà, tuttavia costituiscono, sempre secondo me, l'ultimo bordo della zattera da lasciarsi alle spalle quando si tratta di scendere...

Per mediare fra le due realtà. si tratterebbe piuttosto di (re)installarsi nel "mondo" da cui si è partiti (vedi "parabola del bue"), seppur con una consapevolezza profondamente differente, che ci faccia tenere a mente che la convenzionalità per cui ci affaccendiamo, è una sovrastruttura artificiale che si erige a picco sulla realtà ultima (forse non c'è altra alternativa all'affaccendarsi... anche in un monastero avremmo faccende convenzionali da sbrigare, seppur con serafica serenità  :) ).


Citazione di: Il_Dubbio il 29 Gennaio 2018, 19:38:12 PM
Che domanda ci stiamo ponendo? Ma ancora, di cosa vogliamo parlare? Se il punto di partenza è l'esperienza che noi abbiamo del mondo, cioè se partiamo gia dal considerare la relazione tra la nostra mente e il mondo, sembra che ce la siamo gia data una risposta. [...] Ma posso dire, cosi allegramente, che il mondo esiste solo perchè ha una relazione con me?
Non ho confuso il "mondo-in-sé" con il "mio mondo": ho affermato che il mio mondo (in quanto pensato da me) si fonda nella mia relazione prospettica con il mondo(-in-sé), non che "il mondo(-in-sé) esiste perché ha una relazione con me" (non sono così idealista  ;D ).
Il mondo-in-sé è un presupposto onto-logico, il mio mondo è un vissuto come minimo neuro-logico, che mi spinge ad essere "ventriloquo" del mondo-in-sé che interrogo, facendogli parlare la mia lingua secondo le mie categorie mentali, trasformandolo in mio mondo (e magari anche della comunità culturale in cui vivo).

Citazione di: Il_Dubbio il 29 Gennaio 2018, 19:38:12 PM
Per cui questa relazione può essere di due tipi, simmetrica o a-simmetrica. Ora il punto di partenza per poter parlare di assoluti o relativi è (credo) decidere se la relazione tra le nostre menti e il mondo è di tipo simmetrico o viceversa è a-simmetrico.[...] Ma non credo che si possa dire che queste due idee (simmetria o assimetria) siano relative. Relative a cosa? O vale una o l'altra...per cui il tipo di relazione (come ho tentato di dire due post prima di questo) è di tipo assoluto.
Secondo me, simmetria e asimmetria fra mente e mondo, sono inevitabilmente relative (immanenti e contingenti) alla stessa mente umana che pensa il problema della relazione mente-mondo...
Per decidere su asimmetria o simmetria, dovremmo infatti rispondere alla meta-domanda: come verificare che tale relazione sia simmetrica o asimmetrica, se non prescindendo/uscendo dalla relazione mente-mondo? Davvero è possibile andare oltre tale relazione, oppure ogni congettura sulla relazione mente-mondo partirà viziosamente dall'interno della stessa relazione mente-mondo (e quindi non potrà essere "oggettivamente attendibile" nel discriminare asimmetria e simmetria)?

Restando nella relazione mente-mondo (ammesso e non concesso che sia possibile uscirne, almeno da vivi  ;) ), forse il modo più innocuo di pensare al mondo (inteso come realtà), salvaguardandolo dalla deformazione della mente individuale, è cercare quella visione della realtà "ultima" a cui si riferiva Apeiron coinvolgendo il buddismo: più sospendiamo i meccanismi razionali gnoseologici, più il nostro punto di vista perde di "mentalità umana" e diventa quasi, asintoticamente, esperienza del mondo in sé, per quanto umanamente possa essere compreso (ma non scientificamente "spiegato").

Il_Dubbio

Citazione
Secondo me, simmetria e asimmetria fra mente e mondo, sono inevitabilmente relative (immanenti e contingenti) alla stessa mente umana che pensa il problema della relazione mente-mondo...
Per decidere su asimmetria o simmetria, dovremmo infatti rispondere alla meta-domanda: come verificare che tale relazione sia simmetrica o asimmetrica, se non prescindendo/uscendo dalla relazione mente-mondo? Davvero è possibile andare oltre tale relazione, oppure ogni congettura sulla relazione mente-mondo partirà viziosamente dall'interno della stessa relazione mente-mondo (e quindi non potrà essere "oggettivamente attendibile" nel discriminare asimmetria e simmetria)?

Se ci si chiede come verificare una o l'altra relazione vuol dire che non ci troviamo piu in ambito filosofico ma scientifico.  Cioè se non so dare una risposta prima ancora di una verifica sperimentale vuol dire che non so che pesci prendere per cui aspetto il responso di una sperimentazione. Nemmeno una teoria scientifica funzionerebbe in questi termini. Una teoria scientifica da delle risposte, poi la verifica sperimentale stabilisce se quelle erano giustificate o meno.

Però io sono molto fermo sulla questione che riguarda il tipo di domanda che ci poniamo.
Siccome so che questo mio intendo parte da molto lontano ripropongo (solo visualizzato) l'interrogativo che facevo nel vecchio forum.
https://www.riflessioni.it/forum/filosofia/13458-cose-una-domanda.html

il fatto che io ponga come base, per future congetture, una domanda è di vitale importanza.
come scrivevo allora: ammettendo che le balene esistano, in che modo esiste una domanda sulle balene?

Esiste una relazione fra il mondo osservato dalla mente e le domande che ci poniamo su questa relazione? Secondo me è qui che si instaura la frattuta fra il mondo esterno  e la mente. Come infatti, è difficile rispondere a questa domanda in quanto le domande non hanno spessore oggettivo. Non c'è qualcosa (che all'epoca chiamavo spessore, come un anello di un albero) che faccia da relazione tra il mondo e la mente che corrisponda ad una domanda.
La domanda rappresenta, in questo contesto, il punto di relazione tra la mente ed il mondo esterno.
Potremmo anche dire che la tipologia delle domande siano relative, ma non credo siano relative la motivazione che le scatenano.
Per cui la domanda E' la relazione.
Il mondo esterno e la nostra mente sono collegate da domande. Il tipo di domanda può essere relativo al contesto, ma ciò che le scatena ha il "profumo" di assoluto.
Chiaramente qui per assoluto intendo ciò che non dipende da altro se no da se stesso e per giunta valga per ogni tipo di relazione dello stesso tipo.

Non voglio dire che non si possa essere coscienti del mondo senza porsi delle domande, ma il tipo di relazione con il mondo vien posto da una domanda.
Fateci caso, pensateci. Siete soli su una montagna guardando l'orizzonte. Siete coscienti di essere li in quel momento e tutto sembra cosi bello. Siete presi dalla bellezza che quasi vi dimenticate di essere voi a vedere quell'orizzonte. All'improvviso vi chiedete qualcosa: sono veramente io che sto guardando l'orizzonte?  Quella è la frattura. Quella domanda vi manda in tilt...

la filosofia, ma non solo, è fatta di domande. Noi non esisteremmo come specie umana se non avessimo incominciato a farci domande. Ma credo sia opportuno incominciare a guardare alle domande come un anello di congiunzione, ovvero una relazione fra il mondo esterno e noi.
Dove si dice che le cose esistono perche esiste una relazione fra loro, deve valere la relazione come un assoluto.

Mymind

Io più che di un relativismo assoluto, parlerei della relativizzazione dell'assoluto all'interno dell'individuale in un determinato momento, che può modificarsi o meno producendo un susseguirsi di assoluti-individuali.
Come se l'assoluto fosse rappresentato dallo 0 e tutti gli altri numeri rappresentassero il relativo; quindi tramite i numeri possiamo arrivare allo 0, ma cambiando sempre il modo con cui arrivarci (individualità dell'attimo). Ovviamente non sarà un vero assoluto(che si rappresenterebbe meglio col simbolo dell'infinito e quindi irraggiungibile) ma un assoluto-personale, anche se pare un termine contraddittorio(credo sia un limite dell'utilizzo delle parole, spero Wittgenstein mi perdoni)

Apeiron

PHIL
Le due realtà, convenzionale e "ultima" (che sarebbe poi "prima", sia onto-logicamente che crono-logicamente), sono due prospettive che comportano uno strabismo quasi schizofrenico (il rischio c'è  ), ma che, in fondo, secondo me, non si escludono necessariamente: pur avendo intuito la realtà ultima, posso attenermi alle regole del "gioco di società" che mi circonda, secondo il quale esistono cose, identità, valori, il mio "io", etc.
Non sono convinto che intravvedere la realtà ultima sia un punto di non ritorno, anzi... non scommetterei che una volta compresa la realtà ultima, il mio corpo debba sublimarsi in un raggio di luce o ascendere nel paradiso dei Budda    e anche le presunte verità assolute (non parlo da buddista!) risultano plausibilmente tali solo nella realtà convenzionale, poiché in quella "ultima" la categoria di verità o di contraddizione non potrebbero (im)porsi; il karma, i piani dell'esistenza, etc. fanno parte della narrazione convenzionale che invita ad orientarsi verso l'altra realtà, tuttavia costituiscono, sempre secondo me, l'ultimo bordo della zattera da lasciarsi alle spalle quando si tratta di scendere...

Per mediare fra le due realtà. si tratterebbe piuttosto di (re)installarsi nel "mondo" da cui si è partiti (vedi "parabola del bue"), seppur con una consapevolezza profondamente differente, che ci faccia tenere a mente che la convenzionalità per cui ci affaccendiamo, è una sovrastruttura artificiale che si erige a picco sulla realtà ultima (forse non c'è altra alternativa all'affaccendarsi... anche in un monastero avremmo faccende convenzionali da sbrigare, seppur con serafica serenità  ).

Risposta di APEIRON

Penso che almeno certi buddhisti Mahayana sarebbero d'accordo con te! E anzi su questo è nata la controversia tra i Mahayana e le altre scuole del "primo buddhismo", Theravada compreso. Nel Theravada una volta "raggiunto" il Risveglio, una volta che si è compresa la "verità ultima", non c'è più nient'altro da fare: il monaco continua la sua esistenza enll'imperturbabilità fino alla morte fisica. Alla morte cessano tutte le sensazioni ecc e "rimane" solo l'incondizioato, il nirvana (lo status del monaco risvegliato come forse avrai sentito è indescrivibile). L'idea è però che ottenere la verità ultima corrisponde alla cessazione. Già però prima dell'anno zero alcuni gruppo ritenevano che in realtà i monaci discepoli non avevano finito "il cammino", visto che, secondo loro, esso finisce con la "Buddhità". In sostanza questi monaci erano in disaccordo sul fatto che la cessazione fosse permanente - quasi che fosse un "reame" altro da quello nostro. E nacque l'idea del "nirvana non permanente": in questo "stato" è possibile ritornare nel samsara per aiutare gli esseri senzienti. Ergo l'idea che dici tu del fatto che nemmeno la verità ultima è definitiva ha un riflesso anche dal punto di vista - diciamo - esistenziale. Se niente è fisso, d'altronde, non c'è nemmeno il concetto di "irreversibilità" (ovviamente il "beato" che ritorna non è lo stesso di quello che è "partito", non è differente ecc). In fin dei conti N. (il nostro amico Nagarjuna) diceva che l'obbiettivo della dottrina della "vacuità" non era quello di creare una nuova visione delle cose, ma di liberare la mente da ogni visione delle cose. Da qui la famosa (e malcompresa) equazione samsara=nirvana. Ovviamente un Theravada che si rifà al buddhismo più "antico" tutto questo è problematico: alla morte fisica del "risvegliato" vi è la "fine". Se le ho sparate grosse sul "nirvana non eterno" ( apratisthita-nirvana) spero che il @Sari mi bacchetti a dovere. Comunque lo stesso N. dice chiaramente che "l'obbiettivo è liberarsi da ogni visione delle cose", quindi non mi sorprenderebbe se anche il suo testo va letto in quest'ottica (in fin dei conti a livello di verità ultima ci dice che non possiamo dire né che le cose nascono né che vengono distrutte né che non esistono né che non non-esistono né che sono permanenti ecc)

Per quanto mi riguarda concordo con te. Secondo me voler "scappare" dal mondo "convenzionale" ha senso fino ad un certo punto. La cosa da cui dobbiamo scappare sono le illusioni, i modi sbagliati di vivere ecc, non dobbiamo scappare dalla vita. In sostanza non dobbiamo "essere schiavi" delle convenzioni ma dobbiamo vederle per quello che sono, strumenti per noi. Ma dimenticare le convenzioni secondo me porta fuori strada. Su questo direi che sono d'accordo. Ma come forse hai capito, secondo me le concettualizzazioni sono più di convenzioni  ;)



Il problema che ho con i relativismi "occidentali" è che in realtà rimuovendo le gerarchie delle convenzioni finiscono per andare dritti nel nichilismo. Ma i "relativisti", gli scettici del mondo antico (Pirrone, N. ecc) erano ben consapevoli dell'importanza delle gerarchie e infatti non a caso molto spesso erano anche molto "moralisti" (nel senso che avevano un fortissimo codice etico). Di certo per quanto convenzionale fosse la morale, questi filosofi seguivano codici rigidissimi, ben diversi dalla "vita aldilà del bene e del male" di Nietzsche &co. Purtroppo questo è un punto che vedo poco sottolineato quando si fanno confronti tra il "postomodernismo", Nietzsche ecc da una parte e Pirrone, N. & co dall'altra. C'è una differenza sottile ma cruciale e per la sua sottigliezza a maggior ragione deve essere rimarcata con molta enfasi ;)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Apeiron

Perdonate l'autocitazione ma lo faccio per fare una precisazione su una parte del mio intervento. Quando ho scritto:

E anzi su questo è nata la controversia tra i Mahayana e le altre scuole del "primo buddhismo", Theravada compreso. Nel Theravada una volta "raggiunto" il Risveglio, una volta che si è compresa la "verità ultima", non c'è più nient'altro da fare: il monaco continua la sua esistenza enll'imperturbabilità fino alla morte fisica.


Ho sovrapposto due cose, in realtà. La prima è che per i Mahayana l'ideale da seguire è quello del "Bodhisattva", ovvero quello di rimanere nel samsara per aiutare "gli esseri senzienti": secondo loro gli altri "veicoli" per il Risveglio sono in qualche modo "carenti". Nel caso dei Theravada anche loro riconoscono che l'ideale "Bodhisattva" è il più alto ed eroico ma lo considerano una rarità (qualche individuo ogni migliaia di anni) e quindi consigliano il "veicolo" del "discepolo". L'altra cosa è che per alcuni Mahayana effettivamente chi finisce il percorso del "discepolo" non ha ancora raggiungo l'obbiettivo completo - ovvero la "Buddhità". Ma questo in teoria è solo una posizione di alcuni Mahayana, non di tutti (nuovamente mi affido al @Sari  :) ).

Detto questo ne approfitto per sapere come secondo voi il "relativismo ontologico" può spiegare le regolarità della natura (le cosiddette "leggi della fisica")... Non riesco a trovare alcuna risposta soddisfacente  :)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

epicurus

Citazione di: Apeiron il 02 Febbraio 2018, 11:06:23 AMDetto questo ne approfitto per sapere come secondo voi il "relativismo ontologico" può spiegare le regolarità della natura (le cosiddette "leggi della fisica")... Non riesco a trovare alcuna risposta soddisfacente  :)
Apeiron, so che sicuramente lo avrai spiegato in altri contesti, ma potresti spiegarmi precisamente cosa intendi tu per "relativismo ontologico"? Intendi solo il concetto "ogni cosa dipende da altro in termini causali" (come mi pare di ricordare da qualche post in questa discussione, ma forse mi sbaglio) o altro?

Apeiron

@epicurus,

per "relativismo ontologico" intendo la posizione per cui ogni cosa non può esistere per sé stessa (o anche che tutto è contingente...). Per esempio un albero necessita di nutrimento, nasce se il seme trova un luogo adatto ecc. Un elettrone esiste a meno che non trovi una sua anti-particella o un protone con cui si "unisce" (per dare un neutrone - come nelle stelle di neutroni). Le rocce rimangono intatte fino a quando non interviene l'erosione. E così via. In sostanza è la negazione che ci siano cose che non siano contingenti - l'esistenza dei tutte le cose dipende dalle circostanze (ne consegue che in un certo senso sono "prive di identità propria", visto che necessitano di "altro". Per esempio un pezzo di legno può essere modellato - se avesse un'identità fissa non potrebbe succedere ciò...). E così via.

Se vuoi quindi è la posizione per cui "non ci sono cose che esistono non contingenti (o "condizionate")".
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

epicurus

Citazione di: Apeiron il 02 Febbraio 2018, 17:52:10 PM
@epicurus,

per "relativismo ontologico" intendo la posizione per cui ogni cosa non può esistere per sé stessa (o anche che tutto è contingente...). Per esempio un albero necessita di nutrimento, nasce se il seme trova un luogo adatto ecc. Un elettrone esiste a meno che non trovi una sua anti-particella o un protone con cui si "unisce" (per dare un neutrone - come nelle stelle di neutroni). Le rocce rimangono intatte fino a quando non interviene l'erosione. E così via. In sostanza è la negazione che ci siano cose che non siano contingenti - l'esistenza dei tutte le cose dipende dalle circostanze (ne consegue che in un certo senso sono "prive di identità propria", visto che necessitano di "altro". Per esempio un pezzo di legno può essere modellato - se avesse un'identità fissa non potrebbe succedere ciò...). E così via.

Se vuoi quindi è la posizione per cui "non ci sono cose che esistono non contingenti (o "condizionate")".
Grazie della spiegazione. Mi pare che l'accezione tradizionale (almeno nella filosofia occidentale) di "relativismo ontologico" sia differente, ma poco importa.

Nella tua accezione, in pratica, significa "non esistono oggetti/eventi logicamente necessari" ("necessità" intesa come "necessità logica"; o almeno io l'ho intesa così, non so tu). Allora anch'io sono relativista ontologico in questa interpretazione.  ;)

Apeiron

#87
@epicurus, non capisco se hai capito  ;D



Necessità logica = X è un ente necessario.


Quello che sto dicendo io è un po' più forte: dico che ciascuna cosa, per così dire, deve la sua esistenza ad altro.
Per esempio io devo riuscire a mangiare per vivere. Un elettrone non deve incontrare per strada un positrone. Un fiore deve essere ben idratato. Un sasso rimane tale sotto certe condizioni...
Ergo l'ente non solo non è un ente necessario, ma non puoi pensarlo esistente se non in relazione con altro. Gli "enti" esistono quindi per "inter-dipendenza": questo influenza quello e quello influenza questo. Io necessito dell'ambiente per vivere ma allo stesso tempo io modifico l'ambiente, vivendo. Non puoi pensare né me né l'ambiente come "indipendenti" perchè interagiamo...

Il "relativismo ontologico" dice: "nessuna cosa esiste indipendentemente". Chiaramente ciò significa anche "nessuna cosa può essere concepita in modo indipendente..." e così via.

Detto questo, per curiosità, quale ti risulta essere l'"accezione tradizionale" del relativismo ontologico?
(non credo che in effetti almeno prima del 1850/1900 sia mai entrato nel pensiero occidentale... prima di allora era solo presente in molte scuole buddhiste - e solo lì, fra l'altro!)

P.S.

Forse qui capisci perchè molti buddhisti arrivano a dire che portato alle sue "naturali" conseguenze perfino dire che "ogni cosa non esiste indipendentemente" è problematico. Non a caso per loro la realtà divisa "per cose" è semplicemente una costruzione concettuale. In realtà procedendo con l'analisi, secondo loro, si scopre che non ci sono nemmeno "cose":  "no-thingness", vacuità, "shunyata" (in fin dei conti se le cose non si possono pensare indipendenti l'una dalle altre forse non si possono nemmeno considerare "cose")...

In realtà tracce di questa dottrina si notano in oriente in altre tradizioni, per esempio il daoismo. Nello Zhuangzi, composto sicuramente prima dell'introduzione del buddhismo in Cina, si legge: "la comprensione degli uomini dei tempi antichi andava lontano. Fino a dove? Così lontano che alcuni di loro non credevano che ci fossero cose [!] - così lontano, alla fine, dove nulla può essere aggiunto. Quelli di grado dopo di loro riconoscevano l'esistenza delle cose ma non riconoscevano confini tra di loro..." (Zhuangzi, Capitolo 2, tradotto dall'inglese da https://terebess.hu/english/chuangtzu.html#2)
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Il_Dubbio

Citazione di: Apeiron il 09 Febbraio 2018, 00:20:19 AM

Quello che sto dicendo io è un po' più forte: dico che ciascuna cosa, per così dire, deve la sua esistenza ad altro.

se questa logica fosse assoluta dovrebbe valere anche per l'universo stesso. Non ti pare? Oppure l'hai già inclusa?

Apeiron

@Il_Dubbio - come ho cercato di far notare, questa non è la mia "visione delle cose" anche se chiaramente mi affascina molto! E il dubbio che poni è serio (e non poteva essere altrimenti, visto il nickname  ;D ) secondo me.

Forse un relativista ontologico ti direbbe che il "tutto" non può essere un oggetto di indagine... oppure che non è possibile definire l'universo come più cose ecc. In sostanza potrebbe farti riflettere sull'assunzione che fai: ovvero che si può considerare il "tutto" come "cosa unica". Se ciò non è possibile, allora la tua domanda non può portare ad una vera obiezione, secondo me.
"[C]hi non pensa di trovarsi nell'indigenza non può desiderare quello di cui non pensa di aver bisogno" (Diotima - Simposio, Platone)

Discussioni simili (5)